L’angolo fascista
Non leggete “il Fango Quotidiano”
Un Paese civile non ha bisogno di forcaioli e bugiardi.
Tutte le condanne di Marco Travaglio
Maurizio Belpietro, La Verità e le condanne – Diario
Procedimenti giudiziari per Pietro Senaldi
Non leggete “il Fango Quotidiano”
Un Paese civile non ha bisogno di forcaioli e bugiardi.
Tutte le condanne di Marco Travaglio
Maurizio Belpietro, La Verità e le condanne – Diario
Procedimenti giudiziari per Pietro Senaldi
Tbilisi, Europa
L’ultima presidente legittima della Repubblica georgiana racconta a Linkiesta come il partito filorusso manipola la democrazia, mentre la resistenza civile prova a non spegnersi e continua a sognare l’Europa
A poche ore dai funerali di Papa Francesco, Piazza San Pietro è ancora invasa dai turisti. I cardinali e i pochi capi di Stato ancora a Roma si raccolgono a Santa Maria Maggiore, davanti alla tomba del Pontefice.
Di questi giorni rimarrà forse una sola immagine su tutte: Volodymyr Zelensky e Donald Trump seduti uno di fronte all’altro su due sedie spoglie nella grande basilica vaticana. Tra i leader europei in questi giorni a Roma c’è anche Salomé Zourabichvili, l’ultima presidente legittima della Georgia, che porta addosso la battaglia di chi non ha più un palazzo, ma ha ancora un popolo.
Il partito Sogno Georgiano, rimasto al potere dopo elezioni contestate per irregolarità, ha imposto l’elezione di un nuovo presidente. Un passaggio che ampi settori della popolazione non riconoscono come legittimo per le irregolarità delle elezioni politiche.
Salomé Zourabichvili vive una situazione istituzionale senza precedenti: priva di incarichi ufficiali, rappresenta il volto della resistenza democratica, raccogliendo le opposizioni in una piattaforma politica per cercare di indire nuove elezioni, questa volta regolari. La incontriamo in un hotel di Via Veneto, subito dopo aver partecipato alla messa nella Chiesa ortodossa di San Salvatore ai Monti; una funzione raccolta tra i suoi connazionali.
Presidente, cosa è emerso dai dialoghi informali che ha avuto in questi giorni con i leader di tutto il mondo riuniti qui a Roma? Ha percepito attenzione, preoccupazione o disinteresse per la situazione della Georgia?
Il funerale di Papa Francesco è stato un momento importante e altamente simbolico. Il fatto che sia stato anche un’occasione per fare passi avanti sulla questione ucraina è forse l’aspetto più rilevante. Personalmente non avevo un messaggio urgente da portare ai leader mondiali: il centro dell’attenzione è stato giustamente su Zelensky. Personalmente ho avuto contatti soprattutto con il presidente Emmanuel Macron e con altri capi di Stato, ma per Zelensky si trattava di una sfida diversa: riuscire a cambiare il tono rispetto all’incontro di Washington e affermare una propria linea, più autonoma, in questo consesso informale. Credo che ci sia riuscito.
E lei ha raggiunto il suo?
La Georgia, purtroppo, non era una priorità per i leader riuniti. Ed è questo uno dei problemi principali che affrontiamo oggi: il mondo è travolto da emergenze continue — dall’Ucraina, al Medio Oriente, ai rapporti con gli Stati Uniti — e la questione georgiana rischia di perdersi tra queste urgenze. È proprio per questo che, oltre agli incontri ufficiali, sono importanti anche le interviste e la comunicazione con l’opinione pubblica: se i cittadini europei non conoscono la nostra situazione, sarà ancora più difficile mobilitare l’attenzione dei loro governi.
E allora parliamone partendo da come sta vivendo questo intervallo di proteste tra due date simboliche: il 26 ottobre 2024, il giorno delle elezioni irregolari in Georgia che hanno confermato al potere Sogno Georgiano e il 26 maggio 2025, ovvero l’anniversario dell’indipendenza, quando tutto il mondo tornerà a parlare di Georgia, almeno per un po’. Mantenere alta l’attenzione non è facile.
