#Ukraina

Mentre si parla di negoziati la Russia intensifica 
gli attacchi contro l’Ucraina. 
Missili e droni colpiscono palazzi residenziali, non obiettivi militari.
«Abbiamo visto droni puntare direttamente sulle facciate di palazzi sventrati, facendo decine di vittime», spiega Anna Zafesova. «Ad aprile e maggio le vittime civili sono aumentate del 50% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. È un escalation deliberata, non un effetto collaterale».
Mosca approfitta delle difficoltà ucraine, aggravate dal trasferimento di armi difensive verso il Medio Oriente dopo l’inizio del conflitto Iran-Israele.
E intanto, mentre al G7 si cerca un fronte comune, Donald Trump rilancia le richieste del Cremlino.
«Trump si fa portavoce delle istanze russe. Dopo un colloquio con Putin ha giustificato sui social la ‘rappresaglia’ per gli attacchi ucraini, senza esprimere alcuna condanna».
Rubrica “Postosovietika” a cura di Ada Pagliarulo, con Anna Zafesova, analista de La Stampa e Il Foglio.
Puoi riascoltare la puntata integrale sul sito di Radio Radicale:

La spettacolarizzazione del male, e i pericoli del racconto mediatico delle stragi (linkiesta.it)

di

No, Graz

La stampa ha raccontato la sparatoria nella scuola in Austria ripetendo errori noti: empatia per lo stragista, semplificazioni sulle cause, diffusione del suo materiale

La strage di Graz della settimana scorsa è stata una doccia fredda per l’opinione pubblica e per la stampa europea: l’Austria ha avuto il suo primo school shooting, un evento inedito nella storia recente del Paese, ed estremamente raro in quella del continente.

Del resto, le stragi nelle scuole sono un fenomeno che viene naturalmente associato al mondo anglosassone, nello specifico alla società statunitense, dove la diffusione delle armi, la cultura che le circonda e gli esempi storici (primo tra tutti il massacro della Columbine del 20 aprile 1999) hanno reso lo school shooting la prima causa di mortalità infantile, ma anche un fenomeno pop.

Quest’ultimo punto – a tratti incomprensibile per il pubblico europeo – dipende da due fattori essenziali: le contronarrazioni sviluppate da un sottobosco che riunisce appassionati (innocui) dei singoli casi e apologeti e dagli errori compiuti dai media tradizionali. Il tutto viene facilitato da un contesto, quello americano, dove l’estrema frequenza di questi episodi (nel 2023 ci sono state seicentocinquantasei stragi di massa nei soli Stati Uniti) rende il tema perennemente attuale.

Proprio per il suo carattere inedito, il racconto di Graz fatto dai giornali europei – e in particolare quelli italiani – presenta tutti gli errori peggiori che la stampa rischia di commettere quando si riporta un caso simile. Il primo è quello più scontato, il richiamo al bullismo subito dall’attentatore.

Nel tracciare l’identikit dell’assassino, i nostri giornali hanno subito incluso questo elemento: espressioni come «il killer era vittima di bullismo», «lo studente aveva subito bullismo dai suoi ex compagni» e simili vengono sfruttate per offrire una descrizione, tanto immediata quanto arbitraria, dei presunti motivi dietro l’attacco, ma, nei fatti, contribuiscono a creare un senso di empatia da parte di una frangia non trascurabile dell’opinione pubblica nei confronti dello stragista.

L’esempio storico di questo meccanismo è offerto dalla cronaca giornalistica della strage di Columbine, l’apripista del fenomeno pop legato agli school shootings. I responsabili del massacro, Eric Harris e Dylan Klebold, furono dipinti dagli organi più autorevoli della stampa americana come degli esclusi, vittime di bullismo che hanno cercato una vendetta (estrema) contro i loro aguzzini.

Peccato che questa testimonianza provenisse dal materiale prodotto dagli stragisti stessi che, nei videodiari registrati a ridosso dell’attacco, si sono presentati al loro potenziale pubblico come gli apripista dell’imminente «rivoluzione dei reietti».

