Avvertimenti sul ceppo letale e contagioso di mpox mentre muoiono i bambini nella Repubblica Democratica del Congo (theguardian.com)

di , Global health correspondent

Allarme per l'alto tasso di mortalità e aborto 
spontaneo mentre il virus mutato si diffonde 
nell'est della Repubblica Democratica del Congo

Un pericoloso ceppo di mpox che sta uccidendo bambini e causando aborti spontanei nella Repubblica Democratica del Congo è il più trasmissibile e potrebbe diffondersi a livello internazionale, hanno avvertito gli scienziati.

Sembra che il virus si stia diffondendo da persona a persona attraverso contatti sessuali e non sessuali, in luoghi che vanno dai bordelli alle scuole.

Centinaia di persone con la malattia, precedentemente nota come vaiolo delle scimmie, si sono recate in ospedale nella città mineraria di Kamituga, nella provincia del Sud Kivu, in quella che probabilmente sarà la “punta dell’iceberg” di un’epidemia più ampia, dicono i medici.

L’Mpox è un virus della stessa famiglia del vaiolo e provoca sintomi simil-influenzali e lesioni piene di pus.

Due anni fa, un’epidemia in Europa e negli Stati Uniti che ha avuto come obiettivo la comunità gay ha spinto l’Organizzazione Mondiale della Sanità a dichiarare un’emergenza sanitaria pubblica. Era la prima volta che l’mpox si diffondeva attraverso il contatto sessuale.

L’epidemia è stata causata dal clade II del virus, uno dei tre raggruppamenti riconosciuti di mpox e uno che ha un tasso di mortalità relativamente basso.

La nuova epidemia nella Repubblica Democratica del Congo è una forma mutata del clade I mpox. I medici riportano un tasso di mortalità di circa il 5% negli adulti e del 10% nei bambini, oltre ad alti tassi di aborti spontanei tra le donne in gravidanza.

Il clade I è stato storicamente trovato in persone che mangiano carne di animali selvatici infetta, con trasmissione in gran parte confinata alla famiglia colpita.

I ricercatori ritengono che l’attuale epidemia sia iniziata in un bar utilizzato dalle lavoratrici del sesso. In un briefing per i giornalisti, Trudie Lang, professoressa di ricerca sulla salute globale all’Università di Oxford, ha detto che quando l’epidemia della Repubblica Democratica del Congo è stata rilevata lo scorso settembre, gli scienziati avevano ipotizzato che si trattasse del clade II, a causa della trasmissione sessuale, fino a quando i test genetici hanno rivelato che apparteneva al ceppo più virulento.

Era una situazione “incredibilmente preoccupante”, ha detto Lang. Sebbene i vaccini e i trattamenti contro il vaiolo abbiano contribuito a tenere sotto controllo l’epidemia del 2022, questi non sono finora disponibili nella RDC.

Il Sud Kivu si trova al confine con il Burundi e il Ruanda e vicino all’Uganda, e ci sono frequenti viaggi transfrontalieri da parte della popolazione locale.

Lang ha detto che non è chiaro quanti casi asintomatici o lievi ci siano, con il lungo tempo di incubazione del virus che aumenta il rischio di trasmissione prima che le persone si rendano conto di essere malate.

John Claude Udahemuka, docente presso l’Università del Ruanda, che è coinvolto nella risposta medica all’mpox, ha dichiarato: “È senza dubbio il più pericoloso di tutti i ceppi conosciuti di mpox, considerando come si trasmette, come si diffonde e anche i sintomi”.

Ha detto che i paesi dovrebbero prepararsi per la diffusione del virus. “Tutti dovrebbero essere preparati. Tutti dovrebbero essere in grado di rilevare la malattia il prima possibile. Ma, cosa ancora più importante, tutti dovrebbero sostenere la ricerca locale e la risposta locale in modo che non si diffonda”.

A protestare contro Israele a Roma non c’erano buoni e cattivi, ma antisemiti e antisionisti (linkiesta.it)

di

Appunti per Schlein

La segretaria del Pd ha definito pacifica la manifestazione pro Hamas, minimizzando gli episodi di violenza contro la polizia. Un errore politico grave, come quello di non visitare la sinagoga della Capitale nel primo anniversario del pogrom del Sabato Nero

«In quella piazza c’erano anche tanti ragazzi che semplicemente volevano trovare un luogo dove poter manifestare per la pace. E per fortuna è stata per lo più pacifica, al netto degli scontri che ci sono stati e che sono stati gestiti, anche se purtroppo con dei feriti».

