Gita al monte Trebevic, da dove il lupo sparava all’agnello, a Sarajevo (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola Posta

Ho preso la funivia. Durante la salita le case, i palazzi, i monumenti, i cimiteri si rimpiccioliscono alla svelta e lo sguardo si apre tutto attorno. Sarajevo è circondata dalle alture, un paradiso degli assedianti. Da lì sopra si bombardava e sparava a piacere, lì arrivavano i turisti del “safari” agli umani

Mi restava un pomeriggio di domenica sarajevese, abbiamo preso la funivia. La funivia era stata impiantata nel 1959 ed era diventata subito una gloria cittadina, una gloria tenera, da escursioni, primi baci, evasioni scolastiche.

Ce n’è un’intera letteratura. Raccomando l’articolo di Azra Nuhefendic per l’Osservatorio Balcani Caucaso, 5 aprile 2018, bellissimo, gratis, online. Quella era anche la data di rinascita della funivia, che dell’apertura della caccia all’uomo, il 6 aprile del 1992, era stata fra le prime vittime, e un suo dipendente, Ramo Biber, il primo morto ammazzato.

Dopo gli anni dell’assedio e la lurida svendita di Dayton, 1995, nessuno avrebbe scommesso un marco sulla ricostruzione della funivia. Finché arrivarono uno scienziato nucleare olandese-americano, Edmond Offermann, matto, forse, arricchito, certo innamorato della sua moglie bosniaca, Maja Amra Serdarević, fisica nucleare anche lei, attaccati al ricordo della loro prima salita in funivia. Lui ha messo 4 milioni di euro, un sindaco entusiasta, Abdulah Skaka, ha racimolato il resto.

E il nuovo impianto si è valso della tecnologia celebre di un’azienda sudtirolese, di Vipiteno, un’altra cosa che Alex non ha potuto vedere, e un giovane ambasciatore italiano, Nicola Minasi, a inaugurarla. Si va dal quartiere di Bistrik, che sta di fronte alla Vijećnica, la biblioteca moresca sontuosamente restaurata, giusto di là della Miljacka, dov’è ancora la antica birreria, dove i cecchini sparavano alle persone in fila per un po’ d’acqua, e i bambini più piccoli erano il bersaglio col punteggio più alto. Alla partenza l’altitudine è di 583 metri, all’arrivo di 1.161, per un viaggio spettacoloso di sette minuti.

L’arrivo è sul monte Trebevic, che è un’affabile quinta cittadina, rigoglioso di boschi ed essenze, e di belvederi. Si sale e le case i palazzi i monumenti i cimiteri bianchi innumerevoli della città si rimpiccioliscono alla svelta, e lo sguardo si apre tutto attorno, perché Sarajevo è circondata dalle alture e perciò è un paradiso degli assedianti, che ne hanno fatto il record di durata dell’assedio moderno.

In cima, c’è la perdita d’occhio. Era una bellissima giornata, domenica pomeriggio, e in alto l’aria era pura e fresca e senza vento, ci sono voluti vent’anni per ripulire la montagna dalle mine. La vista, magnifica. Dovunque si volga lo sguardo, è Republika Srpska. Più in alto, la cima del Trebevićc è Republika Srpska. Non ci sono, al momento, cannoni e fucili di precisione, ma l’assedio continua, è stato sancito a Dayton.

Superior, sul Trebevic, stava il lupo (si chiamava anche così, Vuk), e sotto, di gran lunga, l’agnello, e da sopra bombardava e sparava per più di quattro anni, a piacere, e arrivavano i turisti del safari agli umani, personalità di spicco, non di rado, accolte con gli onori, messe prontamente in grado di provare le armi e la mira, fucili, mitraglia, il poeta fascinosamente maledetto Eduard Limonov, io non ho niente contro i bravi scrittori che raccontano gli uomini rotti a tutto, ma ora sono qui su, e l’aria è tersa e non ho bisogno di un binocolo per distinguere le figurine delle famiglie domenicali nella strada della pivara, la birreria e della vecchia fila dell’acqua, e lo slargo sul lungofiume dove si prepara il concerto serale dell’amicizia col Montenegro nel giorno della sua liberazione dal nazismo e la Biblioteca Moresca che non è più biblioteca ma è sontuosa e pronta a ricevere un altro arciduca con l’uniforme cucita addosso per sembrare dimagrito e un pazzo di dio nell’atrio scoperchiato con le ciabatte nella neve che inveisce al cielo e se ne fotte della sparatoria, e insomma io non voglio convincere nessuno, ci mancherebbe, ma non lo leggo, Carrére, e non lo piango, Limonov.