Questa retorica della rivalsa contro il bullismo subito è stata ampiamente smentita grazie a lavori giornalistici come Columbine di Dave Cullen, ma il danno, ormai, era fatto.

Le conseguenze di questa grossolana semplificazione giornalistica sono state tragiche: attorno alle figure di Klebold e Harris si è creato un vero e proprio mito, retto da un filone di fanatici che, dall’empatia, sono passati alla comprensione e, in alcuni casi, all’emulazione. Ne è un esempio Adam Lanza, il responsabile della strage di Sandy Hook del 14 dicembre 2012. È con Columbine che lo school shooter è diventato, nell’immaginario pop, una figura a sé stante che, a prescindere dal singolo caso, viene associato a una serie di stereotipi – estetici e comportamentali – tra cui quello della vittima portato all’estremo.

La vittimizzazione è una delle scuse usate dagli school shooters stessi per giustificare, preventivamente, un attacco che prende di mira vittime casuali – ed è qui che entra in gioco il secondo errore madornale compiuto dalla stampa: riportare, spesso senza alcun filtro, la testimonianza dell’assassino.

Da Columbine in poi, il materiale prodotto dagli assassini ha assunto un peso inedito nel racconto delle stragi di massa: diari, vlog e manifesti sono i mezzi con i quali i responsabili creano un rapporto tra loro e il pubblico di riferimento; emblematico il caso di Elliot Rodger, l’attentatore di Isla Vista (23 maggio 2014), che, con i suoi vlog, si rivolgeva direttamente alla platea online degli incel, gli involontariamente celibi saliti all’attenzione della cronaca negli ultimi anni.

Se, da una parte, la circolazione di questo materiale è stata facilitata dall’esplosione dei forum online e dei social – annullando così qualsiasi barriera tra lo shooter e il sottobosco di fanatici – già all’epoca di Columbine le produzioni amatoriali di Harris e Klebold, riportate acriticamente dalla stampa, hanno determinato un cambiamento profondo nel racconto della strage di massa.

Riportare questo materiale umanizza gli stragisti esattamente come il ricorso alla retorica del bullismo e, in entrambi i casi, sono un sintomo di spettacolarizzazione della vicenda e ricerca affrettata (e pigra) di possibili moventi per spiegare al lettore cos’è accaduto.

Mentre negli Stati Uniti è da oltre un decennio che si cerca di arginare il fenomeno mediatico – negli ultimi casi di stragi di massa è stata bloccata la diffusione dei manifesti scritti dagli attentatori, una contromisura necessaria, nonostante l’elefante nella stanza rappresentato da Internet – nei giorni successivi ai fatti di Graz numerose testate italiane hanno fatto riferimento al video registrato dall’assassino e destinato a sua madre, riportando estratti che fanno esattamente il gioco del carnefice: umanizzarlo a tal punto dal renderlo il protagonista, l’antieroe, della vicenda.

Perché è questo il loro obiettivo, raccontare la propria versione dei fatti, avallando l’idea di essere loro la parte lesa. Il tema è stato approfondito da numerosi giornalisti e accademici anglosassoni che hanno scritto del «terrorismo narcisista», un fenomeno che si lega alla questione del mass shooting, i cui responsabili sono spesso identificati come «terroristi in cerca di fama», ovvero stragisti il cui unico obiettivo è entrare nel pantheon nato con Columbine. Anche grazie agli errori della stampa, questo obiettivo riesce senza troppi ostacoli.

È per questo che il professore Adam Lankford ha codificato un vademecum destinato ai media per contenere il fenomeno: non dite il nome del responsabile; non mostrate sue foto o identikit; smettete di citare i nomi, le foto e le analogie con stragisti passati; riportate tutto il resto, scendendo nel dettaglio per quanto riteniate necessario. Indicazioni completamente ignorate dai nostri giornali.

L’Europa non si trova, da questo punto di vista, nella stessa situazione degli Stati Uniti: per noi gli school shootings, e più in generale i mass shootings, sono ancora un’eccezione tragica nel contesto più ampio della cronaca nera. Non esiste, fortunatamente, un fenomeno pop legato a questo tipo di eventi e sostenere il contrario non è altro che un tentativo, becero, di allarmismo. Ma errori come quelli legati al racconto di Graz restano imperdonabili.

