Marco Travaglio: sentenze di condanna in sede civile (wikipedia)

Nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio aveva definito Previti «futur[o] client[e] di procure e tribunali» su L’Indipendente, Previti era effettivamente indagato ma a causa dell’impossibilità da parte dell’avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire.

Il 4 giugno 2004 è stato condannato dal Tribunale di Roma in sede civile a un totale di 85 000 euro (più 31 000 euro di spese processuali) per un errore contenuto nel libro La Repubblica delle banane scritto assieme a Peter Gomez e pubblicato nel 2001; in esso, a pagina 537, si attribuiva erroneamente all’allora neo-parlamentare di Forza Italia, Giuseppe Fallica, una condanna per false fatture che aveva invece colpito un omonimo funzionario di Publitalia. L’errore era poi stato trasposto anche su L’Espresso, il Venerdì di Repubblica e La Rinascita della Sinistra, per cui la condanna in solido, oltreché alla Editori Riuniti, è stata estesa anche al gruppo Editoriale L’Espresso. Nel 2009, dopo il ricorso in appello, la pena è stata ridotta a 15 000 euro.

Il 5 aprile 2005 è stato condannato dal Tribunale di Roma in sede civile, assieme all’allora direttore dell’Unità, Furio Colombo, al pagamento di 12 000 euro più 4 000 di spese processuali a Fedele Confalonieri (Mediaset) dopo averne associato il nome ad alcune indagini per ricettazione e riciclaggio, reati per i quali, invece, non era risultato inquisito.[64] Travaglio in un articolo dichiarerà che aveva scritto che “era coimputato con Berlusconi, ma usando un’espressione giudicata insufficiente a far capire che lo era per un reato diverso da quello contestato al Cavaliere”.

Il 20 febbraio 2008 il Tribunale di Torino in sede civile lo ha condannato a risarcire Fedele Confalonieri e Mediaset con 26 000 euro, a causa di una critica ritenuta «eccessiva» nell’articolo Piazzale Loreto? Magari pubblicato nella rubrica Uliwood Party su l’Unità il 16 luglio 2006

Il 21 ottobre 2009 è stato condannato in Cassazione (Terza sezione civile, sentenza 22190) al risarcimento di 5 000 euro nei confronti del giudice Filippo Verde che era stato definito «più volte inquisito e condannato» nel libro Il manuale del perfetto inquisito, affermazioni giudicate diffamatorie dalla Corte in quanto riferite «in maniera incompleta e sostanzialmente alterata» visto il «mancato riferimento alla sentenza di prescrizione o, comunque, la mancata puntualizzazione del carattere non definitivo della sentenza di condanna, suscitando nel lettore l’idea che la condanna fosse definitiva (se non addirittura l’idea di una pluralità di condanne)». Travaglio scriverà che “avevo scritto “più volte condannato” nel senso del primo e del secondo grado, mentre il giudice ha inteso due volte condannato in via definitiva”.

Il 18 giugno 2010 è stato condannato dal Tribunale di Torino – VII sezione civile – a risarcire 16 000 euro al Presidente del Senato Renato Schifani (che aveva chiesto un risarcimento di 1 750 000 euro) per diffamazione avendo evocato la metafora del lombrico e della muffa a Che tempo che fa il 10 maggio 2008. Il Tribunale ha invece ritenuto che le richieste di chiarimenti, da parte di Travaglio, circa i rapporti di Schifani con esponenti della mafia siciliana rientrino nel diritto di cronaca, nel diritto di critica e nel diritto di satira.

L’11 ottobre 2010 Travaglio è stato condannato in sede civile per diffamazione dal Tribunale di Marsala, per aver dato del “figlioccio di un boss” all’assessore regionale siciliano David Costa, arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e poi assolto in appello. Travaglio è stato condannato a pagare 15 000 euro. Dopo l’assoluzione in primo e secondo grado, nel 2013 Costa verrà condannato a 3 anni e 8 mesi di carcere dalla Corte di Appello di Palermo per concorso in associazione mafiosa.

Il 23 gennaio 2018 è stato condannato per diffamazione dal Tribunale di Roma in merito ad un editoriale su Il Fatto Quotidiano contro tre magistrati siciliani, riguardo alla latitanza di Bernardo Provenzano; la provvisionale disposta ammonta a 150 000 euro.[100] Il 15 ottobre 2013 in un articolo intitolato “La cluster-sentenza”, Travaglio scrisse: “…nelle prime 845 (pagine) non parlano del reato contestato ai loro imputati: cioè la mancata cattura di Provenzano” e aggiunge: “Si avventurano invece nella storia delle stragi e delle trattative del 1992-’93, oggetto degli altri due processi”; la sentenza “non si limita a incenerire le accuse del processo in cui è stata emessa ma, già che c’è, si porta avanti, e fulmina anche altri processi, possibilmente scomodi per il potere”.