Eh, no, cara Elly Schlein. Sabato in piazza non c’erano i buoni e i cattivi. Erano tutti cattivi. 

Alcuni teppisti certo più degli altri, abbiamo visto come hanno cercato di attaccare i poliziotti. Non c’erano «ragazzi che volevano manifestare per la pace», perché tutti, dal primo all’ultimo, erano ben consapevoli che la manifestazione basata su una piattaforma esplicitamente antisemita e animata quantomeno da comprensione, se non peggio, del terrorismo e che quindi come tale non poteva non suscitare atti violenti, come infatti è avvenuto.

Nella vivida cronaca di Laura Cesaretti (Il Giornale di domenica scorsa) si legge: «Un nerboruto Cobas dell’Ilva: “I sionisti sono topi di fogna che portano malattie purulente, Israele è un tumore che va estirpato”. Hitler non avrebbe saputo dire meglio».

Questo era il tono. Questo il senso della peraltro scarsina adunata rosso-bruna (già, c’era pure qualche fascista): cancellare Israele dalla faccia della terra. Antisionismo, antisemitismo: tutt’e due c’erano, sabato a Roma, indistinguibili. Che poi per fortuna i danni siano stati lievi lo si deve solo alla professionalità delle forze dell’ordine e al fatto che i violenti fossero pochi ragazzini (a parte qualche cariatide del Settantasette che ancora si agita).

Attenzione dunque a non ripetere errori del passato. A non abbassare la guardia contro i violenti e chi li sostiene. Un conto è la discussione, la critica anche durissima al governo di Israele, o le istanze per reclamare un piano di pace. Altra cosa è teorizzare la guerra allo Stato ebraico evocandone la distruzione, inneggiare al Sette Ottobre come data d’inizio della Resistenza. Schlein ha ben chiara la differenza, intendiamoci, e infatti il Partito democratico, come tutte le organizzazioni democratiche, si è tenuto ben lontano dal raduno di sabato scorso: «Il Pd non ha niente da spartire con chi inneggia ad Hamas e festeggia il 7 ottobre».

A maggior ragione quella distinzione tra buoni e cattivi appare incongrua, sbagliata in punto di fatto. Peraltro seguita, nelle ore successive, da un silenzio assordante (rotto solo da Lorenzo Guerini e Walter Verini) mentre sarebbero state persino ovvie la condanna dei teppisti e la solidarietà alle forze di polizia.

Infine, a completare l’opera, ieri un altro brutto errore della leader del Pd: non essere andata lei personalmente alla Sinagoga di Roma per testimoniare la vicinanza del suo partito alla comunità ebraica nel primo anniversario del pogrom del Sabato Nero.

Vale anche per gli altri leader dei partiti del centrosinistra (che ora pare si chiami campo progressista) a eccezione di Carlo Calenda che poi però ha soprattutto criticato Israele, sbagliando evidentemente sede e luogo. Ma agli atti dell’anniversario del Sabato Nero resta soprattutto il fatto che la presidente del Consiglio è andata alla Sinagoga e la leader dell’opposizione no.

E questo è un fatto grave.

(LaPresse)

Che i missili di Teheran non distraggano dai sette morti di Giaffa (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

La strategia di Netanyahu è cambiata, ma occhio al futuro: ha appena promesso il cambio di regime in Iran, che è altra cosa dal proposito iniziale, disperato, di trascinare gli Stati Uniti in una guerra con Teheran

La strategia, se non ce l’hai, e se non ti fermano in tempo, te la trovi per strada. Quando Putin ordinò il défilé che avrebbe preso Kyiv, la sua strategia si riduceva a fare un boccone dell’Ucraina e infeudarsela fra i fiori e le medaglie, come la Crimea. Quando Netanyahu si fu ripreso dall’orrore del 7 ottobre, e dalla sua vergognosa compromissione, la sua strategia si riduceva al tentativo di durare un giorno di più e scatenare una vendetta senza esclusione di colpi. 

Le analogie fra le due “guerre” finiscono qui, nonostante le generose assimilazioni, cui lo stesso Zelensky ritenne di cedere. L’Ucraina aveva contro, dentro il proprio territorio, una potenza di armi e di uomini incomparabile, e svelta a far pesare il suo arsenale atomico. L’arsenale atomico che, non nominato, era e resta la riserva di un Israele accerchiato.

