Mattarella denuda le ipocrisie populiste su Ucraina e Israele (linkiesta.it)

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In difesa del multilateralismo

Le ambiguità italiane sulla Russia rischiano di compromettere anche l’unità dell’Europa

Nel rivolgersi al Bundestag, ieri, in occasione della giornata del lutto nazionale, ricordando i milioni di caduti e le responsabilità di Italia e Germania nello scatenamento della Seconda guerra mondiale, il capo dello stato Sergio Mattarella ha scelto di parlare di oggi, con due riferimenti precisi, all’Ucraina e alla Palestina: «Deportazioni, genocidi, hanno caratterizzato la Seconda guerra mondiale.

Da allora, il volto della guerra non si riflette soltanto in quello del combattente, ma diviene quello del bambino, della madre, dell’anziano senza difesa. È quanto accade, oggi, a Kiev, a Gaza». Nella sua appassionata difesa delle istituzioni multilaterali, del diritto e della Corte penale internazionale, Mattarella ha dato una lezione di chiarezza e coerenza capace di scandalizzare tanto il pacifismo fasullo dei filoputiniani, che confondono la pace con la resa alla legge del più forte, quanto l’ipocrisia dei sostenitori di Benjamin Netanyahu, per i quali non c’è atrocità che il governo israeliano non abbia il diritto di commettere.

«Nessuna “circostanza eccezionale” può giustificare l’ingiustificabile: i bombardamenti nelle aree abitate, l’uso cinico della fame contro le popolazioni, la violenza sessuale. La caduta della distinzione tra civili e combattenti colpisce al cuore lo stesso principio di umanità. È l’applicazione sistematica della ignobile pratica della rappresaglia contro gli innocenti».

Per rafforzare il messaggio, il presidente della Repubblica cita le parole di Robert Jackson, procuratore nel processo di Norimberga: «Se riusciremo a imporre l’idea che la guerra di aggressione è la via più diretta per la cella di una prigione e non per la gloria, avremo fatto un passo per rendere la pace più sicura».

Mi sembrano queste, ancor più delle parole sui dottor Stranamore che ci vorrebbero fare amare la bomba, chiaramente riferite a Donald Trump, le affermazioni più significative del discorso di Mattarella, tanto più importanti nel momento in cui la posizione del nostro governo sulla difesa dell’Ucraina mostra, ancora una volta, tutta la sua ambiguità politica e morale.

E rischia di compromettere la stessa unità dell’Europa, già di per sé niente affatto scontata, come si è visto tre giorni fa nell’ultimo infruttuoso vertice E5 sulla difesa tra Italia, Francia, Germania, Polonia e Gran Bretagna.

Altro scivolone di Gratteri su Falcone: «Non voleva le carriere separate». Ma cita un discorso in cui dice l’esatto contrario (open.online)

di Ugo Milano

L’8 maggio 1992 Falcone parla del pm come una 
figura che ha bisogno di «un regolamento 
differente» rispetto ai giudici. 
E, come fa notare Il Dubbio, sottolinea come questo non comporti un’assoggettamento al potere esecutivo

Il procuratore di Napoli Nicola Gratteri ha tirato in ballo ancora una volta Giovanni Falcone per dimostrare la presunta contrarietà del magistrato ucciso da Cosa Nostra alla separazione delle carriere tra pm e giudici. Secondo il quotidiano Il Dubbio, però, Gratteri ha travisato ancora una volta il pensiero del giudice.

Un’altra gaffe, insomma, dopo quella già incassata durante DiMartedì su La7, dove aveva citato una presunta frase di Falcone in realtà mai pronunciata.

Il discorso di Falcone due settimane prima dell’attentato

Gratteri nell’ultima citazione di Giovanni Falcone fa riferimento all’intervento del magistrato all’Istituto Gonzaga dei gesuiti di Palermo. Era l’8 maggio 1992, due settimane dopo Falcone sarebbe stato ucciso con sua moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta nella strage di Capaci. I giornalisti del Dubbio Davide Vari e Damiano Aliprandi rimproverano a Gratteri di aver estrapolato solo poche frasi di quell’intervento, decontestualizzandolo del tutto «per dimostrare l’indimostrabile».

