Su Venezi e Diop la destra getta la maschera (ilmanifesto.it)

di Cristiano Chiarot

Arte e politica 

Per difendere l’indifendibile si danno, con convinzione, la zappa sui piedi. Il sovrintendente potrebbe cogliere la palla al balzo per revocare la nomina alla Fenice

I senza vergogna sono sempre alla ribalta, la famiglia canterina della destra per attaccare Mia Diop e difendere Venezi, butta la maschera, da primi della fila della classe degli asini svelano i loro vizi. La band di Renzo Arbore non finiva mai nel divertirci al ritmo di una geniale ironia, questi da «arrivano i nostri a cavallo d’un caval» per difendere l’indifendibile si danno, con convinzione, la zappa sui piedi, a dimostrazione che, per fortuna, il taffazismo non è solo a sinistra.

Con gesto melodrammatico esponenti politici e commentatori di destra si stanno stracciando le vesti, paragonando la scelta della nomina di Diop a vicepresidente della Toscana, a quella del neo direttore musicale della Fenice di Venezia.

Ma come? I Fratelli d’Italia non ci avevano spiegato che quella di Venezi nulla aveva a che fare con la politica ? «Non è una nomina politica, ma prevista dalla legge», Mollicone, presidente commissione Cultura Camera dei deputati. «Venezi dimostrerà le sue capacità non perché è donna, non perché è di destra, ma perché è un bravissimo direttore», Giovanni Donzelli, responsabile organizzazione FdI. «Venezi diventerà la principessa di Venezia», ministro Giuli. E pensare che Venezia per undici secoli è stata una Repubblica, e come principessa, solo durante la dominazione austriaca, ha, indirettamente, avuto la celebre Sissi. Altre storie.

Una donna, dunque, che pur giovane, ha già alle spalle anni di impegno politico, viene nominata dal neo rieletto presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani, come sua vicepresidente: nomina politica, legittimata dalla vittoria ottenuta nelle ultime elezioni.

Ora, con il garbo e l’ educazione civile che lo contraddistingue, il generale Vannacci, ormai un tutto insieme di nome e cognome, senza essere ancor sceso da cavallo dell’ultima batosta elettorale presa in Toscana, come un cane arrabbiato abbaia contro Diop, 23 anni, di origini senegalesi, e sulle sue competenze.

E i giovani che devono essere aiutati a formarsi? E la costruzione di una nuova classe dirigente? Sciocchezze, evidentemente. Ma lui che competenze ha, tranne quelle militari? Non certo strategiche, politiche e men che meno culturali, vedi le sue ultime esternazioni sul fascismo.

La sua competenza ha ridotto il suo partito in Toscana al 4,4 per cento. Mentre una outsider di sinistra come Antonella Bundu, che impegnandosi sul territorio, senza mai apparire in tv o sui grandi giornali, ha portato a casa il 5,2 per cento. Se le capacità si misurano dai risultati, il condottiero fascio-leghista dovrebbe starsene a casa sua. Invece no, se la prende con Diop e cita Venezi. Mettendo nei guai i suoi stessi alleati, che neanche sotto tortura ammetterebbero che quella della direttrice lucchese è una nomina politica.

Svelato l’arcano, dunque, che tanto ben nascosto non era. Con buona pace dello sfortunato sovrintendente Nicola Colabianchi, quello che tutti pensano è ormai certificato, la nomina del neo direttore musicale di tecnico o artistico, non ha niente, è mera politica.

Questo è normale amministrazione per Diop, non lo è affatto per il ruolo alla Fenice, che prevede il possesso di ben precise caratteristiche. Il sottosegretario Mazzi, tra le sue recenti umoristiche ed umorali esternazioni ha dichiarato che la nomina di Venezi è di sola competenza del sovrintendente e che il Ministero «non intende interferire».

Il sovrintendente potrebbe cogliere la palla al balzo per questa sua riconosciuta autonomia, revocare la nomina e riportare pace e serenità alla Fenice e nel mondo lirico italiano. «Il coraggio è l’unica virtù che non necessita giustificazione» (Oscar Wilde).