Strada facendo, Putin e i suoi bigotti di corte misero insieme la scena maestosa della rivalsa dei popoli tradizionali contro l’impero dell’occidente al suo, appunto, occaso; con un impudente sprezzo del ridicolo, e rassegnandosi a essere non la guida del nuovo ordine mondiale, ma il suo servizio d’ordine. La Nato, e per lei gli Usa e la stessa Ucraina, stupefatte di una resistenza mirabile, si erano fatte prendere a loro volta da un’euforia tattica e avevano immaginato maturo il cambio di regime russo.

Là, dopo la controffensiva sorprendente di Kharkiv e Kherson dell’estate 2022, ucraini e alleati commisero il capitale errore di sbandierare il nome di vittoria. Il successo già conquistato – “la Russia se non vince perde, l’Ucraina se non perde vince” – si mutò nel contrario, la controffensiva del 2023 troppo annunciata non avvenne, ed era ora la Russia a vincere se non avesse perduto, e la Russia delle atomiche per definizione non può “perdere”.

Al cambio di regime andò vicino Prigozhin, e riuscì in una parodia. Oggi non c’è uscita che non sia un compromesso, e non possono essere gli ucraini a proporlo – salvo un disastroso ribaltone interno – e piuttosto qualche resto del mondo a imporlo, a condizione di tagliare le unghie a Putin. Aver chiamato “piano per la vittoria” invece che per la pace, la proposta ucraina, è, temo, una persistenza nell’errore. Il saggio Biden, come chi è quasi fuori gioco, ha ricevuto Zelensky e il suo piano dichiarando che l’Ucraina ha vinto. Non c’è più bisogno di promettere vittorie.

Netanyahu ha appena promesso il cambio di regime in Iran: è la sua strategia, e l’ha annunciata al popolo iraniano – compreso l’eccesso di zelo, “persiano”, la Persia di Ciro o dello scià. E’ altra cosa dal proposito iniziale, disperato, di trascinare gli Stati Uniti in una guerra con l’Iran (non ebbi dubbi su quel proposito, né ne ebbe Giuliano Ferrara, che però lo condivise: al mattatoio di Gaza lui ha saputo rassegnarsi, addebitandolo intero agli invasati di Hamas).

A cambiare il paesaggio non è stato lo sfoggio di potenza su Gaza: quello non ha fatto che macchiare il nome di Israele ed esaltare il martirologio coltivato da Hamas. E’ stata piuttosto la sequenza libanese dei cercapersone e dei walkie-talkie, non solo perché ha preparato il colpo fino a poco prima impensato contro Nasrallah, ma perché ha rivestito la superiorità di Israele di un culmine sulfureo di astuzia e perfezione tecnica, qualcosa che abbatte e demoralizza.

E, rimpiccioliti di colpo pasdaran siriani e hashd-al shaabi iracheni e artiglieri yemeniti, ha messo direttamente di fronte un Iran spaventato e un Israele sicuro di tenere in pugno gli Usa, almeno fino alla nuova presidenza. Un mese, direbbe Netanyahu accorciando Begin, per noi ebrei vale un’eternità – e per lui specialmente.

A questo punto, col titolo di Ordine Nuovo, la decisione di guadagnarsi un giorno dietro l’altro all’azzardo, al rialzo, è finalmente apparsa come una strategia, e così lui la ostenta. Il nuovo ordine è un vicino oriente in cui l’Iran teocratico non esista più, o, se sopravviva fuori e dentro, esca ridimensionato drasticamente nelle sue ambizioni egemoniche, e i grandi sunniti se ne compiacciano.

E intanto che la attenuazione, fino a una cancellazione di fatto, dell’ostilità fra sunniti e sciiti, che a Gaza soprattutto era progredita, sprofondi nella fossa di Beirut in cui è morto Nasrallah. E nelle processioni che lo invocano erede del martirio dell’imam Husayn a Kerbala e si battono i petti maledicendo il traditore Yazid.