Ma è nel discorso integrale che emerge cosa volesse davvero dire Falcone e quale fosse la sua posizione sull’autonomia della magistratura dalla politica. In particolare, come fanno notare i giornalisti, Falcone parla apertamente degli attacchi subiti da parte di colleghi magistrati proprio «per essersi schierato a favore delle carriere separate».

La posizione di Falcone: «Il pm non può giudicare, ha bisogno di regole diverse»

«Il pubblico ministero è sì un organo giudiziario ma, non essendo titolare della potestà di giudicare, neppure può dirsi giudice in senso tecnico. Quali che possano essere nel concreto le soluzioni da adottare, un punto mi sembra fondamentale: il pm deve avere un tipo di regolamentazione differente da quella del giudice, non necessariamente separata», dice quel giorno Giovanni Falcone. «E ciò non per assoggettarlo all’esecutivo, come si afferma, ma al contrario per esaltarne l’indipendenza e l’autonomia.

Fra gerarchia e indipendenza c’è tutta una serie di figure intermedie che possono fare in modo che l’indipendenza sia finalizzata al raggiungimento degli scopi per cui il pubblico ministero è stato creato». Il messaggio dunque sembra chiaro: la figura del magistrato requirente deve essere secondo Falcone nettamente distinta da quella del magistrato giudicante. Ma questo non significa in nessun modo renderla preda del potere politico.

La necessità di unione tra i corpi dello Stato: «La separatezza crea problemi»

«Indipendenza ed autonomia, se per un verso devono essere strettamente legate all’efficienza dell’azione della magistratura, dall’altro non significano affatto separatezza dalle altre funzioni dello Stato. Io credo che prima o poi si riconoscerà che non è possibile una meccanicistica separatezza perché ciò determina grossi problemi di funzionamento e di raccordo», sostiene ancora Falcone.

La separatezza di cui bisognerebbe liberarsi, fa notare Il Dubbio, non è quella tra giudice e pm ma tra i diversi poteri dello Stato, che nella visione di Falcone vivono ciascuno di vita propria vanificando così ogni tentativo collaborativo verso il medesimo traguardo.

falcone gratteri separazione carriere pm giudice

A cosa serve sapere quanto era lungo il pene di Hitler? (spiegel.de)

Presunta analisi del DNA di Adolf Hitler
Un documentario cinematografico britannico avrebbe analizzato il materiale genetico del “Führer” e lo avrebbe associato a varie diagnosi. Ma questo non è altro che sensazionalismo.
Le malattie di Hitler vengono sollevate ancora e ancora per spiegare la storia.
Ora si tratta di Hitler sulla velocità, il dittatore sotto la droga. E poi ancora sulla presunta sifilide o schizofrenia. Alcune cose sono provate, molte restano speculazioni.
Ora una trasmissione britannica vuole decifrare il DNA del dittatore. E poi gli è stata diagnosticata la sindrome di Kallmann, un disturbo innato dello sviluppo, tra le altre cose, le feci.
La scia di DNA è stata scoperta su un pezzo di tessuto del divano macchiato di sangue sul quale Hitler si è tolto la vita a Berlino nel 1945. I risultati saranno presto presentati in un documentario televisivo britannico intitolato “DNA di Hitler: Blueprint of a Dittator”.
Anche in passato, King aveva causato scalpore, come ad esempio con un’analisi del DNA delle ossa di Riccardo III. L’attuale trasmissione parla ora di brani molto più recenti che sollevano interrogativi fino ad oggi. Ad esempio se la storia può davvero essere spiegata dai test del DNA di Adolf Hitler. King disse: “La genetica non può giustificare le sue azioni in alcun modo. ” «
I creatori dello spettacolo spiegano con i risultati concreti che viene ancora ampiamente riportato. “Avrebbe potuto avere il genoma più noioso del mondo”, si cita King. Ma lui non ce l’aveva.
Ecco come la sindrome di Kallmann diagnosticata ha influenzato la pubertà e la sessualità di Hitler. Con una probabilità di 1 su 10 il dittatore aveva un micropene. Col senno di poi, gli effetti reali possono solo essere speculati.
Già in passato, ricerche nei protocolli medici ufficiali avevano dimostrato che il “leader” soffriva probabilmente di un “criptorchismo di destra”, cioè sotto una cosiddetta superiorità della testa.
Ci sono sempre dubbi fondamentali sull’evidenza di vecchie tracce di DNA, perché possono essere facilmente contaminate o sbagliate. Il potere del presunto DNA di Hitler dipende quindi da quanto in modo affidabile lo strappo del tessuto del divano del leader era stato assicurato in quel momento.
Potrebbe essere un'immagine raffigurante il seguente testo "DNA angeblich angeblichentschlüssel entschlüsselt Hatte Adolf Hitler einen Mikropenis? Womöglich. S"