La gratitudine non sarà piccola.

Mia Diop e Beatrice Venezi

No, i vaccini non contengono dosi pericolose di alluminio (open.online)

di Juanne Pili

Fact-checking

Perché i timori sull’alluminio nei vaccini non hanno alcun senso

Diverse condivisioni di un reel di Instagram “suggeriscono” che i vaccini conterrebbero quantità di alluminio come adiuvante superiore alle dosi consentite da AIFA. I dati però smentiscono questa narrazione, apprezzata negli ambienti No vax.

Analisi

Ecco il testo che circola online:

L’alluminio è un noto neurotossico. Eppure, da decenni viene iniettato nei bambini attraverso i vaccini, spesso senza che i genitori sappiano veramente cosa stia accadendo.

Secondo il sito Physicians for Informed Consent, l’esposizione cumulativa all’alluminio derivante dai vaccini nei primi 6 mesi di vita può superare i limiti di sicurezza stabiliti per la nutrizione endovenosa. Ma nessuno sottolinea la differenza fondamentale: quando l’alluminio viene ingerito, attraversa i filtri naturali del corpo; quando viene iniettato, li aggira completamente, accumulandosi nei tessuti, negli organi e nel cervello.

Diversi studi hanno collegato l’esposizione all’alluminio a disturbi neuroevolutivi, disregolazione immunitaria e malattie croniche. In modelli animali si osservano alterazioni comportamentali e neurodegenerazione, ma i programmi vaccinali ufficiali spesso ignorano questi segnali di allarme.

Per proteggere davvero i nostri figli è fondamentale farsi domande: • Cosa contiene esattamente ogni vaccino? • Quanti microgrammi di alluminio sono presenti per dose? • Perché alcuni vaccini lo usano e altri no? • Qual è il limite sicuro per via endovenosa e perché non esiste per via intramuscolare? • Il bambino è in buona salute al momento della somministrazione? • Esistono esami da fare prima per valutare infiammazione o carenze?

Come prevenzione consapevole può essere utile: • Rafforzare l’immunità in modo naturale prima delle vaccinazioni. • Chiedere e leggere sempre il foglietto illustrativo. • Evitare somministrazioni in caso di febbre o infiammazione. • Consultare un medico indipendente da ASL o industria farmaceutica.

Non si tratta di essere contro, ma di essere informati. Ogni sostanza che entra nel corpo di un neonato lascia un’impronta. E la differenza tra beneficio e danno può stare nella consapevolezza di chi decide.

Non accettare alla cieca. Studia. Fai domande. Pretendi risposte. È così che si protegge davvero.

La fonte “free vax” su alluminio e vaccini

Il testo che si vede alla fine reel proviene da una pagina dell’associazione Physicians for Informed Consent (PIC) riguardo all’alluminio nei vaccini. Si vede un grafico provvisto della seguente didascalia:

«Questo grafico mostra il contenuto di alluminio di una dose di vari vaccini somministrati ai bambini. La somministrazione di una dose ciascuna di Prevnar 13, PedvaxHIB, Engerix-B e Infanrix in una visita fornisce 1.225 mcg di alluminio. I vaccini PCV, Hib, HepB e DTaP vengono somministrati più volte entro i 6 mesi di età. La velocità con cui l’alluminio dai vaccini migra dal muscolo umano al flusso sanguigno non è nota».

Il portale Media Bias Fact Check valuta i contenuti del sito Web della PIC come «pseudoscienza complottista». Per tanto è legittimo dubitare di come siano state trattate le fonti citate nella pagina in oggetto. Anche il collega Dean Miller denuncia per Lead Stories la scorrettezza delle «schede informative» dell’associazione.

Cosa sappiamo davvero sull’alluminio nei vaccini?

Diversi colleghi si sono già espressi analizzando la letteratura scientifica e consultando degli esperti. Nell’analisi di Kate Yandell per FactCheck, si riporta che piccole quantità di alluminio sono utilizzate come adiuvanti nei vaccini per rafforzare la risposta immunitaria. Certamente livelli elevati di alluminio possono essere tossici, come si vede nei pazienti con problemi renali.