È una vera sfida. È normale che una popolazione non possa protestare con la stessa intensità per sei mesi consecutivi, ovvero da quando sono state indette le elezioni o da cinque mesi dal momento in cui il Primo Ministro ha dichiarato di voler interrompere il percorso di integrazione europea. Ma, a dire il vero, i georgiani protestano da due anni, da quando nel 2023 fu introdotta la prima legge filorussa. Da allora, non si sono mai realmente fermati, salvo brevi pause.
Percepisce una certa stanchezza all’interno della coalizione della Piattaforma della resistenza, e dei manifestanti che protestano da mesi in via Rustaveli?
Sì, è vero: le persone sono stanche, noi siamo stanchi. È umano. Ma allo stesso tempo c’è un grande spirito di determinazione e resilienza nel popolo georgiano. Siamo ambiziosi: per consolarci ci diciamo che, se siamo sopravvissuti per ventisei secoli, sopravviveremo anche a questo periodo. Anche il regime soffre: non si può governare un paese in stato di paralisi per sei mesi senza subire conseguenze.
Da cosa lo deduce?
Da persone insospettabili che stanno abbandonando la barca, cambiando posizione. Due giorni fa, Irakli Garibashvili, un ex primo ministro — persona molto vicina al leader e fondatore di Sogno Georgiano, Bidzina Ivanishvili — si è ritirato dalla politica senza spiegazioni. Sono segnali che anche all’interno del regime ci sono crepe. La situazione è un vero stallo: anche loro sono stanchi, anche loro stanno subendo le sanzioni — nonostante non siano enormi — che pesano su un paese piccolo e privo di risorse alternative. L’isolamento è un problema. Cercano di compensare costruendo legami con altri paesi, come la Cina o alcuni Stati del Medio Oriente, arrivando perfino ad aprire le frontiere a cittadini di diciassette paesi che, paradossalmente, non sarebbero accolti neanche in Europa. Un modo alquanto discutibile per compensare la crescente emarginazione europea. Tutto ciò dimostra che non sono sicuri della loro posizione e cercano alternative.
Come si evolverà questo stallo?
Nessuno lo sa con certezza. Ma quello che so è che le proteste continueranno “fino alla fine”, come recita il motto ufficiale delle manifestazioni. L’opposizione, pur divisa, si sta unendo sempre di più: ora esiste una piattaforma di resistenza che coordina le azioni (creata su impulso di Zourabichvili, ndr). Non è perfetta, ma è un progresso. E, soprattutto, non c’è possibilità di tornare indietro: per la società civile, i giornalisti e i partiti di opposizione, la repressione è talmente pervasiva che fermarsi significherebbe non avere più nulla. Ormai siamo impegnati in questa lotta a lungo termine.
Vista la situazione di stallo, l’inazione del governo e la forte dipendenza dal sostegno internazionale, ha paura che nei prossimi mesi potremmo assistere a uno scenario simile a quello ucraino anche in Georgia?
No, in realtà temo il contrario. Quello che mi preoccupa è di vedere un “scenario georgiano” in Ucraina. Oggi la Russia ha capito che non serve più vincere sui paesi con le armi: l’intervento militare in Georgia nel 2008 non ha funzionato; in Ucraina, nonostante l’enorme tragedia, non ha portato ai risultati sperati. Ora stanno sperimentando in Georgia un’alternativa: come conquistare un paese sovrano non con i carri armati, ma manipolando le elezioni, diffondendo propaganda, utilizzando tecnologie cibernetiche e strumenti di influenza sofisticati. L’obiettivo è eleggere governi fantoccio attraverso queste manipolazioni, e attraverso di loro, prendere il controllo del paese. Questo è il processo in corso: non hanno ancora vinto perché noi stiamo resistendo. Ma se dovesse funzionare, potremmo vedere la stessa strategia applicata presto anche in Moldova. Ed è uno scenario che Putin propone apertamente anche per l’Ucraina, parlando della necessità di “elezioni democratiche” — ma sotto condizionamento esterno.
Oggi la battaglia politica in Georgia sembra giocarsi su una scacchiera truccata: come si può condurre una lotta democratica contro un regime che manipola strumenti democratici, usandoli contro gli oppositori?
Purtroppo è la stessa sfida che affrontano tutte le democrazie quando si trovano di fronte a regimi autoritari: tu sei vincolato dalle regole della democrazia, loro no. La stessa Unione europea affronta un problema simile nei confronti della Russia di Putin.