(Sarajevo dal monte Trebevic – foto di Julian Nyca, WikiCommons)

Borsellino, un tradimento lungo 33 anni (lespresso.it)

di Enrico Bellavia

Puntare soltanto sul dossier del Ros è fuorviante. 

Nell’anniversario della strage, ricordiamo il contesto

I solato, ignorato. Tradito. Ucciso. E poi tradito ancora. Per 33 anni. È una gigantesca perpetua impostura quella perpetrata ai danni della memoria di Paolo Borsellino. Iniziata, nel nido di vipere del Palazzo, ben prima del furto dell’agenda rossa, in mezzo ai resti fumanti della carneficina di via D’Amelio. Seguita nel buio di un’indagine sbilenca.

Schiantatasi sulle bugie di Scarantino, il pupo vestito da pentito. Protrattasi nella rincorsa a verità di comodo. Continuata nel vortice di carte mischiate a proteggere carriere, complicità, connivenze e silenzi inossidabili. Proseguita ora nell’obliquo tentativo di revisionare l’intera storia.

Accade in un’Antimafia che ha per suggeritori due ex ufficiali del Ros, Mario Mori e Giuseppe De Donno. Ovvero i protagonisti dell’opaca stagione negoziale che anziché fermare le bombe mafiose, le moltiplicò, nella convinzione dei boss di incassare il dividendo dell’orrore. La giustizia ha escluso che fu reato trattare con l’ex sindaco emissario dei Corleonesi, Vito Ciancimino.

Ma la sentenza non cancella il dubbio che Cosa nostra ne ricavò la certezza di una sicura remunerazione dei propri sforzi al tritolo. Una strategia terroristica iniziata il 23 maggio del 1992 a Capaci, proseguita il 19 luglio in via D’Amelio e poi esportata in Continente con le bombe di Firenze, Roma e Milano. Di questo l’Antimafia si occupa meno.

Al contrario della procura di Firenze che indaga su Mori. Della coppia di ex militari, ai commissari interessa di più il dossier mafia e appalti. Si tratta di un rapporto investigativo sugli interessi diretti dei padrini nel controllo delle opere pubbliche.

D’intesa con alcuni politici. Il grosso dei nomi, a dire il vero, circolava a beneficio dei giornali, quasi ce ne fosse un secondo, più completo, di dossier. Presentato nel 1991 alla procura di Palermo, diretta allora da Pietro Giammanco, il rapporto fu messo in sonno, poi ripreso, scandagliato, in parte archiviato, e sviluppato con l’impulso dello Sco, fino a processi e condanne. Nel vortice degli stracci di un rinnovato interesse, pure la procura di Caltanissetta si incarica di riscrivere come andò la tortuosa vita di quel fascicolo. Borsellino, è vero, si interessò al rapporto.

Ma di sicuro non era l’unica fonte della sua curiosità sul tema. E nulla seppe del dialogo aperto con Ciancimino. Sapeva per conto proprio degli affari siciliani della Calcestruzzi di Ravenna, come del legame tra Vittorio Mangano e Dell’Utri.

Sarà comodo per qualcuno, ma ricondurre la strage solo al dossier del Ros rischia di non far vedere il contesto. Quel grumo in cui affonda il passaggio tra la prima e la seconda Repubblica, mentre Tangentopoli scompaginava l’arco costituzionale, i partiti erano allo sbando e la mafia giocava la sua partita, salutando poi con la tregua il nuovo corso del Paese che da lì a poco si sarebbe inaugurato. Ma anche soltanto a volere stare stretti sui 57 giorni tra Capaci e via D’Amelio, ci sarebbe stato molto da approfondire.