«Caro Travaglio, separiamo le carriere ché il Cav non c’è più». Parla Di Pietro (ildubbio.news)

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Interviste

L’ex pm del Pool per il Sì alla riforma della giustizia: «Il sorteggio nei CSM? Anche nell’organizzazione giudiziaria magistrati sono scelti così»

«Voterò Sì al referendum sulla riforma della giustizia con la separazione delle carriere, approvata dalla maggioranza del governo Meloni, perché ero già a favore della riforma di Giuliano Vassalli, che andava completata. Non ero invece d’accordo con la riforma di Silvio Berlusconi e la sua demonizzazione dei magistrati».

Parla Antonio Di Pietro, in esclusiva per Il Dubbio. L’ex pm di Mani pulite ed ex ministro del governo Prodi apprezza anche l’istituzione di due Csm come fattore di «trasparenza» contro le correnti. E sull’opposizione del centrosinistra dice: «Non condivido le posizioni preconcette contro i provvedimenti della premier Giorgia Meloni».

Dottor Di Pietro, il suo Sì al referendum sta suscitando molta attenzione, e anche polemiche politiche, da sinistra e da una parte dei media, 5 Stelle e “Fatto quotidiano” in testa. Perché voterà Sì?

Perché il testo dell’attuale riforma costituzionale costituisce la naturale e logica conseguenza di quella con cui nel 1989 venne modificato il processo penale da inquisitorio, in cui il giudice istruttore faceva le indagini e poi decideva egli stesso se le sue indagini erano state fatte bene o meno, ad accusatorio, in cui le indagini vengono ora svolte dal pubblico ministero, e poi un giudice “terzo” decide sulla bontà delle stesse. Conseguentemente, a me pare logico che le due distinte funzioni siano affidate a soggetti non facenti parte della stessa squadra e che non siano più interscambiabili fra loro.

Travaglio la accusa di contraddizioni. Come risponde?

Ho molta stima e rispetto per il dottor Travaglio, e ogni sua critica è per me uno stimolo a fare meglio. Travaglio questa volta mi rimprovera del fatto che io negli anni passati ero contrario alla separazione, e quindi non comprende il motivo per cui io ora abbia cambiato idea. In realtà io sin dal 1989 sono stato un convinto sostenitore della separazione delle carriere, ma poi, con l’avvento al potere politico-istituzionale di Silvio Berlusconi, ho dovuto prendere atto che costui voleva utilizzare tale separazione anche per sottoporre il pm al potere politico-esecutivo, e allora ho più volte espresso la mia contrarietà. Ora però che Berlusconi, pace all’anima sua, e la sua idea fissa di demonizzare i magistrati per sottrarsi alla giustizia non ci sono più, è tempo di riprendere il filo di quel discorso iniziato nel 1989 con la riforma del sistema penale accusatorio, rimasta finora incompiuta.

Cosa pensa degli altri aspetti chiave della riforma, incluso il sorteggio dei togati nei due futuri Csm? Si riuscirà davvero a neutralizzare le correnti?

Il sistema delle correnti all’interno dell’Anm ha finora gravemente condizionato sia la composizione dei membri del Csm sia la progressione in carriera e le stesse vicende disciplinari dei magistrati. Quindi, il sorteggio è, a mio avviso, un metodo di scelta più trasparente nell’individuare chi deve andare al Csm e ricoprire un incarico così delicato. D’altronde il sorteggio avviene tra gli stessi magistrati, e pensare che un magistrato che da solo può chiedere o disporre la condanna al carcere di una persona non sia poi in grado di partecipare a un organo collegale di trenta persone, mi pare una vera e propria assurdità.

Come giudica la campagna referendaria per il No annunciata dall’Anm, peraltro con un comitato nella sede dell’associazione, dentro lo stesso palazzo in cui ci sono gli uffici della Cassazione?