Travaglio è stato citato in giudizio per diffamazione nei confronti di Tiziano Renzi (il padre di Matteo Renzi), per due editoriali su Il Fatto Quotidiano riguardanti un processo penale per bancarotta che ha visto lo stesso imputato assolto con formula piena. Nel primo articolo, parlando dell’indagine in corso a Genova sulla azienda controllata dalla famiglia di Tiziano Renzi Chil Post, Travaglio aveva usato il termine “fa bancarotta”; nel secondo articolo Tiziano Renzi era stato accostato per “affarucci” a Valentino Mureddu, iscritto, secondo le cronache, alla P3. Il 22 ottobre 2018, il tribunale civile di Firenze lo ha condannato (in solido con la giornalista Gaia Scacciavillani e con la Società Editoriale Il Fatto) al pagamento di una somma di 95 000 euro a titolo di risarcimento per diffamazione.

Il 16 novembre 2018, in un procedimento (relativo alle parole pronunciate nel corso di un’ospitata nella trasmissione “Otto e mezzo”), Travaglio è stato condannato dal Tribunale di Firenze al pagamento di 50 000 euro per diffamazione nei confronti di Tiziano Renzi. Travaglio disse che “Il padre del capo del governo si mette in affari o s’interessa di affari che riguardano aziende controllate dal governo”. Travaglio dichiara nel suo editoriale su Il Fatto Quotidiano del 17 novembre 2018 che “Tiziano Renzi era ed è indagato dalla Procura di Roma per traffico d’influenze illecite con la Consip, società controllata dal governo, ai tempi in cui il premier era il figlio Matteo” e che “Tiziano Renzi si era messo in affari con un’altra società partecipata dal governo, Poste Italiane, ottenendo per la sua “Eventi 6” un lucroso appalto per distribuire le Pagine Gialle nel 2016”. Dichiara inoltre di non avere avuto notizia alcuna del processo in corso contro di lui, e di non essere stato quindi in grado di difendersi.

Paola, Nemo e il generale (corriere.it)

di Massimo Gramellini

Il caffè

Costretto a scrivere una lettera di scuse per scongiurare la querela della pallavolista Paola Egonu, sui cui tratti somatici aveva avuto da ridire in passato, il generale Vannacci parte bene («mai avuto dubbi sulla sua cittadinanza italiana») per crollare già nella riga successiva: «Ma questo non può celare visivamente la sua origine».

L’avverbio usato dal generalissimo è rivelatore. Lui seleziona le persone che gli fanno senso in base a un unico senso: la vista. Il giorno prima aveva trovato «nauseante» Nemo, il vincitore dell’Eurovision, e non per la qualità della voce, ma a causa di quelle unghie smaltate e di quei movimenti così poco marziali.

Ai meno giovani Vannacci ricorda il generale Damigiani, che però era un personaggio di «Alto gradimento», non un candidato alle Europee, e comunque non si sarebbe mai sognato di definire «nauseante» il Nemo di allora, Renato Zero.

Nel mondo nostalgico del generalissimo le unghie le smaltano solo le signorine in età da matrimonio, i maschi marciano a ranghi compatti dalle trincee ai bordelli, i neri vivono in Africa e i biondi in Scandinavia. Però nel frattempo le cose sono cambiate e mio figlio di cinque anni gira con la maschera del supereroe nero Spin, senza esserne visivamente nauseato e tantomeno turbato, dato che è nero anche il suo compagno di banco all’asilo.

La vita è una questione di abitudine e un giorno Vannacci si accorgerà che il mondo al contrario è semplicemente il mondo, ed è lui che lo sta guardando al contrario.

Alla fine l’Ocse ha smentito Meloni sulla crescita record del reddito delle famiglie (pagellapolitica.it)

di CARLO CANEPA

ECONOMIA

La presidente del Consiglio continuava a dire, in modo fuorviante, che i redditi in Italia crescevano più che altrove. Ora i dati aggiornati le danno definitivamente torto

Tra febbraio e marzo la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ripetuto per settimane una dichiarazione fuorviante: quella secondo cui, grazie al suo governo, il reddito delle famiglie in Italia starebbe aumentando sette volte di più rispetto alla crescita registrata in media negli altri Paesi.

Per esempio, Meloni ha fatto questa affermazione il 12 febbraio in un’intervista con il TG5, il 21 febbraio in un comizio elettorale in Sardegna, il 23 febbraio ospite a Porta a Porta su Rai 1, il 5 marzo in un comizio in Abruzzo, il 7 marzo ospite a Dritto e Rovescio su Rete 4, il 19 marzo ospite di Agorà su Rai 3 e lo stesso giorno in un discorso in Senato.