È possibile trovare un equilibrio in una partita così profondamente asimmetrica?
Non esiste una formula magica. Ogni giorno cerchiamo di trovare la nostra strada per resistere, ma è una battaglia impari. Il regime ha a disposizione ogni mezzo: la forza, la violenza, leggi illegali che applicano a piacimento, un sistema giudiziario totalmente asservito, il controllo della maggior parte dei media. E naturalmente l’economia e il denaro, che alimentano e rinforzano tutto questo sistema.
Lei ha affermato che l’Ue è stata troppo passiva riguardo alla situazione georgiana. Cosa dovrebbero fare concretamente l’Unione Europea e gli Stati Uniti per aiutare a superare questo stallo illiberale? Bastano le sanzioni?
Innanzitutto direi che gli americani sono stati meno passivi degli europei. Anche se la nuova amministrazione statunitense non ha ancora espresso pubblicamente una linea politica chiara, una politica americana esiste ed è stata tradotta nel “Friendship Act”, attualmente in discussione al Congresso. Il Comitato di Helsinki è stato molto attivo e sono state adottate sanzioni da parte degli Stati Uniti che risultano tra le più efficaci, perché rientrano nella lista Magnitsky. Tutti sanno quanto siano pesanti quelle sanzioni. Sul versante europeo, invece, l’azione è stata molto più debole.
Perché secondo lei?
Il motivo ufficiale è che paesi come l’Ungheria bloccano con il loro veto al Consiglio europeo il consenso unanime necessario per adottare nuove sanzioni. Ma questo non basta a spiegare la passività. Quello che manca da parte delle istituzioni europee — non parlo dei singoli Stati, alcuni dei quali sono stati molto attivi e di grande sostegno — è una posizione chiara sulla Georgia. L’Unione Europea non ha mai espresso un giudizio complessivo su quanto accaduto negli ultimi due anni. Ci sono dichiarazioni isolate, di singoli rappresentanti, che condannano una legge o un provvedimento.
Cosa dovrebbe fare l’Ue?
Assumere una presa di posizione collettiva: manca il riconoscimento ufficiale del fatto che un Paese che aveva ottenuto lo status di candidato all’adesione meno di un anno e mezzo fa sta, in modo sistematico e determinato, andando contro tutti i principi fondamentali dell’Unione Europea — contro le sue leggi, i suoi valori, la sua stessa retorica. Non c’è una sola decisione presa dal governo georgiano che sarebbe oggi compatibile con i criteri europei. E allora si pone un problema di credibilità per l’Unione Europea: se non prende posizione, se non dice chiaramente cosa sta succedendo e che ciò è inaccettabile, rischia di perdere la sua autorevolezza. Non si tratta tanto di azioni o strumenti, ma di una questione politica: serve una posizione chiara.
Una parte del problema però è anche il governo attuale di Sogno Georgiano che ha deciso di non comunicare con l’Ue.
Sì, per fine interno, le autorità georgiane accusano l’Europa di punire la Georgia ingiustamente, solo perché il paese sarebbe “troppo patriottico”. Ovviamente mi viene da sorridere quando sento certe affermazioni — e non sono l’unica —, ma il problema è che, ripetendo queste accuse all’infinito, esse rischiano di entrare nella propaganda e di attecchire.
I sondaggi mostrano che circa l’ottanta per cento dei georgiani è favorevole all’ingresso nell’Unione Europea. Eppure, nonostante il governo abbia truccato le elezioni e assunto posizioni apertamente anti-europee, esiste ancora una parte della popolazione che continua a sostenerlo. Come si spiega questa contraddizione? E come si può convincere anche quella parte del paese?
Credo che anche tra gli elettori che oggi sostengono il governo ci siano molti europeisti. È importante capire che nelle regioni, soprattutto quelle più rurali, i principali progressi economici e sociali sono arrivati grazie ai programmi americani — come Usaid — e ai progetti finanziati dall’Unione Europea. Le persone hanno visto miglioramenti concreti nella loro vita quotidiana: standard di vita più elevati, nuove infrastrutture, modernizzazione. Non c’è quindi una frattura netta tra le città e le campagne, come a volte si pensa dall’esterno.