Personalmente riconosco il pieno diritto dell’Anm a partecipare alla campagna referendaria per far conoscere ai cittadini il proprio punto di vista, purché si attenga al quesito referendario e non faccia da sponsor a questo o quel partito politico. Nel palazzo della Corte di Cassazione, in realtà, sono ospitate anche altre associazioni ed enti, c’è anche un ufficio dell’Ordine degli avvocati, e francamente non mi pare di per sé scandaloso.

Vassalli, ministro della Giustizia per il Psi di Bettino Craxi, e appunto autore, nel 1988, della prima riforma sull’allora separazione delle funzioni, parlò, in una celebre intervista al Financial Times, di una particolare trama di rapporti che il Pci già da allora stava costruendo con settori della magistratura. C’è stato un uso politico della giustizia da parte delle cosiddette “toghe rosse” contro gli avversari della sinistra?

Parlo per me, e io metto la mano sul fuoco nell’affermare che non ho mai agito su impulso di una qualsiasi fazione politica, né ho svolto il mio lavoro di pm per fini politici. Accetto che le indagini da me svolte all’epoca di Mani pulite possano essere criticate sul piano del merito, ma respingo con fermezza qualsiasi fine politico nel mio lavoro da magistrato. Rammento che chi ha sostenuto il contrario è già stato condannato per diffamazione.

Lei ha accusato Berlusconi di aver personalizzato, politicizzandola, la riforma della giustizia. Ma non ritiene che più di 100 processi da quando è sceso in politica, da che era un cittadino incensurato quando faceva solo l’imprenditore, lo abbiano autorizzato a parlare di “uso politico della giustizia” nei suoi confronti?

Ancora una volta parlo per me: io ho inquisito una sola volta Silvio Berlusconi, il 21 novembre del 1994 per vicende legate a tangenti ad esponenti della Guardia di finanza. Quello stesso giorno però una manina occulta, ma io so chi è, ebbe a recapitare un busta contenente un falso dossier contro di me nella cassetta delle lettere della casa privata dell’allora Capo degli ispettori del ministero della Giustizia, e conseguentemente venne aperto su di me un grave procedimento disciplinare con risvolti penali, a seguito del quale io, il successivo 6 dicembre 1994, mi sono dimesso per non infangare il lavoro che fino ad allora avevo svolto. Ma questa è un’altra storia e lasciamola agli storici (salvo precisare che, poi, negli anni successivi, su quel dossier si scavò a fondo e venne fuori non solo che era basato su accuse false nei miei riguardi ma vennero anche condannati gli autori materiali!).

Cosa pensa della sentenza con cui la Cassazione, dopo trent’anni, ha stabilito che non ci furono legami tra Berlusconi, Dell’Utri e la mafia?

Le sentenze della Cassazione si rispettano sempre, piaccia o non piaccia: questo vale per me e deve valere anche per gli altri.

Di Pietro, l’ex pm di Mani pulite ma anche ex ministro alle Infrastrutture del secondo governo Prodi e fondatore dell’Italia dei Valori, ora per paradosso appare all’opinione pubblica più garantista dello stesso centrosinistra di cui era alleato. Come giudica la posizione dei suoi ex alleati politici?

Molto preconcetta e sempre contraria a priori rispetto a quel che fa il governo Meloni, mentre io credo che i provvedimenti governativi vadano valutati ciascuno per il loro merito. Per quanto mi riguarda, io ne ho criticati molti ma ne ho anche apprezzati altrettanti. Ad esempio, apprezzo taluni aspetti della politica estera del governo, come la posizione sulla questione palestinese, ma non ne condivido altre, come il non riconoscimento del salario minimo a tutti i lavoratori, e così via.

Lei da tempo non fa più politica: è avvocato. Ma Di Pietro si sente uomo di destra o di sinistra?

Ma perché mi vuole rinchiudere dentro un astratto schematismo quali sono i concetti di destra e di sinistra ai giorni nostri dove, in ognuno dei due schieramenti, c’è tutto e il contrario d tutto? Alla mia età, 75 anni suonati, ho bisogno di sentirmi libero di pensarla come mi pare e, quando andrò a votare, di decidere, di volta in volta, a chi dare la mia fiducia sulla base della storia personale di chi mi viene offerto come candidato.