E in parte si potrebbe ancora, almeno fino a quando qualcuno dei protagonisti di allora è ancora in vita. Borsellino ebbe modo di sollecitare che i colleghi di Caltanissetta lo ascoltassero per fargli dire ciò che sapeva intorno alla fine di Giovanni Falcone. Nessuno lo chiamò. Non ci si è sforzato di trovare quel «qualcuno» che lo aveva «tradito» di cui parlò.

Né, quando era possibile, si approfondì il perché il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco gli impedì di indagare sul capoluogo, concedendoglielo solo con una telefonata all’alba del giorno della strage. Né perché non ci fosse neppure un divieto di sosta sulla via della morte a proteggere l’uomo più esposto e più solo d’Italia. E il più tradito.

Open Arms, la Procura contro l’assoluzione di Salvini: ricorso immediato in Cassazione. «Fatti accertati, il tribunale ha ignorato le leggi» (corriere.it)

di Giovanni Bianconi

Il ministro Salvini è stato assolto in primo 
grado dall'accusa di sequestro di persona per 
lo sbarco negato a 147 migranti nel 2019. 

La mossa inusuale (e forse inedita) dei pm: «I fatti sono accertati e non contestati, è una questione di diritto».

La Procura della Repubblica di Palermo ha presentato ricorso alla Corte di cassazione contro l’assoluzione in primo grado dell’ex ministro dell’Interno e vicepremier del governo Conte 1 (oggi ai Trasporti e ancora vicepremier) Matteo Salvini, imputato di rifiuto d’atti d’ufficio e sequestro di persona in danno dei 147 migranti trattenuti a bordo della nave Open Arms nell’agosto 2019.

Dura la reazione di Salvini: «Ho fatto più di trenta udienze, il Tribunale mi ha assolto perché il fatto non sussiste riconoscendo che difendere i confini non è un reato. Evidentemente qualcuno non si rassegna, andiamo avanti: non mi preoccupo».

Si tratta di una mossa inusuale e forse inedita: rivolgersi direttamente ai giudici di legittimità per contestare un verdetto di primo grado, saltando l’appello.

Una scelta sottoscritta dal procuratore Maurizio De Lucia, dall’aggiunto Marzia Sabella e dalla sostituta Giorgia Righi, basata sulla convinzione che la questione vada affrontata solo in diritto.

Il tribunale che il 20 dicembre scorso assolse Salvini, infatti, nelle motivazioni depositate il 19 giugno non ha contestato la ricostruzione del fatto o le considerazioni dell’accusa intorno alla commissione o meno dei reati contestati; s’è limitato a stabilire che, sulla base dell’interpretazione delle leggi sui salvataggi in mare e delle convenzioni internazionali – definite «precarie», «inaffidabili», «incompiute», fornendo un quadro normativo con «poche certezze e molte aree grigie» – l’Italia non aveva alcun obbligo di concedere alla nave spagnola con i naufraghi a bordo il Pos, ovvero il luogo di sbarco sicuro con cui devono concludersi le operazioni si soccorso.

Nel processo i pubblici ministeri avevano sostenuto il contrario, e da lì avevano fatto discendere le accuse all’ex responsabile del Viminale, titolare del potere di accordare il Pos. Sulle quale il tribunale s’è soffermato poco o nulla, proprio in virtù della mancanza del presupposto principale negato dai giudici; di qui il verdetto di non colpevolezza perché «il fatto non sussiste».

Nel frattempo però, tra l’assoluzione e il deposito delle motivazioni, è arrivata un’altra sentenza, pronunciata dalle Sezioni unite civili della Cassazione nel febbraio scorso, che dovendo giudicare su un caso analogo (quello della nave Diciotti, a cui pure l’ex ministro dell’Interno del governo Lega-5Stelle negò lo sbarco nell’estate del 2018) secondo i pm sgombra il campo da dubbi e interpretazioni sull’obbligo contestato dai giudici del tribunale.

La presunta assenza di regole chiare sull’individuazione dello Stato «che deve farsi carico dei soggetti tratti in salvo» dopo il primo soccorso «si rileva destituita di fondamento», hanno scritto i giudici della Corte suprema. E prendendo spunto da quest’altro verdetto emesso dal massimo organo di legittimità, la Procura di Palermo ha deciso di rivolgersi direttamente alla stessa Cassazione, saltando il grado d’appello.