In queste occasioni la presidente del Consiglio ha sempre indicato come fonte l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), omettendo però alcune informazioni importanti, come abbiamo spiegato in vari fact-checking. Di recente, la stessa Ocse ha pubblicato nuovi numeri che smentiscono l’entusiasmo della presidente del Consiglio. Ma procediamo con ordine, spiegando prima da dove viene la dichiarazione di Meloni e perché è fuorviante.

L’8 febbraio l’Ocse ha pubblicato i dati sul reddito disponibile reale delle famiglie (in inglese real household income per capita) aggiornati al terzo trimestre del 2023. Questo indicatore tiene conto dell’andamento dell’inflazione e fa riferimento al reddito totale delle singole famiglie, al netto delle imposte e dei contributi sociali.

Secondo quella pubblicazione dell’Ocse, tra luglio e settembre 2023 il reddito delle famiglie in Italia era cresciuto dell’1,4 per cento rispetto al trimestre precedente, mentre in media tra i Paesi dell’Ocse era sceso dello 0,2 per cento (Grafico 1).

Grafico 1. La barra gialla indica come è cambiato il reddito reale delle famiglie nel terzo trimestre del 2023 rispetto al trimestre precedente. La barra blu fa riferimento al Pil pro capite – Fonte: Ocse

(Grafico 1. La barra gialla indica come è cambiato il reddito reale delle famiglie nel terzo trimestre del 2023 rispetto al trimestre precedente. La barra blu fa riferimento al Pil pro capite – Fonte: Ocse)

È a questa differenza che Meloni ha fatto più volte riferimento dicendo che i redditi delle famiglie italiane sono cresciuti «sette volte» di più rispetto alla media degli altri Paesi. In tutte le sue dichiarazioni però, fatte tra febbraio e marzo, la presidente del Consiglio ha omesso di contestualizzare i dati dell’Ocse: per esempio, ha lasciato intendere che l’aumento fosse stato registrato in tutto il periodo in cui lei era a capo del governo e che fosse merito anche dell’ultima legge di Bilancio, approvata alla fine di dicembre.

In più, a differenza di quanto detto da Meloni in alcuni interventi, non è vero che l’Italia è l’unica eccezione in positivo con il Regno Unito: nel terzo trimestre del 2023 il reddito reale delle famiglie è cresciuto – seppure con percentuali diverse – anche in altri Paesi, come Danimarca, Paesi Bassi, Austria, Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca.

Veniamo adesso ai dati più aggiornati dell’Ocse, pubblicati il 7 maggio, di cui per il momento non c’è traccia nelle dichiarazioni pubbliche di Meloni e neppure nei post sui social network di Fratelli d’Italia e dei suoi parlamentari. Secondo le stime dell’Ocse, nel 2023 il reddito reale delle famiglie in Italia è calato dello 0,4 per cento rispetto al 2022 (Grafico 2). In controtendenza rispetto alla media Ocse, nel quarto trimestre del 2023 questo indicatore in Italia è calato dello 0,4 per cento rispetto al trimestre precedente, quando era aumentato rispetto al secondo.

Grafico 2. La barra gialla indica come è cambiato il reddito reale delle famiglie nel 2022 rispetto al 2021, mentre la barra blu indica la variazione registrata nel 2023 rispetto al 2022 – Fonte: Ocse

(Grafico 2. La barra gialla indica come è cambiato il reddito reale delle famiglie nel 2022 rispetto al 2021, mentre la barra blu indica la variazione registrata nel 2023 rispetto al 2022 – Fonte: Ocse)

Ricordiamo che il governo Meloni è entrato in carica il 22 ottobre 2022. Dunque, lo scorso anno il reddito reale delle famiglie nel nostro Paese è sceso, mentre gli Stati membri dell’Ocse hanno registrato in media una crescita dell’1,2 per cento.

Tra i Paesi del G7, Francia, Stati Uniti e Regno Unito hanno registrato un aumento, mentre Canada e Germania un calo (per il Giappone non ci sono al momento dati disponibili).

Come mostra il Grafico 2, nel 2022 il calo del reddito reale delle famiglie in Italia rispetto all’anno prima è stato più forte di quello registrato lo scorso anno. Come aveva spiegato la stessa Ocse, il calo del 2022 è stato motivato dal forte aumento dei prezzi energetici nell’ultimo trimestre.

La multa a Höcke e la strategia che serve contro l’AfD (ilfoglio.it)

di DANIEL MOSSERI

IN GERMANIA

Il tribunale regionale di Halle ha giudicato il leader del partito in Turingia colpevole di aver “intenzionalmente utilizzato ex slogan di una formazione paramilitare nazista”. Mentre il numero dei potenziali elettori cresce la dirigenza dei sovranisti diventa ogni giorno più impresentabile

Berlino. Una multa da 13mila euro e l’avvio di una nuova campagna di AfD, il partito sovranista tedesco, contro i soprusi antidemocratici dei partiti democratici di Germania.