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«Il modello non è Mamdani. Servono dei leader credibili e un riformismo concreto» (corriere.it)

dall’inviato Marco Ascione

Romano Prodi

L’ex premier: Schlein mi ha chiamato, le ho ribadito le mie preoccupazioni. Meloni non realizza nulla. La sua forza è la durata, manca l’alternativa

Bologna Professor Prodi, la sinistra in Italia loda e acclama il neosindaco di New York Zohran Mamdani. È il nuovo modello da seguire?

«Mamdani ha fatto cose interessanti: ha risvegliato la partecipazione, ha attratto i giovani, è stato capace di mettere in campo una campagna elettorale con pochi fondi. Ciò detto, la sua non mi pare esattamente la cifra del rivoluzionario: è il figlio di un professore della Columbia University e di una nota intellettuale. Se proprio debbo fare il nome di un affermato sindaco rivoluzionario di New York preferisco citare Fiorello La Guardia. Né so come Mamdani, sotto un profilo economico, potrà realizzare le sue promesse. Ma il fatto nuovo, importante, che arriva dagli Stati Uniti è un altro».

Quale?

«La vittoria delle due governatrici democratiche, in Virginia e New Jersey».

Decisamente più moderate rispetto a Mamdani.

«È quello che serve a noi: un riformismo coraggioso, ma concreto, che punti al cambiamento».

In passato la sinistra italiana è rimasta già affascinata da altri leader «radicali», come Jeremy Corbyn o Bernie Sanders.

«Perché la giustizia sociale è nel cuore della gente. Mentre il livello di concentrazione delle ricchezze oggi è impressionante: la buonuscita di Musk dimostra che siamo ben oltre il livello di guardia».

Ma?

«Ma occorre prima chiedersi quali sono gli strumenti giusti per affrontare il problema. Per cominciare bisogna governare e per farlo serve il consenso della maggioranza della popolazione. Non è un dettaglio. Dobbiamo poter parlare di argomenti veri come tasse, immigrazione, sanità, scuola con le parole giuste, senza un radicalismo che spaventa gli elettori e che nella nostra storia non ha mai pagato. Dicendo già adesso, con onestà, che cosa si vuole realizzare, ma anche cosa si può fare e che cosa no, con quali risorse, attingendole dove e a scapito di cosa, visto che non si può finanziare ogni progetto con le tasse. Senza slogan facili, ma con un riformismo concreto che impasti insieme realismo e coraggio».

E come si può realizzare?

«Con idee e leader credibili».

Da Elly Schlein a Giuseppe Conte, l’opposizione ha almeno un leader credibile?

«I leader possono nascere. O farsi».

A proposito di idee, lei è a favore della patrimoniale?

«Parlarne oggi verrebbe interpretato come l’inizio di un’oppressione fiscale. La magia dei grandi ricchi è quella di aver fatto credere che il loro destino è il destino di tutti».

Conte e la bertinottite

Nella mente di Conte non è ancora definito quello che lui pensa sia il suo ruolo. Auguriamoci che non gli prenda la bertinottite

Gli sgravi fiscali previsti nella manovra aiutano i ricchi?

«Sì, ma non lo dico solo io. Lo sostiene il Financial Times, oltre che qualunque studio serio in circolazione. Si è fatto credere che i benefici riguardano persone che guadagnano 2 mila euro o poco più, ossia salari non certo alti, mentre il vero vantaggio è per redditi ben superiori».

Dopo le sue prime dure critiche al «centrosinistra che ha voltato le spalle all’Italia», c’è stata anche una telefonata di chiarimento con la segretaria del Pd?

«Sì, Schlein mi ha chiamato. Ci siamo sentiti spesso nelle ultime settimane».

E che cosa vi siete detti?

«Posso dire ciò che le ho detto io. Ho ribadito quanto sostenuto in pubblico. La mia preoccupazione è che una parte dell’elettorato si allontani dal centrosinistra perché ritiene che dall’opposizione arrivi una lettura troppo ristretta della società, non sufficiente per un’alternativa concreta di governo. Ed è già tardi perché siamo oltre metà legislatura. Le ho anche spiegato che a me non interessano i partiti, ma le coalizioni di governo. C’è tanto da cambiare, ma a dire il vero molti anche nel Pd vogliono semplicemente conservare il proprio ruolo».

Intanto la premier Giorgia Meloni veleggia verso la fine della legislatura e con un consenso alto.