Quindi anche nelle zone rurali della Georgia c’è una domanda forte di Europa come nella capitale? E anche tra chi ha vissuto prima dell’indipendenza, ai tempi dell’Urss?
Assolutamente. Oggi, per esempio, alla Chiesa georgiana di Roma, ho incontrato donne provenienti da ogni angolo della Georgia, non solo dalle grandi città. Loro sono qui per lavorare, per aiutare le loro famiglie, ma il loro sogno è che la Georgia si sviluppi abbastanza da poterci tornare un giorno. Anche tra i sostenitori rimasti di “Sogno Georgiano” — quelli che non avranno abbandonato il partito dopo il 28 novembre — esiste ancora una forte aspirazione europea.
Da mesi vive una situazione istituzionale senza precedenti: formalmente il Parlamento — considerato illegittimo da ampi settori della popolazione — ha eletto il suo successore. Eppure, agli occhi della maggioranza dei cittadini, lei continua a essere la vera Presidente. Come vive il paradosso di essere la Presidente nella legittimità popolare, ma non più in carica a causa di un parlamento eletto in modo irregolare?
Devo quasi ringraziare il regime per la scelta che ha fatto con il nuovo presidente “de facto”: una figura talmente inconsistente, sia dal punto di vista personale sia politico, che non rappresenta alcuna concorrenza per me. Continuo a mantenere contatti a livello internazionale: certo, rispetto al passato, scegliere le parole giuste e gestire le sfumature diplomatiche è diventato più complesso. Ma il dialogo resta aperto. E soprattutto, nella popolazione, io continuo a essere riconosciuta come la Presidente. Oggi, ad esempio, nella Chiesa georgiana a Roma, non c’è stata una sola persona che non sia venuta a salutarmi come tale. È su questa fiducia popolare che possiamo continuare a costruire.
Teme per la sua vita?
Con i russi non si può mai sapere. Gli agenti russi operano attivamente in Georgia, muovendo i fili della destabilizzazione. È chiaro che, come figura politica capace di raccogliere consenso e coalizzare l’opposizione, rappresento per loro un ostacolo importante. Non posso dire di aver ricevuto minacce dirette, ma purtroppo, in questi casi, mai dire mai.
(LaPresse)
Sociale
Sul grado di ricchezza della popolazione l‘Italia si sta sempre più avvicinando ai Paesi sudamericani, dove è notoriamente elevato il gap tra le persone in uno stato di indigenza e quelle benestanti che detengono la maggior parte delle ricchezze.
Ad evidenziare la tendenza – derivante dall’assegnazione di stipendi sempre più bassi, attorno o di poco superiore ai 1.000 euro, che non riescono a tenere testa al costo della vita – sono le tabelle Eurostat sui redditi e il rischio di povertà, con focus sui lavoratori Ue impegnati a tempo pieno.
Dai numeri pubblicati domenica 27 aprile, riferiti allo scorso anno solare, si evince che in Italia gli occupati con un reddito inferiore al 60% di quello mediano nazionale al netto dei trasferimenti sociali sono al 9% e risultano in aumento se si considera l’8,7% registrato nel 2023: una percentuale che risulta più che doppia di quella della Germania, dove si ferma al 3,7%.
Un altro dato significativo è quello del 10,2% di lavoratori italiani maggiorenni a rischio povertà, anche se occupati per almeno la metà dell’anno: risultano in aumento rispetto al 9,9% del 2023.
È tutto dire che anche in Spagna la percentuale dei lavoratori impegnati full time poveri risulta più bassa (9,6%), mentre in Finlandia è di appena il 2,2%.
Va anche sottolineato che la povertà lavorativa sale in Italia soprattutto tra i lavoratori indipendenti, il 17,2% dei quali ha infatti redditi inferiori al 60% di quello mediano nazionale (era il 15,8% nel 2023).
Ma sono soprattutto i giovani a soffrire la povertà: sempre in Italia, sottolinea Eurostat, tra i 16 e i 29 anni è povero l’11,8% degli occupati mentre tra i 55 e i 64 anni ci si ferma al 9,3%.
