No, Graz
La stampa ha raccontato la sparatoria nella scuola in Austria ripetendo errori noti: empatia per lo stragista, semplificazioni sulle cause, diffusione del suo materiale
La strage di Graz della settimana scorsa è stata una doccia fredda per l’opinione pubblica e per la stampa europea: l’Austria ha avuto il suo primo school shooting, un evento inedito nella storia recente del Paese, ed estremamente raro in quella del continente.
Del resto, le stragi nelle scuole sono un fenomeno che viene naturalmente associato al mondo anglosassone, nello specifico alla società statunitense, dove la diffusione delle armi, la cultura che le circonda e gli esempi storici (primo tra tutti il massacro della Columbine del 20 aprile 1999) hanno reso lo school shooting la prima causa di mortalità infantile, ma anche un fenomeno pop.
Quest’ultimo punto – a tratti incomprensibile per il pubblico europeo – dipende da due fattori essenziali: le contronarrazioni sviluppate da un sottobosco che riunisce appassionati (innocui) dei singoli casi e apologeti e dagli errori compiuti dai media tradizionali. Il tutto viene facilitato da un contesto, quello americano, dove l’estrema frequenza di questi episodi (nel 2023 ci sono state seicentocinquantasei stragi di massa nei soli Stati Uniti) rende il tema perennemente attuale.
Proprio per il suo carattere inedito, il racconto di Graz fatto dai giornali europei – e in particolare quelli italiani – presenta tutti gli errori peggiori che la stampa rischia di commettere quando si riporta un caso simile. Il primo è quello più scontato, il richiamo al bullismo subito dall’attentatore.
Nel tracciare l’identikit dell’assassino, i nostri giornali hanno subito incluso questo elemento: espressioni come «il killer era vittima di bullismo», «lo studente aveva subito bullismo dai suoi ex compagni» e simili vengono sfruttate per offrire una descrizione, tanto immediata quanto arbitraria, dei presunti motivi dietro l’attacco, ma, nei fatti, contribuiscono a creare un senso di empatia da parte di una frangia non trascurabile dell’opinione pubblica nei confronti dello stragista.
L’esempio storico di questo meccanismo è offerto dalla cronaca giornalistica della strage di Columbine, l’apripista del fenomeno pop legato agli school shootings. I responsabili del massacro, Eric Harris e Dylan Klebold, furono dipinti dagli organi più autorevoli della stampa americana come degli esclusi, vittime di bullismo che hanno cercato una vendetta (estrema) contro i loro aguzzini.
Peccato che questa testimonianza provenisse dal materiale prodotto dagli stragisti stessi che, nei videodiari registrati a ridosso dell’attacco, si sono presentati al loro potenziale pubblico come gli apripista dell’imminente «rivoluzione dei reietti».
Questa retorica della rivalsa contro il bullismo subito è stata ampiamente smentita grazie a lavori giornalistici come Columbine di Dave Cullen, ma il danno, ormai, era fatto.
Le conseguenze di questa grossolana semplificazione giornalistica sono state tragiche: attorno alle figure di Klebold e Harris si è creato un vero e proprio mito, retto da un filone di fanatici che, dall’empatia, sono passati alla comprensione e, in alcuni casi, all’emulazione. Ne è un esempio Adam Lanza, il responsabile della strage di Sandy Hook del 14 dicembre 2012. È con Columbine che lo school shooter è diventato, nell’immaginario pop, una figura a sé stante che, a prescindere dal singolo caso, viene associato a una serie di stereotipi – estetici e comportamentali – tra cui quello della vittima portato all’estremo.
La vittimizzazione è una delle scuse usate dagli school shooters stessi per giustificare, preventivamente, un attacco che prende di mira vittime casuali – ed è qui che entra in gioco il secondo errore madornale compiuto dalla stampa: riportare, spesso senza alcun filtro, la testimonianza dell’assassino.
Da Columbine in poi, il materiale prodotto dagli assassini ha assunto un peso inedito nel racconto delle stragi di massa: diari, vlog e manifesti sono i mezzi con i quali i responsabili creano un rapporto tra loro e il pubblico di riferimento; emblematico il caso di Elliot Rodger, l’attentatore di Isla Vista (23 maggio 2014), che, con i suoi vlog, si rivolgeva direttamente alla platea online degli incel, gli involontariamente celibi saliti all’attenzione della cronaca negli ultimi anni.
Se, da una parte, la circolazione di questo materiale è stata facilitata dall’esplosione dei forum online e dei social – annullando così qualsiasi barriera tra lo shooter e il sottobosco di fanatici – già all’epoca di Columbine le produzioni amatoriali di Harris e Klebold, riportate acriticamente dalla stampa, hanno determinato un cambiamento profondo nel racconto della strage di massa.
Riportare questo materiale umanizza gli stragisti esattamente come il ricorso alla retorica del bullismo e, in entrambi i casi, sono un sintomo di spettacolarizzazione della vicenda e ricerca affrettata (e pigra) di possibili moventi per spiegare al lettore cos’è accaduto.
Mentre negli Stati Uniti è da oltre un decennio che si cerca di arginare il fenomeno mediatico – negli ultimi casi di stragi di massa è stata bloccata la diffusione dei manifesti scritti dagli attentatori, una contromisura necessaria, nonostante l’elefante nella stanza rappresentato da Internet – nei giorni successivi ai fatti di Graz numerose testate italiane hanno fatto riferimento al video registrato dall’assassino e destinato a sua madre, riportando estratti che fanno esattamente il gioco del carnefice: umanizzarlo a tal punto dal renderlo il protagonista, l’antieroe, della vicenda.
Perché è questo il loro obiettivo, raccontare la propria versione dei fatti, avallando l’idea di essere loro la parte lesa. Il tema è stato approfondito da numerosi giornalisti e accademici anglosassoni che hanno scritto del «terrorismo narcisista», un fenomeno che si lega alla questione del mass shooting, i cui responsabili sono spesso identificati come «terroristi in cerca di fama», ovvero stragisti il cui unico obiettivo è entrare nel pantheon nato con Columbine. Anche grazie agli errori della stampa, questo obiettivo riesce senza troppi ostacoli.
È per questo che il professore Adam Lankford ha codificato un vademecum destinato ai media per contenere il fenomeno: non dite il nome del responsabile; non mostrate sue foto o identikit; smettete di citare i nomi, le foto e le analogie con stragisti passati; riportate tutto il resto, scendendo nel dettaglio per quanto riteniate necessario. Indicazioni completamente ignorate dai nostri giornali.
L’Europa non si trova, da questo punto di vista, nella stessa situazione degli Stati Uniti: per noi gli school shootings, e più in generale i mass shootings, sono ancora un’eccezione tragica nel contesto più ampio della cronaca nera. Non esiste, fortunatamente, un fenomeno pop legato a questo tipo di eventi e sostenere il contrario non è altro che un tentativo, becero, di allarmismo. Ma errori come quelli legati al racconto di Graz restano imperdonabili.
LaPresse