di Lorenzo Cremonesi
Il Paese, i giovani, il fronte
Ricordate cosa pensavamo praticamente tutti quelle prime ore dell’attacco russo la mattina del 24 febbraio 2022?
Che l’Ucraina era spacciata; Volodymyr Zelensky sarebbe scappato; il suo esercito si sarebbe squagliato come neve al sole. Inutile girarci troppo attorno: il Paese non avrebbe tenuto.
Lo pensavano sia i sostenitori del diritto russo a riprendersi le sue «province storiche», sia i difensori ad oltranza del principio dell’autodeterminazione dei popoli e quindi dell’indipendenza dei Paesi nell’Est Europa risorti dopo l’implosione dell’Unione Sovietica con la fine della Guerra Fredda.
Persino Joe Biden, che pure ben conosceva il grado di sostegno militare fornito dagli Stati Uniti e dagli altri Paesi alleati a Kiev sin dall’attacco russo nel 2014, non valutava affatto possibile che gli ucraini sarebbero stati in grado di resistere. Tanto che, meno di 48 ore dopo l’aggressione, il presidente americano offrì all’amico ucraino di scappare in elicottero per organizzare la lotta da una qualsiasi località di sua scelta in esilio. Una fuga garantita dai commando scelti Usa per salvarsi la vita.
Invece avvenne qualche cosa di totalmente inaspettato. Una di quelle svolte improvvise della storia che costringono a rivedere le proprie convinzioni, lasciano spiazzati e meravigliati a fronte delle infinite variabili della realtà, smentiscono gli esperti e rendono più sorprendenti le nostre esistenze. Gli ucraini resistono, tengono botta, prendono le armi e combattono.
Zelensky non scappa: l’attore diventato politico solo due anni prima chiede armi, non rifugi all’estero. Attenzione! Adesso qualcuno dirà che questa storia l’ha già sentita cento volte, che è parte della propaganda dei filo Nato, che l’importante resta che la Russia comunque vincerà.
E invece no. Proprio in occasione di questo ottantesimo anniversario del 25 Aprile italiano è indispensabile tornare a ricordare quelle ore, quei giorni di lotta e sacrificio. Ed è necessario che coloro che hanno visto tornino a raccontare, a ricordare, a sottolineare. Proprio per il fatto che allora nulla era scontato, se non la narrativa del trionfo russo.
Gli eventi vanno compresi nel loro divenire, nell’incertezza rischiosa, caotica e inquietante del loro contesto. Noi europei occidentali ancora non ci capacitiamo, non lo capiamo. Ma lo slancio degli ucraini non è la retorica melensa degli eroi che lottano e muoiono per la libertà. Resta piuttosto la realtà di esseri umani — uomini, donne, giovani e anziani — che da un momento all’altro lasciano i letti caldi delle loro case e si mettono in fila ai centri di reclutamento per imparare a usare un fucile, a tirare una bomba a mano, a costruire una casamatta con le feritoie all’entrata della città.
Ognuno è chiamato a decidere del suo destino. C’è come una generosità diffusa che è direttamente proporzionale al rischio collettivo. Nelle cantine di bar e ristoranti nascono mense popolari che offrono pasti caldi gratuiti. Nei quartieri periferici e nei villaggi si creano spontaneamente «comitati di difesa» che presidiano gli accessi.
Anziani cacciatori si danno il turno come sentinelle coi loro fucili vetusti quando appare evidente che le avanguardie russe con una gigantesca manovra a tenaglia stanno cercando di circondare totalmente Kiev. Accanto a loro, migliaia si mettono a preparare le molotov con le bottiglie di vino vuote raccolte nei secchi dell’immondizia sotto casa, scavano trincee nei parchi, agli incroci, presidiano i ponti.
Consultano in rete come fare: i blogger danno istruzioni, scaricano dai siti di cose militari. Nei garage costruiscono cavalli di frisia con pezzi di ferro e vecchie traversine per bloccare le colonne dei tank. Gli anziani si pungono maldestri coi rotoli di filo spinato e li posizionano sul selciato.
Vero: tanti scappano. Kiev, che oggi è in lutto, per i missili e i droni assassini delle ultime ore, perde in poche ore metà della popolazione. Ma i due milioni che restano si preparano a una lunga e sanguinosa guerriglia urbana. Non s’imboscano, a loro modo «salgono sulle montagne», scelgono la via più difficile del sacrificio, del rischio personale.
«Sono tornato dopo dieci anni da Napoli per combattere. Non ho mai sparato un colpo in vita mia, detesto la guerra. Ma i porci russi non si prenderanno il mio Paese tanto facilmente, sono pronto a uccidere e essere ucciso», mi dice in perfetto italiano un trentenne appena arrivato alla stazione di Kiev. La cosa che stupisce è che questa gente, specie nelle grandi città come Kiev, Leopoli, Kharkiv, Odessa e Dnipro, in apparenza pensa e si comporta come un qualsiasi romano, milanese, parigino o berlinese.
Alcuni ragazzi, non avranno più di 22 o 23 anni, che stanno acquistando di tasca loro ai grandi magazzini sacchi a pelo, scarponi e giacche pesanti per andare a combattere nella zona tra Bucha e Irpin, raccontano che per Capodanno erano stati a Venezia. Uno spiega che si è sposato da poco in una basilica di Parigi con la sua fidanzata dei tempo del liceo.
A differenza dei loro nonni e padri, che parlano solo il russo e poco ucraino, loro sono abituati a viaggiare e lavorare nelle città europee. Sono il frutto diretto dell’apertura al mondo occidentale accelerata dagli eventi del 2014. Eppure, la grande differenza resta che adesso stanno andando a combattere.
Ed è questo che diventa importante per noi nel giorno della commemorazione della Resistenza. Certo che poi la guerra si è trasformata in una cosa del tutto diversa. Certo che poi sono diventati vitali gli aiuti americani e degli alleati europei. Certo che oggi il Paese è stanco, gli ucraini temono per il loro futuro, il governo di Kiev ha commesso tanti errori e mancano volontari per il fronte.
Ma proprio la generosa mobilitazione ucraina della prima ora ha sconfitto l’illusione della guerra lampo di Putin ed è diventata un esempio per tutti noi.