Non di meno l’esposizione attraverso le vaccinazioni comporta un rischio estremamente basso, anche per i neonati, stando alle linee guida dell’FDA. Il reel in oggetto riealabora il tutto riferendosi ad AIFA: «Solo 4-5 microgrammi di alluminio sono sicuri», riporta il reel in oggetto.

Si suppone quindi, che «l’esposizione cumulativa all’alluminio derivante dai vaccini nei primi 6 mesi di vita può superare i limiti di sicurezza stabiliti per la nutrizione endovenosa». Quindi si ipotizza che «quando l’alluminio viene […] iniettato, [aggira completamente i filtri naturali del corpo], accumulandosi nei tessuti, negli organi e nel cervello».

Ma le linee guida dell’FDA parlano di «esposizione giornaliera totale all’alluminio tramite prodotti nutrizionali infusi per via endovenosa». Per altro si parla di «persone che non riescono ad assorbire i nutrienti attraverso l’intestino».

Secondo le analisi fornite da InfoVac:

Molti alimenti o bevande contengono piccole quantità di alluminio. Lo troviamo nella frutta e nella verdura, nella birra e nel vino, nei condimenti, nella farina, nei cereali, nelle noci, nei latticini, nel latte e nel miele. Attraverso la dieta, gli adulti ingeriscono da 7 a 9 milligrammi (millesimi di grammo) di alluminio al giorno. Durante i primi sei mesi di vita, i neonati ingeriscono circa 7 milligrammi di alluminio attraverso il latte materno (circa 38 milligrammi se consumano latte in polvere, e circa 117 milligrammi se sono alimentati con latte di soia).

I vaccini attualmente sul mercato contengono tra 0,125 e 0,85 milligrammi di alluminio per dose. Di conseguenza, attraverso le vaccinazioni raccomandate, i neonati ricevono solo circa 4,5 milligrammi di alluminio durante i primi sei mesi di vita.

Inoltre:

Fin dalla nascita, ognuno di noi possiede nel proprio corpo una certa quantità di alluminio. Nel corso della vita, mangiando, bevendo, ricevendo determinati vaccini o assumendo certi farmaci, continua ad aggiungerne. Anche se consumiamo regolarmente cibi e bevande contenenti alluminio, solo una piccola quantità di alluminio passa attraverso la digestione dall’intestino alla circolazione sanguigna, la maggior parte viene espulsa con le feci.

L’alluminio che entra nel nostro flusso sanguigno – come quello contenuto in alcuni vaccini – viene rapidamente trattato ed eliminato dai reni ed evacuato con l’urina. La piccola quantità di alluminio che rimane nel nostro corpo è immagazzinata principalmente nelle ossa, nei polmoni e nel cervello.

Per altro, come spiega in un articolo più recente la stessa Yandell, in risposta ad alcune affermazioni del segretario alla sanità americana, Robert Kennedy Jr., nella letteratura scientifica «i vaccini contenenti alluminio non sono associati a un aumento dei tassi di condizioni di salute croniche nei bambini, incluso l’autismo».

Il vaccino Pediarix

Il post sostiene che vengano iniettati 850 microgrammi di alluminio con una sola dose di vaccino. Nel grafico riportato, questo sarebbe il Pediarix, che protegge dalla poliomielite da altre malattie. Secondo la narrazione, questa supererebbe le dosi consentite secondo le linee guida AIFA, ma quello specifico vaccino non risulta tra quelli utilizzati nel nostro Paese.

Le accuse nei confronti del vaccino Pediarix sono state diffuse anche negli Stati Uniti. Nel fact-check fornito dai colleghi di AFP, viene riportato che secondo la regolamentazione americana “La quantità di alluminio nella dose individuale raccomandata di un prodotto biologico non deve superare 0,85 milligrammi”, ossia 850 microgrammi.