LaPresse

Una foto dal passato – Razzismo e intolleranza (butac.it)

di

Stiamo vedendo ripartire un'ondata di 
disinformazione xenofoba che avevamo già visto 
svariati anni fa. 

A cominciare da un’immagine già molto conosciuta in questo ambito

Un lettore ci ha segnalato che sta tornando a circolare un’immagine di molti anni fa, dando a intendere che raffiguri immigrati in Italia oggi. Come capita spesso ultimamente, non ci è stato dato un link ai contenuti precisi che stanno circolando in questi giorni, ma conoscendo l’immagine abbiamo deciso di occuparcene comunque.

L’immagine ci è stata inviata come la vedete in apertura d’articolo, ma dodici anni fa invece circolava come la vedete qui sotto:

L’immagine viene veramente da lontano, qui la potete vedere in un articolo di marzo 2007 che riprendeva un pezzo del Dallas Morning News:

Dal 2007 l’immagine è entrata a fare parte della raccolta di immagini anti-immigrati condivise a ripetizione da siti come StormFront, ovvero da soggetti che hanno necessità di far circolare materiale che rafforzi le proprie narrazioni xenofobe.

Ed è questo il motivo per cui abbiamo scelto di parlare di questa segnalazione oggi: nelle scorse settimane infatti ci è capitato di vedere un copione che BUTAC ha già vissuto quasi una decina d’anni fa. Ne abbiamo già parlato in aprile, quando vi raccontammo del “maranza” e delle notizie inverificabili.

L’immagine qui sopra rientra perfettamente in quel filone “narrativo” che vuole tutti gli immigrati come maleducati, pericolosi, fuori controllo. Che non significa che non ci siano stranieri che delinquono e che andrebbero seguiti meglio, ma solo che stiamo notando un ritorno di una specifica forma di disinformazione che avevamo già incontrato sul nostro cammino anni fa. Come riportavamo in aprile:

…vorremmo tanto che le forze dell’ordine cominciassero a prestare maggiore attenzione a queste narrazioni. Perché sappiamo quanto facilmente la destra radicale sfrutti storie inverificabili, spesso infarcite di elementi fittizi o gonfiati ad arte, per alimentare l’odio. Non possiamo permetterci di abbassare la guardia. Ma il fact-checking volontario, da solo, non basta più. Servono giornalisti competenti, e servono istituzioni che vigilino.

Non stiamo parlando i casi isolati eh, tra il 2015 e il 2016 notizie simili erano il nostro pane quotidiano, non passava giorno che non cercassimo conferme dalle questure di episodi narrati su testate locali e qualche volta nazionali, notizie che non trovavano riscontri, e che avevano spesso una sola fonte: il denunciante.

Qualche esempio:

E questi sono solo alcuni dei nostri articoli durante quei due-tre anni di massiccia campagna xenofoba nel nostro Paese. Noi, ovvero un blog gratuito con una redazione che quando è stata alla sua massima espansione aveva cinque autori – volontari e non pagati – a scrivere nel tempo libero.

Quante notizie così sono girate in quegli anni?

Quante hanno contribuito a manipolare l’opinione pubblica sul tema immigrazione?

Perché nessuno ha fatto nulla?

Siamo dell’idea che stia succedendo lo stesso e vi invitiamo a fare attenzione: ogni volta che leggete una storia che presenta contorni troppo sfumati, dettagli poco chiari, testimonianze che suonano troppo faziose, segnalatecele.

L’organico della redazione di BUTAC è più piccolo rispetto a dieci anni fa, ma continuiamo a voler cercare di fare chiarezza su queste storie, specie visto che non molti tra i colleghi più strutturati sembrano interessati a trattarle.