«La sentenza in esame – scrivono i pm nel ricorso – si rivela manifestamente viziata per l’inosservanza di quella serie di norme integratrici, quali quelle sulla libertà personale e le Convenzioni sottoscritte dall’Italia per il soccorso in mare di cui il tribunale avrebbe dovuto tenere conto nell’applicazione della legge penale».

Se la Corte suprema dovesse respingere il ricorso, la partita giudiziaria sulla Open arms si chiuderebbe in maniera definitiva, in anticipo rispetto ai tempi degli abituali tre gradi di giudizio; se invece il ricorso venisse accolto, allora si andrebbe in corte d’appello, ma solo per analizzare i principi di diritto che i giudici del «palazzaccio» romano dovessero eventualmente individuare cancellando la sentenza di primo grado.

Una strada insolita, che i pm di Palermo hanno intrapreso convinti della bontà della loro impostazione giuridica, ma che non mancherà di riaccendere le polemiche intorno a un processo che fin dall’inizio s’è colorato di politica e di polemiche tra i partiti. Non foss’altro perché è stato reso possibile dall’autorizzazione a procedere concessa dal Parlamento dopo la rottura dell’alleanza di governo tra lega e 5Stelle; in precedenza, quando i patto tra i due partiti non s’era incrinato e la maggioranza era compatta, sull’analogo caso Diciotti l’autorizzazione a procedere era stata negata e Salvini non andò alla sbarra.

Sulla Open Arms l’autorizzazione fu invece concessa dopo che il tribunale dei ministri aveva valutato la sussistenza dei reati, e la Procura (all’epoca guidata da Franco Lo Voi, oggi procuratore di Roma) chiese e ottenne il rinvio a giudizio.

A settembre la richiesta di condanna di Salvini a sei anni di reclusione, a dicembre l’assoluzione in primo grado e adesso l’approdo diretto in Cassazione.

Il leader della Lega Matteo Salvini con l'avvocato Giulia Bongiorno dopo la sentenza del processo Open Arms, Palermo, 20 dicembre 2024. ///// Italy's Deputy Prime Minister Matteo Salvini, flanked by his lawyer Giulia Bongiorno, addresses media at the Bunker Courtroom of the Pagliarelli prison in Palermo after the Sicilian court acquitted him of illegally blocking migrants on a rescue ship off Italy in 2019, after a lengthy and high-profile trial, Italy, 20 December 2024. ANSA/IGOR PETYX

L’imperialismo culturale russo, e i volenterosi complici campani di Putin (linkiesta.it)

di

Colonia Italia

Mosca da secoli usa la cultura per annientare le identità dei popoli sottomessi. Continua a farlo anche adesso in Ucraina e altrove, e a infinocchiare l’occidente liberal-democratico con i suoi artisti propagandisti come Valery Gergiev, ospite d’onore dello zar di tutte le Campanie

È incredibile come dopo tre anni dall’aggressione russa, dopo undici anni dall’occupazione illegale della Crimea e dell’Ucraina orientale, dopo secoli di imperialismo militare, culturale e linguistico capitanato da chiunque abbia governato Mosca, in Occidente e in particolare in Italia si continui ancora a ignorare che la cultura, la sedicente Grande Cultura Russa, ha un ruolo ben preciso, barbarico, coloniale, nella storica strategia coloniale del Cremlino per conquistare, annettere e annientare territori, popolazioni e identità considerate interne all’Impero zarista, all’Unione sovietica e alla Federazione Russa.

La russificazione delle nazioni definite sorelle in Asia centrale, nel Caucaso, sul Mar Baltico, nelle “province” europee, ai confini con la Cina, in nome della «fratellanza dei popoli» è storicamente una forma di imperialismo culturale ancora più spietato di quello occidentale, e non solo perché gli europei a loro modo, perdendo le guerre, più o meno da un secolo hanno fatto i conti con le proprie colpe del coloniali e hanno anche affrontato i processi di decolonizzazione, anche culturale, mentre la Russia non ci pensa nemmeno.