Conclusioni

La tesi in base al quale i vaccini conterrebbero quantità di alluminio sopra i limiti consentiti è priva di fondamento. La fonte principale è una “scheda informativa” prodotta da una associazione di medici apprezzati negli ambienti No vax, nota per lo scarso rigore scientifico con cui seleziona e interpreta le fonti.

Si potrebbe compilare un “Piccolo magistratese illustrato” (ilfoglio.it)

di Guido Vitiello
Il Bi e il Ba

Un lessico che aiuti nella costruzione automatica di frasi con il marchio di fabbrica dell’Anm, poi ripetute con la voce di Nicola Gratteri. Lo scopo è utilizzare un gergo dissociato dalla realtà, confidando nel suo effetto ipnotico

Proviamo a risciacquare insieme le tonache e le toghe, se non in Arno, in una stessa lavatrice linguistica. In coda al Piccolo ecclesialese illustrato di Roberto Beretta, un lessico umoristico pubblicato da Ancora nel 2000 con la prefazione di Tullio De Mauro, c’era una “Tabella per la costruzione automatica di discorsi in ecclesialese”.

Ne venivano fuori delle cantilene come questa, da declamare rigorosamente con la voce nasale di uno dei tanti preti di Carlo Verdone: “Il soggetto pastorale in un’ottica comunionale è chiamato a vivere il carisma dell’amore come dimensione intraecclesiale inculturando ogni nodo tematico”. Riuscite a immaginare una sola persona che, ascoltata questa tiritera vaniloquente, si precipiterebbe nella più vicina chiesa a cantare le lodi dell’Altissimo? Io no.

Ogni categoria professionale ha il suo gergo specialistico, è inevitabile; l’importante è che non smetta di coltivare un linguaggio per parlare con tutti. Le tonache, in mille occasioni, hanno dimostrato di saperlo fare. E le toghe, i sacerdoti di Temi?

Nessuno, che io sappia, ha ancora compilato un Piccolo magistratese illustrato, ma anche senza l’ausilio di una tabella non ci vuole molto ad assemblare frasi a macchina con il marchio di fabbrica dell’Anm, per poi ripetersele mentalmente con la voce di Nicola Gratteri: “Occorre salvaguardare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura da una politica insofferente al controllo di legalità che vuole sottomettere i pubblici ministeri all’esecutivo, attuando il programma di Licio Gelli. Si punta a normalizzare il pm scomodo per impedirgli di indagare sui colletti bianchi, ma fuori dalla cultura della giurisdizione l’inquirente si trasformerà in un superpoliziotto”.

Parlano tutti così. E sono talmente disabituati a predicare ai non convertiti che oggi, per contestare una riforma che non tocca neanche con un fiore l’indipendenza del pm, non trovano di meglio che far vorticare a vuoto questo gergo dissociato dalla realtà, confidando nel suo effetto ipnotico.

Non funzionerà.

Satelliti low cost e la (nuova) alleanza con Trump: così Starlink punta alla supremazia globale su Internet. E sui nostri dati (corriere.it)

L'immagine che vedete qua sotto cambierà il mondo. 

Lo sta già cambiando. Ritrae alcune decine di satelliti di Starlink prima del loro dispiegamento nello spazio, mentre sono a bordo della navicella della società spaziale SpaceX ad alcune centinaia di chilometri dalla superficie terrestre.

SpaceX, come Tesla, come il social media X e come il gruppo dell’intelligenza artificiale xAi, è stata fondata da Elon Musk; lui ne ha il controllo totale. Notoriamente Musk è l’uomo più ricco del pianeta, colui al quale gli azionisti di Testa hanno appena concesso un pacchetto di compensi da mille miliardi di dollari (al verificarsi di alcune difficilissime condizioni).

Ma il modo in cui la foto qua sotto cambierà il mondo ha a che fare con qualcosa di più dei progetti del solo Musk perché oggi accade ciò che, a mia conoscenza, non si era mai verificato prima: nove delle dieci persone più ricche del pianeta operano tutte nello stesso settore, le tecnologie legate a Internet e all’intelligenza artificiale (l’intruso è Bernard Arnault, che con Lvmh produce beni di lusso per gli altri ricchi della Terra).