E’ questo il doppio esito della sentenza con cui il tribunale regionale di Halle ha trovato Björn Höcke colpevole di aver “intenzionalmente utilizzato ex slogan di una formazione paramilitare nazista”. Parliamo delle SA, braccio armato dell’ascesa al potere di Adolf Hitler e del loro motto Alles für Deutschland, e parliamo del leader di AfD in Turingia.

“Ho la sensazione di essere una persona politicamente perseguitata”, ha commentato il famigerato Höcke uscito da un bagno di vittimismo. Come dargli torto? Nel giro di pochi mesi, dapprima l’AfD in Turingia e poi quella in Sassonia sono state indicate dai servizi di intelligence (BfV) della Repubblica federale come organizzazioni estremiste. Prima ancora era successo all’“Ala”, la corrente revanscista (poi sciolta) di AfD già guidata, guarda caso, dallo stesso Höcke.

Nel gestire le intemperanze verbali del partito più a destra dello schieramento politico, la Germania non sa che pesci prendere: al Bundestag la formazione nata euroscettica e diventata negli anni apertamente xenofobico è il secondo partito d’opposizione dopo la Cdu. Sondaggi alla mano, se domani si votasse la Cdu finirebbe per formare il governo con i socialdemocratici e/o con i Verdi, e AfD diventerebbe ufficialmente il primo partito d’opposizione.

Che oggi, unico tra gli altri partiti al Bundestag, non esprime un vicepresidente dell’assemblea. Merito o colpa del cordone sanitario steso attorno al partito sovranista dieci anni fa e mai venuto giù. Un cordone che però non ha funzionato. Al contrario. Mentre il numero dei potenziali elettori sovranisti cresce – e non sono tutti fascisti – la dirigenza di AfD diventa ogni giorno più impresentabile.

A Berlino serve una nuova strategia: quella impostata dal bavarese Franz Joseph Strauß negli anni ‘80 – “nessun partito democratico a destra di Cdu/Csu” – non funziona più.

L’avanzata russa ricorda al Pd chi ha candidato e chi sono i suoi alleati (linkiesta.it)

di

Kyjiv va aiutata

L’Ucraina non può permettersi i dubbi dell’Occidente. E chi mette nelle proprie liste dei candidati contrari all’invio di armi o sceglie di fare patti con Conte è chiamato a una riflessione esistenziale

L’Ucraina andava aiutata di più. Va aiutata di più. Lo dicono i fatti di queste ore davanti all’offensiva, per ora contenuta, di trentamila soldati russi nelle vicinanze della seconda città ucraina, Kharkiv. Vedremo cosa succederà: l’eroismo del popolo ucraino non ha limiti, come il mondo sta vedendo da due anni e più.

Ma stanno emergendo tutte le difficoltà di una lotta impari. Il presidente Volodymyr Zelensky ha detto che «il nostro compito è assolutamente chiaro: ostacolare il tentativo russo di espandere la guerra. L’adempimento di questo compito dipende letteralmente da tutti coloro che sono attualmente in posizione: da Chernihiv a Vovchansk, da Kharkiv alla regione di Donetsk».

Non è un compito facile. Kyjiv ha bisogno di sostegni economici e militari. Oggi si comprende meglio che si sarebbe potuto e dovuto fare di più. La colpa dei ritardi dei cospicui finanziamenti americani è dei conservatori che infine Joe Biden è riuscito a piegare.

Ed è chiarissimo che le sciagurate posizioni “pacifiste” di Giuseppe Conte e del candidato numero quattro del Partito democratico nella circoscrizione Centro Marco Tarquinio sono speculari a quelle di Donald Trump: in poche parole, chi se ne frega dell’Ucraina.

Se per sventura ci fosse stato un governo Conte 3 con Matteo Salvini, Tarquinio e Cecilia Strada l’Italia avrebbe negato le armi alla Resistenza ucraina aiutando non poco la guerra di Vladimir Putin, aprendogli la strada – lo ha detto anche Ursula von der Leyen da Fabio Fazio, non esattamente una combattente – per altre delinquenziali avventure nel cuore dell’Europa, nonostante adesso sia costretto a fate i conti anche con la rivolta di Tbilisi.

Se quindi oggi il popolo ucraino vive una fase di estremo pericolo per la sua stessa esistenza deve “ringraziare” i pacifisti ingenui che ancora vogliono mettere i fiori nei loro cannoni mentre i massacratori non si fermano, e quello, moralmente ancora peggiore, degli alleati di fatto del tiranno del Cremlino.

E prima o poi le persone serie che ancora ci sono nel Partito democratico una riflessione su chi hanno candidato e chi vogliono come alleato dovranno pur farla, se hanno dignità.