Come ha scritto Natalia Antelava su Linkiesta Magazine lo scorso anno, «nel corso dei secoli, mentre le potenze europee conquistavano territori d’oltremare, la Russia ha gestito un impero di terra che ha assorbito i suoi vicini.

E, mentre gli europei sostenevano l’idea che i loro sudditi fossero “diversi” da loro, i russi li conquistavano usando un altro strumento: “l’identicità”, ovvero la pretesa che fossero la stessa cosa dei russi. Nel sistema coloniale russo, poi perfezionato dai sovietici, ai popoli sudditi era vietato parlare nella loro lingua o celebrare la loro cultura (al di fuori di una versione sterilizzata approvata e autorizzata da Mosca)».

Il concetto di “identicità” è stato spiegato alla perfezione dal filosofo Volodymyr Yermolenko, assiduo frequentatore di queste pagine, con un paragone esatto: il messaggio del colonialismo occidentale era “voi non siete capaci di essere come noi, per questo vi imponiamo le nostre leggi e i nostri costumi”; il messaggio del colonialismo russo, invece, era ed è ancora “a voi non è consentito essere diversi da noi, e quindi cancelliamo ogni traccia di tradizione, lingua, cultura, identità locale e le sostituiamo con le equivalenti russe”.

La cultura è stata, e lo è anche oggi, uno degli strumenti di coercizione piu micidiali utilizzati da Mosca per impedire forzosamente alle identità dei popoli sottomessi di mostrare di essere diverse da quelle russe.

La cultura russa, così come lo sport, è usata da Mosca anche per diffondere in Occidente l’idea della fratellanza dei popoli (sottinteso russificati), e dell’identicità tra russi e ucraini e georgiani e baltici e moldavi e crimeani e ceceni e kirghisi e azeri, grazie alla colonizzazione culturale del mondo russo.

Una forma di colonialismo assoluto, accompagnato da pulizia etnica, linguistica e culturale, brandito da chi ha pure la faccia tosta di vantarsi di imporlo ai sottomessi in nome della solidarietà tra i popoli e di una battaglia anti coloniale.

Le recenti prese di posizione, anche di sinceri amici dell’Ucraina, contro la meritoria campagna di Pina Picierno, Marco Taradash ed Europa Radicale per fermare l’esibizione del direttore d’orchestra e propagandista russo Valery Gergiev, inopinatamente invitato dallo zar di tutte le Campanie Vincenzo De Luca, non tengono conto di quanto sia strumentale, pericolosa e potente l’arma ibrida della cultura russa usata da Mosca nella guerra al sistema liberaldemocratico.

Non capire questo, dopo tutto questo tempo, non è più ignoranza o superficialità, è volenterosa complicità con i carnefici di Putin.

Olesya Khromeychuk, giovane e lucida intellettuale ucraina del tipo che qui da noi servirebbe come il pane per rivitalizzare un discorso pubblico grottesco, cinque giorni fa ad Amsterdam ha provato a ribadire il concetto, dal punto di vista ucraino, in modo semplice e chiaro: «Credo che tutte queste dichiarazioni secondo cui la cultura va tenuta al di sopra della sfera politica sono molto spesso una scusa per non leggere in modo critico la cultura, e per giustificare le responsabilità che la creatività si porta dietro e le conseguenze che la cultura può avere nel progetto di distruggere un’altra cultura. In Ucraina non abbiamo il privilegio di una lunga tradizione di statualitá, quella che di solito garantisce credibilità e fiducia epistemica. Non abbiano neanche una tradizione di statisti da venerare, cosa che credo sia anche un aspetto positivo, ma nella nostra tradizione abbiamo figure culturali, scrittori, poeti, artisti che rappresentano un’àncora sulla nostra identità. Naturalmente quelli che negano la nostra soggettività e negano la nostra identità, e qui parlo ovviamente di quelli che stanno al Cremlino, sanno perfettamente che la cultura per noi è una questione profondamente politica, sanno che la cultura ci àncora alla nostra identità. Per questo attaccano anche la nostra cultura, per questo combattono una guerra genocidaria che non mira soltanto a distruggere il nostro Stato, ma anche a distruggere la nostra cultura».