I dieci più ricchi

Una simile concentrazione della stessa categoria del business al vertice della piramide patrimoniale non si era vista neanche agli inizi del ‘900, quando i Robber Barons del capitalismo americano regnavano ancora indisturbati dall’Antitrust (John Rockefeller dominava nel petrolio, William Waldorf Astor nell’immobiliare, Andrew Carnegie nell’acciaio); non accadeva neanche all’apice della bolla di Internet nel 1999, quando in classifica con Bill Gates di Microsoft comparivano l’investitore Warren Buffet e signori dei supermarket come i fratelli Albrecht in Germania o Rob Walton negli Stati Uniti.

Oggi no. La rete e le sue applicazioni esercitano un dominio finanziario sul capitalismo che nessun’altra rivoluzione tecnologica aveva visto dalla bolla delle ferrovie negli anni Trenta dell’800.

Sicuramente un’altra bolla c’è, di nuovo. Ma l’errore ricorrente in Europa è sempre osservare il presente senza proiettarlo verso dove portano le tendenze attuali. Senza estrapolare. Immaginate se nel ‘900 un solo uomo si fosse candidato a fornire e controllare tutte le strade del mondo, tutte le autostrade, tutte le ferrovie, tutti i porti e gli aeroporti e i magazzini nelle stazioni di tutti i canali di comunicazione materiale.

Allora le merci più importanti erano fisiche, oggi sempre più spesso le merci sono dati ed è su di essi che Elon Musk sta accelerando fino a raggiungere la “velocità di fuga”: la soglia alla quale la sua superiorità nei servizi dallo spazio sarà tale che scalfirla diverrà difficilissimo, se non impossibile per un tempo molto lungo.

È qui che quei satelliti di Musk, dopo i progressi tecnologici emersi negli ultimi mesi e nelle ultime settimane, pongono questioni urgenti: possiamo accettare che un solo uomo – basandosi sulle infrastrutture di un solo Paese, gli Stati Uniti – fornisca e controlli il traffico di dati Internet, video, telefonia e servizi di cloud per la rete e l’intelligenza artificiale in (quasi) tutto il mondo a condizioni e qualità oggettivamente imbattibili?

A maggior ragione, possiamo farlo se quest’uomo si dimostra disposto a entrare nelle campagne elettorali di altri Paesi e intanto appoggia partiti e figure antieuropee e di estrema destra come Alternative für Deutschland in Germania o Tommy Robinson in Gran Bretagna?

Il record dei lanci

I grafici qui sotto, tratti da un’affidabile banca dati sull’attività spaziale, danno un’idea di ciò che sta accadendo. La superiorità tecnologica di SpaceX e della sua controllata Starlink sta iniziando a crescere a ritmo quasi esponenziale rispetto a tutti gli altri operatori privati e pubblici nel mondo. Quest’anno gli Stati Uniti hanno già raggiunto il loro record di 154 lanci spaziali, contro 69 della Cina, 13 della Russia e cinque dell’Agenzia spaziale europea.

Il dominio tecnologico

Ma è il secondo grafico, quello qua sotto, che dà un’idea un più precisa dell’accelerazione nella superiorità della SpaceX di Elon Musk. Qui sotto vedete i lanci spaziali misurati in “payload”, i carichi di materiale in tonnellate che i vettori hanno portato nell’atmosfera.  Il blu corrisponde sempre agli Stati Uniti e potete vedere come l’America rappresenti sì poco più di metà dei lanci di vettori, ma quei vettori hanno trasportato in orbita quasi il 90% (espresso in peso) di tutto il materiale lanciato nello spazio quest’anno. Il “payload”, naturalmente, sono satelliti da collocare attorno alla Terra.