Fino al micidiale scherzo infantile dei cercapersone, ci si era chiesti fino a che punto sarebbe arrivato Hezbollah. Dopo Nasrallah, ci si è chiesti fin dove sarebbe arrivato l’Iran – fin dove Netanyahu l’avrebbe costretto ad arrivare. Una volta che l’Iran fosse in gioco senza più riserve, ci si chiederà fin dove arriverà la Russia, o la stessa ipocrita e parassita Turchia, o l’Iraq della maggioranza sciita…

Resta il fatto che l’Israele dell’estremismo messianico, dei coloni e della negazione dei palestinesi, l’Israele che ha messo in gioco la propria sopravvivenza di stato e ha suicidato la propria anima presso tanta parte della diaspora e della gioventù del mondo, si è trovato a rivolgere all’Iran di donna vita e libertà una promessa di liberazione, quella che Zelensky avrebbe rivolto alla Russia se avesse saputo, e se la Russia non avesse così saldamente in pugno il vecchio knut e le vecchie bombe atomiche.

Nel giro di un anno, per effetto di un’impresa di cuori efferati e di deltaplani e altri congegni derisori, tutti i troni del vicino oriente, nessuno escluso – tanto meno l’israeliano – sono scossi da vicino, personalmente, per così dire. Pensate meglio a quello che è successo martedì in Israele. Che il suo cielo è stato solcato dai duecento missili balistici, non tutti mandati a vuoto.

E che in un viale di Giaffa due attentatori hanno ucciso 7 cittadini israeliani, e feriti altri 6. I due, decisi a morire, erano venuti ad ammazzare uno con un fucile e l’altro con un coltello, si è detto: un bilancio che in famiglia sarà loro accreditato. Può darsi che i missili iraniani, vanitosi dei loro 2.000 km di gittata, finiscano insieme ai proclami roboanti dei loro turbanti presi a scappellotti dalle ragazze sulla strada. 

Può darsi che i due uomini scesi dal tram a Giaffa col fucile e il coltello siano il futuro.

(ANSA)

La parola della settimana. Sangue (napolimonitor.it)

di

Sono passati quindici anni da quando ho scritto 
il primo articolo per Monitor, un’inchiesta sulle 
case popolari e l’impero di Alfredo Romeo per 
il mensile cartaceo che stampavamo all’epoca.

Incontrai un ex compagno di classe a via San Biagio dei Librai (era pomeriggio, brutto tempo, strada deserta come non sa essere più).

Mi invitò a mandare qualche pezzo a questo giornale con cui collaborava. Era “un giornale diverso”, c’erano reportage, approfondimenti, persino dei suoi racconti un po’ strambi. Non so nemmeno io perché – credo di averlo fatto al massimo tre-quattro volte in vita mia – ma avevo con me una copia di Repubblica. Mi disse che Il Venerdì (chissà se esiste ancora) aveva pubblicato un’inchiesta di due redattori di Monitor sulla strage di Castel Volturno, che i giornali avevano soprannominato “strage di San Gennaro”.

Conclusa l’inchiesta sulle vittime dell’eccidio, i cui colpevoli erano stati arrestati e poi condannati all’ergastolo per “strage aggravata dall’odio razziale”, continuai a frequentare Castel Volturno. A volte girovagavo da solo […] oppure andavo a trovare le donne che avevo conosciuto, a casa delle quali trascorrevo ore bevendo e chiacchierando con gli altri ospiti. Altre volte seguivo Peter nelle sue giornate piene di impegni. Di lui apprezzavo l’allegria, la leggerezza, la capacità di stare in quei luoghi pieni di contraddizioni dialogando con tutti, italiani e africani, mostrando di conoscere le regole non scritte che ne governavano le relazioni. Più avanti decisi di andare a vivere a Pescopagano, località al confine tra Castel Volturno e Mondragone nota per essere abitata prevalentemente e in modo stabile da ghanesi e nigeriani. (salvatore porcaro, sedici anni dopo. ritorno a castelvolturno nell’anniversario della strage)

Quando incontrai il mio amico scrivevo, buttando il sangue, per Cronache di Napoli. Ma avevo vent’anni, grandi piani, e in mente le tappe che avrei raggiunto con pervicacia: il giornale locale, il tesserino di giornalista, il giornale locale più importante, la scuola di giornalismo a Perugia o a Milano, il giornale nazionale, e così via. Tempo, incontri, letture ed esperienze mi hanno fatto capire che volevo fare le cose diversamente, o comunque il modo in cui non volevo farle.

Vinsi un concorso per la scuola di giornalismo di Milano ma non mi iscrissi, provocando un certo disappunto nei miei. Due o tre dei venti ragazzi che furono presi, oggi sono giornalisti famosi. In un pezzo che abbiamo pubblicato qualche anno fa si diceva qualcosa del tipo: “Avrei potuto prendere il posto dove ha lavorato l’intera vita mio padre, ed essere infelice. Invece ho scelto di essere infelice a modo mio”.