Eurostat sottolinea anche che la povertà lavorativa spesso è associata ad un basso livello di istruzione: tra i lavoratori che hanno terminato la sola scuola dell’obbligo, in Italia si registra un 18,2% di occupati poveri (era il 17,7% del 2023); mentre la percentuale risulta assai più bassa tra i lavoratori laureati, visto che tra chi ha concluso positivamente gli studi universitari solo il 4,5% ha un reddito inferiore al 60% di quello mediano nazionale. Anche se va pure detto che tra i laureati si registra un preoccupante aumento, visto che la percentuale era solo del 3,6% nel 2023.
Più stabile, invece, risulta la povertà tra gli occupati in possesso del diploma di maturità: nel 2024 era del 9,1%, mentre nel 2023 si attestava al 9,2%.
L’allargamento della forbice tra cittadini poveri, anche se lavoratori, e benestanti, quindi, preoccupa non poco. Soprattutto se si pensa che i giovani risultano tra i più colpiti dal fenomeno e che nel 2023 il gap poveri-ricchi risultava in via di riduzione.
di Federico Rota
Il nodo principale dei cinque quesiti del referendum. E la sindaca Carnevali prende tempo
Cinque quesiti.
Quattro, promossi dalla Cgil, sul lavoro: Jobs Act, cancellazione del tetto all’indennità nei licenziamenti nelle piccole imprese, riduzione del lavoro precario, estensione della responsabilità del committente in caso di infortuni sul lavoro. Il quinto sulla cittadinanza: per dimezzare da 10 a 5 anni i tempi di residenza legale in Italia necessari ai maggiorenni per chiederne il rilascio.
Domenica 8 e lunedì 9 giugno gli elettori saranno chiamati alle urne per i referendum. E fra tutti i quesiti, ce n’è uno in particolare che può rappresentare una spina nel fianco per il Partito Democratico: quello sul Jobs Act, dopo che Elly Schlein ha schierato il partito a favore: «Il Pd sosterrà i cinque referendum», ha detto la segretaria nei giorni scorsi, al termine di un incontro con il segretario della Cgil Maurizio Landini. Con il grande ostacolo da superare del quorum.
La linea Schlein, sul territorio, viene ribadita dal segretario provinciale Gabriele Giudici: «I quesiti sul lavoro servono per dare un segnale politico al governo — rileva Giudici —. L’inflazione erode i salari, la precarietà non consente ai giovani di costruirsi un futuro e al giorno d’oggi non è accettabile il lavoro “povero”.
Per non parlare degli infortuni e delle vittime sul lavoro». E dal segretario cittadino, Alessandro De Bernardis: «La posizione del partito è chiara — dice —. Verso fine aprile organizzeremo un primo appuntamento per parlare del quesito sulla cittadinanza, a maggio l’assemblea cittadina affronterà i temi di tutti e cinque i quesiti».
Quanto al dimezzamento dei termini per fare richiesta di cittadinanza: sarebbe garanzia di «maggiore serietà per il Paese, verso coloro che hanno deciso di sceglierlo per lavorarci e abitarci», aggiunge Giudici.
Tra i parlamentari democratici che nel 2015 approvarono le norme sui contratti di lavoro, finite sotto il titolo di Jobs Act, c’era anche l’attuale sindaca di Bergamo, Elena Carnevali.
Da qui a giugno c’è ancora un margine di tempo per valutare, nel merito e sul piano politico, cosa fare. Ed è proprio quello che la sindaca sta facendo, cioè prendere tutto il tempo necessario «per approfondire le implicazioni dei quesiti referendari».
È chiaro che in questa fase per chi fu in Parlamento nella stagione del governo Renzi, c’è, da un lato, un inevitabile tema di coerenza, dall’altro la necessità di inserirsi in equilibri di partito, con una segreteria che sul tema referendario ha preso posizione (senza però dare finora alla tematica un’esposizione insistente).
Nonostante si predichi unità, nel partito ci sono posizioni divergenti esplicitate da diversi esponenti. L’europarlamentare Giorgio Gori aveva già detto di non condividere la scelta di Schlein in merito al Jobs Act, pur capendone le ragioni: «Mi aspetto che non la condivida la gran parte della “nomenclatura” del Pd, che quel provvedimento all’epoca l’aveva votato. Per una questione di coerenza, ma anche di merito», diceva un paio di mesi fa.