#Ukraina – SOLŽENICYN ‘NEL PRIMO CERCHIO’

di memo coazio
LA ŠARAŠKA SOVIETICA
STORIE DI LIBRI NEL TOTALITARISMO COMUNISTA.
NELLA ŠARAŠKA SOVIETICA – AMENITA’.
«Avete mai sentito parlare di Berkalov, vecchio ingegnere di artiglieria, inventore del magnifico cannone BS-3? Anche Berkalov se ne stava in cella alla šaraška come voi e la domenica si rammendava i calzini. A un tratto dalla radio accesa si sente “Al luogotenente generale Berkalov, il Premio Stalin di prima classe”. Prima dell’arresto era solo maggiore generale. Proprio così. Lui finisce di rammendare e inizia a cuocersi le frittelle sul fornellino elettrico.
Arriva il sorvegliante, gli confisca il fornello e gli appioppa tre giorni di cella d’isolamento. In quello stesso momento arriva trafelato il direttore della prigione gridando: “Berkalov! Prendi la roba! Al Cremlino! Da Kalinin!” Ecco come sono i destini russi.»
Da A. Solženicyn, ‘Nel primo cerchio’.
Il romanzo, largamente autobiografico, racconta tre giorni nella šaraška di Marfino, situata alla periferia nord-est di Mosca.
Il riferimento del titolo a un ‘primo cerchio’ rimanda al poema dantesco: ci troviamo all’interno del sistema detentivo sovietico, in periodo staliniano, nei giorni del Natale 1949. Come nel primo cerchio della Divina Commedia di Dante così nel primo dei gironi infernali dello sconfinato arcipelago gulag, le condizioni di chi vi si trova inserito sono meno terribili: sempre all’inferno, ma nel cerchio più alto, il migliore.
Dopo mesi in carcere, queste poche righe ci dicono delle reazioni di Solženicyn al suo arrivo a Marfino: «Il campo di concentramento è buio: sono solo davanti al falò e posso ancora alimentarlo con trucioli di legno. Questo campo di concentramento è privilegiato, tanto che mi sembra quasi di essere libero: è un’isola paradisiaca: è la šaraška di Marfino (…) nel suo periodo più privilegiato. Nessuno mi sta sorvegliando, mi sta richiamando in cella o mi caccia dal falò».
Un prigioniero istruisce un gruppo di detenuti che dalla šaraška devono tornare al lager: «No, la šaraška non è l’inferno. All’inferno ci andiamo adesso. All’inferno ci torniamo adesso. La šaraška è il primo, il migliore, il più alto cerchio dell’inferno. Quasi il paradiso».
Il primo cerchio del romanzo di Solženicyn è chiamato nella lingua degli zek (i detenuti dei lager sovietici) šaraška, dalla parola del linguaggio della criminalità russa šaraga, che sta a indicare una sciatta organizzazione di teppisti.
Verso la fine degli anni venti, Stalin lanciò una campagna contro i parassiti, il sabotaggio e l’inefficienza nell’industria, cioè contro quella parte del personale tecnico e scientifico che, secondo i vertici del partito, rallentavano o boicottavano la produzione e la ricerca. Furono arrestati ingegneri, fisici, chimici, personale altamente qualificato e specializzato. Nel maggio del 1930 l’Ufficio Economico dell’OGPU decise «per l’impiego degli specialisti condannati per sabotaggio nelle fabbriche».
Nacquero così le prime istituzioni scientifiche composte di detenuti da impiegare nell’ambito della produzione militare. Sarà comunque dal 1938, grazie all’impulso dato da L. Berija (N.1, vedi nei commenti), che questi luoghi di detenzione assumeranno una struttura organica, controllata da un Ufficio Tecnico Speciale del Commissariato del Popolo per gli Affari Interni dell’Unione Sovietica, specificamente destinato a implementare l’utilizzo di prigionieri provvisti di particolari competenze.
Nel 1941 questo organismo, sottoposto a regime di segretezza, divenne il IV Dipartimento Speciale del NKVD dell’URSS. Dalla fine della IIWW si impiegarono anche scienziati tedeschi prigionieri e successivamente gli ambiti di lavoro si allargarono alla sfera civile, con l’insediamento di Uffici Speciali Tecnici di Progettazione, da dislocare in «aree remote dell’Unione».