L’installazione dei tutor è stata uno spartiacque per il giornalismo italiano. Anche io, quel giorno, ricevetti la telefonata della mio caposervizio, una ragazza paziente e professionale che anni dopo si sarebbe quasi scusata per gli articoli che era costretta ad assegnarmi. Il compitino prevedeva quindicimila battute divise in tre pezzi, con interviste agli utenti della tangenziale, al rappresentante delle associazioni di consumatori, “magari ai casellanti”. (palanza&pazzaglia, è la stampa: munnezza)

L’uccisione degli africani a Castel Volturno mi colpì molto, anche se venivamo dagli anni della guerra tra famiglie a Scampia, che avevo seguito leggendo e ascoltando quanto di decente riuscivo a trovare: settanta morti in un anno e mezzo, alcuni dei quali colpevoli solo di essere parenti di, o addirittura vittime di uno scambio di persona.

Forse è che al sangue uno non ci fa l’abitudine, lo dicono pure alcuni medici, e per di più il litorale domizio rappresentava una parte significativa della mia vita (da lì a qualche anno, come i cerchi provocati da un sasso gettato in un – regio – lagno, le connessioni si sarebbero allargate all’hinterland industriale adiacente).

Fatto sta che, da quell’anno, più che al sangue che si scioglie nella chiesa di via Duomo, il 19 di settembre mi viene sempre da pensare a quella storia, cancellata dalla memoria collettiva come accade quasi sempre quando le tragedie riguardano i poveri e i disperati.

Qualche giorno fa mi sono messo a sistemare la libreria, perché mi sono accorto che alcuni volumi erano finiti in un settore sbagliato (cosa estremamente grave dal mio punto di vista). Mentre decidevo se i libri dello stesso autore devono andare in ordine di grandezza – dal più alto al più basso – o alfabetico, mi sono messo a pensare che Lennie, il gigante buono protagonista di Uomini e topi, uccide involontariamente, per colpa della sua forza, gli animali che vorrebbe accarezzare, ma lo fa senza spargere sangue.

Quando il suo amico George lo uccide, sul finire del libro, in quattro pagine che commuovono anche i lettori più cinici, lo fa invece con una pistola. Lo fa per evitargli il linciaggio della gente del posto che vorrebbe vendicarsi della morte di una donna, ancora una volta provocata da Lennie senza quasi accorgersene. Anche in quelle pagine finali, Steinbeck non utilizza mai la parola “sangue”.

“Dì ancora”, disse Lennie. “Come sarà un giorno. Avremo un pezzetto di terra…”.
“Avremo una mucca”, riprese George. “Forse avremo il maiale e le galline. E in fondo alla piana un pezzetto con l’erba medica”.
“Per i conigli!”, urlò Lennie.
“Per i conigli”, ripeté George.
“E io potrò accudirli”.
“Tu potrai accudirli”.
Lennie gongolò dalla felicità.
[…] Vennero schianti di passi dalla macchia. George si volse e fissò gli occhi da quella parte.
“Dì ancora, George. Quando l’avremo?”.
“L’avremo presto”.
“Io e te”.
“Tu e io. Tutti ti tratteranno bene. Non ci saranno più guai”. […]
Disse Lennie: “Credevo ce l’avessi con me, George”.
“No Lennie, non ce l’ho con te. Non ce l’ho mai avuta e non ce l’ho ora. Voglio che tu lo sappia”.
Le voci si accostavano sempre più. George sollevò la pistola.
(john steinbeck, uomini e topi)

Post scriptum. Alla fine martedì ci sono andato al concerto dei Co’Sang. Oltre al già detto fastidio di dover sborsare soldi per stare in una piazza, il fatto che uno spazio del genere non sia fatto per concerti a pagamento si è palesato in tutte le maniere possibili, dalla gestione delle file e degli ingressi, all’acustica imbarazzante. Nonostante il diluvio c’erano ventimila persone, è stato bello emozionarsi e vedere Antonio e Luca emozionati ripercorrere anni della loro vita che avevano dovuto cancellare in poche settimane, dodici anni fa.

Brillo come una dinamo
dribblo il colpo fatidico.
Questa pace ottenuta
col sangue alla Toni e Luca
va mantenuta.
Ma è Risiko,
anticipo i loro piani
Minimo, Loro Piana,
Lirico, Kurosawa.
(co’sang ft. marracash, carnicero)

(disegno di ottoeffe)