Gli Stati Uniti nel 2025 hanno lanciato un carico di satelliti da 2.293 tonnellate, il doppio rispetto al 2023, il triplo rispetto al 2022, diciotto volte più che nel 2018. La Cina ha lanciato 226 tonnellate, nel 2022 erano 178 e nel 2018 circa tre volte di meno. Quella fra Stati Uniti e Cina è la differenza che corre fra la definizione di crescita lineare e quella di crescita esponenziale. Quella fra Stati Uniti ed Europa è invece la differenza fra crescita e decrescita: per l’Europa le 36 tonnellate di quest’anno sono circa la metà rispetto ai tre o quattro anni precedenti e sono meno, persino, rispetto ai livelli del 2018.

E la chiave dell’effetto esponenziale degli Stati Uniti è in larga parte in Starlink.

Un business da mille miliardi

Starlink è la società della costellazione di satelliti e fa parte del gruppo SpaceX, l’azienda aerospaziale di Elon Musk che non è quotata in borsa ma ha un valore stimato di circa 400 miliardi di dollari. L’annuncio del progetto Starlink è del 2015, con l’obiettivo – dichiarò allora Musk – di “ricostruire Internet nello spazio” grazie a una rete di trasmissione di quattromila satelliti attorno al globo. L’intuizione era geniale.

E la posta in gioco altissima: il mercato mondiale della connettività oggi vale probabilmente attorno ai mille miliardi di fatturato all’anno (poco meno dell’uno per cento del prodotto lordo del pianeta) e non può che crescere con il crescere del ruolo dell’intelligenza artificiale e dell’uso dei dati nelle fabbriche, nelle banche, nella ricerca, negli ospedali, alla guida delle auto, nella produzione militare, nel combattimento stesso delle guerre attraverso eserciti di droni.

I primi lanci operativi di Starlink furono nel 2019, quando SpaceX mandò sessanta satelliti nello spazio a circa 550 chilometri dalla superficie terrestre. Tre anni più tardi dichiarò l’obiettivo di arrivare a trentamila satelliti in orbita e intanto si fece autorizzare dalla Federal Communication Commission degli Stati Uniti – con il democratico Joe Biden alla Casa Bianca – il lancio di almeno dodicimila. Oggi Starlink vuole arrivare a 42 mila satelliti in orbita; in altri termini, vuole coprire la Terra intera con la sua connettività di Internet e traffico di dati, voce e video.

Pensionare i cavi

È una visione ben precisa, quella di Musk: rendere potenzialmente obsoleti tutti i ponti radio terrestri, migliaia di miliardi di investimenti in infrastruttura fisica tramite cavo o antenne – con le relative imprese – per diventare il più efficiente, ubiquo, rapido e relativamente poco caro trasportatore digitale a 200 miliardi di bit al secondo (è la velocità di trasmissione dati oggi riservata solo ai data center e ai migliori centri di ricerca al mondo). Musk vuole creare nello spazio un’unica infrastruttura di trasporto dati mondiale che superi tutte le altre poste a terra.

Ma non solo questo. Dieci giorni fa su X, ha annunciato l’obiettivo di costruire nei satelliti Starlink di nuova generazione (oggi non ancora in uso) capacità cloud in orbita, ossia data center in grado di immagazzinare e trattare per l’intelligenza artificiale i milioni di miliardi dati che oggi si trovano nei data center a terra.

Ciò mitigherebbe il problema sociale dell’ubicazione di queste strutture, del loro enorme consumo di suolo, acqua e energia: i satelliti Starlink di terza generazione avrebbero un’apertura di sette metri coperta di pannelli solari e un peso di due tonnellate, contro un’apertura di 2,8 metri e un peso otto volte più piccolo della prima generazione. Dunque possono contenere computer per il cloud.

Solo sogni? Nessuno si può permettere di liquidare in anticipo questi piani, vista la storia e la forza di SpaceX e Starlink. Intanto ecco le forze in campo oggi, in numero di satelliti in orbita per costellazione:

Starlink – 8.889

OneWeb (della francese Eutelsat) – 654

Kuiper (della Blue Origin di Jeff Bezos) – 153

Xinwang (cinese di Stato) – 119

Yinhe (cinese privata) – 8

Ma soprattutto le economie di scala e la traiettoria di SpaceX-Starlink sono completamente diverse da qualunque cosa si sia mai vista. La foto qua sotto mostra perché.