«Meloni non ha realizzato nulla: la crescita stenta a livelli molto preoccupanti, la produzione industriale ha problemi serissimi. L’unica sua forza è la durata, per mancanza di alternativa».

E se anche il centrosinistra vincesse, poi l’amalgama Pd- M5S-Avs potrebbe funzionare? O finirà come è accaduto a lei con Rifondazione comunista?

«Questo è un rischio che corre anche Meloni con la Lega. Ma Salvini finora ha capito che è meglio succhiare un osso che un bastone. Ossia che è meglio accontentarsi di un accordo con le altre forze di governo piuttosto che finire all’opposizione. Nella mente di Conte, invece, non è ancora definito quello che lui pensa sia il suo ruolo. Se il centrosinistra uscirà vincitore dalle Politiche auguriamoci che non gli prenda la bertinottite. Alla fine uno dei due leader, tra Schlein e Conte, dovrà riconoscere che l’altro ha vinto. Ma prima, ben prima, occorre un modello di coalizione ampia, con un programma capace di intercettare una platea che vada oltre gli attuali confini».

È un riferimento implicito anche al progetto politico dell’ex direttore delle Entrate Ernesto Maria Ruffini?

«Ruffini lo conosco da molti anni, lo stimo e non posso che parlarne bene. Lo seguo con interesse e so che proprio in questi giorni riunirà i suoi comitati. Seguo lui come ho seguito con interesse ciò che è accaduto a Milano qualche settimana fa nel Pd (la convention dei riformisti ndr)».

Lei è un attento osservatore della Cina e conosce bene Massimo D’Alema. Che effetto le ha fatto vederlo a Pechino con Vladimir Putin, Kim Jong-Un e altri svariati autocrati?

«Ho insegnato in Cina nell’ultimo semestre all’Università di Pechino, ho un rapporto non ostile con quel Paese eppure non mi hanno invitato. Il buon senso del governo cinese è molto forte».

La preoccupa più Trump o Xi?

«Mi preoccupa il fatto che viviamo in un mondo in cui per andare negli Stati Uniti serve il visto con annessi e accurati controlli ai propri commenti social. Mentre per andare in Cina basta il passaporto».

Lei ha corretto chi sosteneva che la democrazia in Italia è a rischio. E quella Usa?

«Trump suscita un allarme democratico. E mi stupisce che Meloni preferisca lui all’Europa. E ancor più mi angoscia che la nostra premier non voglia abolire il meccanismo dell’unanimità nella Ue, il vero freno che ingabbia l’Europa e che la rende impotente sia di fronte agli Usa sia alla Cina».

È giusto continuare ad armare Kiev?

«Non c’è un’alternativa se si vuole arrivare a un compromesso e non a una resa incondizionata a Putin. E bisogna farlo presto perché si deve tener conto della stanchezza dell’opinione pubblica ormai disposta ad accettare ogni tipo di accordo per la pace. In questo quadro c’è un altro elemento che mi rattrista molto e mi spaventa».

Che cosa?

«L’incapacità dell’Europa di incidere».

La piazza vuota per l’Ucraina (repubblica.it)

di Luigi Manconi

Non sempre il fatto che il pulpito da cui viene la predica sia squalificato deve indurre a ritenere che quella stessa predica sia interamente falsa.

Certo, tra i vezzi e i vizi più insopportabili della destra italiana c’è quella petulante accusa agli avversari di non mobilitarsi con uguale vigore per tutte le cause meritevoli di solidarietà.

Da qui il molesto ripetere: perché mai le sinistre non manifestano per le donne iraniane e per quelle afghane e a favore degli oppositori in Venezuela e dei palestinesi che contestano Hamas?

La prima e più facile risposta non è sufficiente. Insomma, non basta far notare che le piazze italiane non sono tutto un brulicare di elettori di destra che, guidati da Lucia Borgonzoni e da Maurizio Gasparri, presidiano l’ambasciata della Corea del Nord o quella del Myanmar.

Non basta. E, dunque, ci si deve chiedere seriamente perché oggi in Italia, mentre la Russia si rende responsabile di una ininterrotta carneficina, la mobilitazione popolare e, in particolare, quella della sinistra, sia così riottosa e incerta.