Luca Casarini: «Io spiato? Conte dovrebbe scusarsi. Erano i suoi a chiamarci “taxi del mare”» (corriere.it)

di Alessandra Arachi

Il capomissione della ong Mediterranea sul caso 
Paragon: «La destra amplia i poteri dei servizi, 
l’opposizione ha la coda di paglia»

«Sono bipartisan, democratico, mi faccio spiare da tutti». Luca Casarini è il capomissione della ong Mediterranea, che con la sua nave fa i salvataggi in mare. Ha da poco saputo che Giuseppe Conte da premier è stato il primo ad autorizzare i servizi segreti a intercettare il suo telefono, prima che venisse utilizzato il software Graphite, della società israeliana Paragon, con il via libera di questo governo.

Non riesce a digerirlo: «Conte dovrebbe dire: scusate tanto ho fatto una cavolata, però adesso discutiamo dell’invadenza dei Servizi, del decreto Sicurezza. Invece ha pensato di giustificarsi: “Ah io ho spiato Casarini non i giornalisti».

Le storie di spionaggio di Casarini e degli attivisti della ong le ha ricostruite il Copasir. E lui ha fatto suoi quei documenti: «Era dicembre del 2019 (governo «giallorosso», ndr) quando Conte ha firmato l’autorizzazione. La nostra nave Mare Jonio aveva cominciato a operare da ottobre del 2018 e già da quel momento eravamo finiti nel mirino, con Salvini ministro dell’Interno che fece un decreto “ad navem”, contro di noi».

In un’intervista a Fanpage, venerdì scorso, Conte aveva ammesso di aver autorizzato da premier le intercettazioni di Casarini e di Beppe Caccia, negando di aver mai dato il via libera verso giornalisti come Francesco Cancellato: «Alla base c’era il clima sulla gestione dei flussi» migratori e indagini, anche della Procura, per chiarire se i salvataggi «avvenissero o meno in piena conformità con i regolamenti e i trattati internazionali». Ammissioni al centro anche di uno scontro con la vicepresidente dem del Parlamento Ue Pina Picierno.

Ma nei documenti del Copasir c’è scritto anche altro, continua Casarini: «Il 5 settembre 2024 Alfredo Mantovano ha autorizzato i servizi segreti a usare gli spyware di Paragon. È stata Meta ad avvisarmi, il 31 gennaio del 2025.»
È stato molto turbato Casarini da quello spionaggio. «Con Paragon si può fare tutto, il telefono è totalmente in mano loro. E hanno anche la possibilità di mettere nel tuo telefono quello che vogliono».

E, appunto, adesso ha potuto fare i conti facilmente: «Grazie al Copasir ho scoperto che mi spiano da 5 anni, cosa vogliono trovare ancora? Si sono trincerati dicendo: “Già la magistratura stava indagando”. Ma i dossier dei servizi segreti, per legge, non possono essere usati dalla magistratura. E mi chiedo: allora perché fate i dossier? A che servono?».

Casarini ha alle spalle un passato turbolento nei movimenti antagonisti, adesso però si è avvicinato alla Chiesa ed era molto vicino a papa Francesco. «Non faccio nulla di male. Anzi sì: disobbedisco alle leggi che vogliono che non si soccorra la gente in mare o che si diano i soldi ai lager in Libia».
Si sente orfano, in queste ore: «Ci vorrebbe un’opposizione degna di questo nome per prendere posizione contro l’abuso dei Servizi, di cui la destra sta ampliando i poteri. Ci vorrebbe un dibattito. Ma l’opposizione ha la coda di paglia». Eppure secondo lui bisognerebbe correre ai ripari: «Se chiunque può appiccicare a qualcuno l’etichetta di una minaccia per la sicurezza nazionale è finita».

Tra due settimane una nuova nave farà parte della flotta della ong di Casarini:«Avrà dentro un ospedale vero con 108 posti letto», dice, lui che adesso si dedica a salvare le vite in mare.

Vorrebbe cancellare questo episodio di Conte: «Vorrei andare da lui e dirgli, dai prendiamoci un caffè, guardiamo avanti, dobbiamo discutere sul ruolo dei servizi in questo Paese. Invece ho paura che dentro ci sia un po’ di rivendicazione. Mi ricordo bene: a definirci i “taxi del mare” non è stata la Meloni, bensì Luigi Di Maio».