I rientri miracolosi

SpaceX è stata la prima a garantire il rientro sicuro dei vettori dopo che essi sono stati lanciati e hanno rilasciato i satelliti in orbita. Qui vedete l’atterraggio di un Falcon 9, il cui segreto è palesemente nella capacità della struttura di non cedere mentre il motore sprigiona energia a un calore enorme per rientrare gradualmente nel proprio sito. Questa tenuta permette al costosissimo vettore di non andare distrutto dopo ogni lancio; dunque riduce esponenzialmente il costo di mettere ogni singolo satellite in orbita, perché il vettore stesso potrà essere riutilizzato per un gran numero di lanci.

Non solo. Musk sta ulteriormente sviluppando una continua crescita di scala. Il missile Falcon 9 è ancora in uso e ancora giovedì scorso un suo lancio ha messo in orbita 28 satelliti Starlink. Ma con i suoi 70 metri di altezza e 3,7 di diametro, è già superato. SpaceX è in sperimentazione avanzata del nuovo vettore Starship – alto 123 metri, largo nove – con una capacità di capacità di carico dieci volte superiore. Significa passare dal lancio di decine di satelliti per volta a quello, potenzialmente, di centinaia di satelliti per volta; significa far crescere la costellazione di varie migliaia di pezzi all’anno con satelliti due o tre volte più grandi, a un costo sempre più basso.

Quando Starlink debuttò, il trasporto spaziale costava decine di migliaia di dollari al chilo (per l’Europa, è ancora così); già l’anno prossimo per SpaceX il costo sarà già crollato probabilmente a centinaia di dollari al chilo: due ordini di grandezza di meno. A quel punto l’economia dello spazio cambierà volto e diventerà una rivoluzione sulla Terra. Musk è vicino alla velocità alla quale il suo dominio delle comunicazioni diverrà assoluto.

L’orizzonte di Wall Street

Si può ammirare la visione e inorridire allo stesso tempo. Ancora un paio di anni così, e Musk avrà coperto una parte così vasta dell’umanità da poter staccare Starlink da SpaceX per quotarla a Wall Street: un’azienda con un monopolio globale del genere potrebbe far sembrare piccola per valore Nvidia, oggi il primo gruppo al mondo per capitalizzazione con un valore di 4.570 miliardi di dollari. Musk può diventare davvero il primo uomo con un patrimonio di oltre mille miliardi.

Ma questo è niente, rispetto al resto. Sarebbe anche un uomo con un potere mai visto sulle comunicazioni e i dati e dunque i sistemi politici di circa sette miliardi di persone e quasi duecento Stati, incluso il nostro (quasi solo Cina e Russia per ora non accettano Starlink). Sarebbe impossibile per qualunque esercito combattere una guerra contro la volontà di Musk e quella degli Stati Uniti.

È dagli Stati Uniti infatti che SpaceX effettua i suoi lanci, da tre basi del governo americano e da una proprietaria dell’azienda a Boca Chica (Texas); né Musk può pensare di migrare altrove senza essere privato di tutte le sue vitali licenze spaziali negli States. Lui non è nulla senza il governo degli Stati Uniti; ma anche il governo degli Stati Uniti ha bisogno della proiezione di potenza che solo Musk può dargli. Per forza lui e Trump si sono riconciliati.

Ma la questione va oltre loro due e i loro vasti ego. La tecnologia è a un punto tale che le regole di governo dell’economia di un Paese o di un gruppo di Paesi – su antitrust, privacy, telecomunicazioni – sembrano piccole e arcaiche. Pensate come sarebbe per l’Europa vivere tre giorni senza il pacchetto Office di Microsoft, o senza Google. Bene: niente rispetto a come potrebbe apparirci la privazione di Starlink fra pochi anni.

Se non basta questo pensiero a svegliarci, non so più cosa.

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