Tante le ragioni. C’è, innanzitutto, la lunga e complessa genealogia di fasi storiche che hanno preceduto l’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio 2022. Quella contrastata vicenda, manovrata abilmente dalla propaganda russa, ha fatto sì che l’evento dirimente dei tank russi che oltrepassano i confini ucraini possa essere ridimensionato e sdrammatizzato.

In altre parole, la lettura falsata dei fatti che precedono l’invasione contribuisce a deformare l’atto stesso dell’invasione, a considerarlo come l’esito inevitabile di responsabilità difficili da distinguere e da attribuire, equiparando i torti degli uni e i torti degli altri. Di conseguenza, l’aggressione della Russia non appare come l’azione imperialista di uno Stato totalitario, ma come l’ultimo effetto di una catena di cause e concause prodotte dalla Storia.

Eppure, quell’invasione è stata una vera e propria invasione, come sostenne Carlo Smuraglia, comandante partigiano e comunista, a lungo presidente dell’Anpi. Tuttavia, la più bella retorica della Resistenza (una mattina mi son svegliato/e ho trovato l’invasor) non valse a convincere tanti, e una parte della stessa Anpi, che la scelta di campo dovesse essere netta: stare dalla parte delle vittime, stare dalla parte degli ucraini invasi.

E qui si arriva al cuore profondo e, per certi versi, oscuro della questione. Ovvero il sentimento russofilo diffuso nella società italiana e non solo italiana. Moltissime le componenti di un simile sentimento. Tra queste, quella di natura ideologica e di derivazione sovietica – che avverte una continuità tra l’Urss e la Federazione di Putin – è probabilmente minoritaria. Ma, a integrarlo e a rafforzarlo, quel sentimento, contribuiscono gli apporti di altre subculture e di altre subideologie.

C’è la dipendenza da un’immagine di leader potente e possente, anche sotto il profilo fisico, che incarna l’idea di uno Stato forte: e questo incontra gli umori e le aspettative di diversi strati sociali, collocabili, ma solo approssimativamente, sia a destra che a sinistra, smarriti di fronte al “disordine” che sembra dominare le relazioni tra gli individui, i gruppi sociali e le nazioni.
Così, il potere dell’autocrate, perpetuato per oltre un quarto di secolo, sembra affascinare molti democratici che se si ricorda loro quale sia lo stato delle libertà in Russia replicano: e allora in Italia?
Insomma, la stanchezza della democrazia alimenta la fede nell’autocrazia. E si scopre che sono filorusse tutte, ma proprio tutte, le organizzazioni del fondamentalismo cattolico, gran parte dei gruppi No vax, e in generale quelli antiscientifici, la destra neofascista e la sinistra sovranista (c’è pure quella!).
Da queste propaggini estreme le pulsioni filorusse si diffondono nella società italiana e attraversano i partiti (in particolare Lega e M5S, ma non solo), trovando simpatie sorprendenti e impreviste amicizie. A esempio, in settori oscurantisti, religiosi e laici, l’apprezzamento per Putin è motivato dall’omofobia di quel regime che si traduce in leggi pesantemente repressive; e la Federazione russa appare come un baluardo rispetto alla decadenza dell’Occidente.
Ma questo non spiega ancora tutto. Penso che una russofilia tanto estesa affondi le sue radici in un antico riflesso condizionato e in una mitologia che, nonostante tutto, resiste. La Russia attuale appare come la manifestazione ultima di un movimento politico e di un campo ideologico formatisi oltre un secolo fa.
Un dittatore, responsabile di molte stragi, viene visto tuttora come un fattore di bilanciamento in uno scenario mondiale dove, dall’altra parte, c’è un Occidente, a sua volta responsabile – e come negarlo? – di grandi crimini.
Si può arrivare a dire che la russofilia sia l’attuale espressione dell’anti-occidentalismo. Questo atteggiamento è assai più diffuso di quanto si creda. Si nutre di realpolitik e di teorie geopolitiche, tutte legate, direi avvinghiate, al mantenimento dello status quo: ed è questa, forse, la componente più ampia del filoputinismo nazionale.
Concezioni conservatrici che svalutano regole e valori dei sistemi democratici e del diritto internazionale, principi universali di libertà ed eguaglianza, diritti umani fondamentali. Molto su cui riflettere e molto, se ne siamo capaci, da cambiare radicalmente.
Potrebbe essere un'immagine raffigurante il seguente testo "LA PIAZZA VUOTA PER L'UCRAINA la Repubblica"