Nel 1953, dopo la morte di Stalin e l’arresto e la condanna a morte di Berija, il Dipartimento fu smantellato.
Arrestato il 9 febbraio 1945, lo scrittore è recluso nel carcere della Lubianka a Mosca e condannato senza processo a otto anni di campo e poi al confino perpetuo. Grazie alla laurea in matematica (Solženicyn nel 1941 si laureò con lode in fisica e matematica), nel 1946 giunse a Marfino, dove rimase a tutto il ‘49, quando decise di non più collaborare a ricerche che sarebbero servite a potenziare gli strumenti repressivi di quello che definiva uno Stato-carceriere (N.2: vedi nei commenti).
Come nell’isolatorio di Ante Ciliga, anche nella šaraška di Solženicyn le possibilità di discutere e di scambiare opinioni politiche con una certa libertà erano spesso molto superiori di quanto lo fossero nella società, nei luoghi di lavoro, tra amici, parenti e addirittura in famiglia. Nelle tre giornate che racchiudono l’arco temporale in cui si sviluppa l’azione, infatti, i numerosi personaggi costretti a vivere in stretta prossimità discutono di filosofia e di vita spicciola, confrontano le diverse opinioni politiche, si detestano e solidarizzano, ironizzano e fanno riemergere pezzi della loro vita e del loro passato.
Per certi aspetti ‘Nel primo cerchio’, opera corale, è figlio delle forme più nobili del romanzo ottocentesco. L’attitudine di Solženicyn a indagare la personalità e la psicologia dei personaggi ci riporta direttamente agli affreschi dostoevskiani. In entrambi gli autori il proposito di trattare una molteplicità di temi in opere di vaste dimensioni, che includano interi universi popolati da una miriade di personaggi e complicate tranche de vie, si realizza nel solco del grande romanzo russo (N.3: vedi nei commenti).
Solženicyn ci spiega cosa intenda per romanzo corale: «Qual è secondo me il genere letterario più interessante? Il romanzo polifonico, perfettamente delimitato nel tempo e nello spazio, senza un protagonista vero e proprio. Che cosa intendo per polifonia? I vari personaggi diventano via via protagonisti per il tempo in cui sono portati alla ribalta dell’azione».
Heinrich Böll paragonò ‘Nel primo cerchio’ a una cattedrale e Anna Zafesova, nella bella postfazione all’edizione Voland, riprende questo spunto: (il romanzo di Solženicyn) possiede «il respiro della navata – il panorama multidimensionale della Russia staliniana, dalle campagne desolate ai salotti della borghesia rossa, e dalle segrete del gulag ai teatri moscoviti – e la vertiginosa guglia dei capitoli su Stalin, ma anche la moltitudine di angoli reconditi, cappelle, affreschi, statue che emergono dall’oscurità, composti da singole storie, scene, personaggi, in un quadro corale che ricorda nella ricchezza e terribile nitidezza un gigantesco Giudizio Universale a tutta parete».
Negli straordinari capitoli che Solženicyn gli dedica, ci viene presentato Stalin ormai settantenne e in declino, insonne e pieno di acciacchi, un uomo mediocre che riflette sulla propria vita e sul passato, un uomo confuso e che perde il filo dei propri ragionamenti. Ci sono poi sedici righe, potenti e inesorabili, dove lo scrittore si prende la libertà di farsi mente pensante del ‘capo dell’umanità’ e di portare i suoi pensieri (accompagnando anche noi lettori) a questa drammatica conclusione: (Stalin) di nessuno si poteva fidare sulla terra.
«Non si fidava di sua madre. Né di Dio, e neppure dei rivoluzionari. Non si fidava dei contadini…Degli operai…E tanto meno si fidava degli ingegneri. Non si fidava dei soldati e dei generali…Non si fidava delle persone a lui vicine. Delle mogli e delle amanti. Non si fidava nemmeno dei figli.
E aveva sempre avuto ragione!
Si era fidato soltanto di un uomo, l’unico in tutta la sua vita infallibilmente sospettosa. Quell’uomo, davanti a tutto il mondo, si era dimostrato così deciso nella benevolenza e nell’ostilità, si era staccato dai nemici in modo così risoluto, tendendogli una mano amica. Non era un cialtrone, era un uomo d’azione.
E Stalin gli aveva creduto! Quell’uomo era Adolf Hitler».
Non è la prima volta che riporto il passo di cui sopra. L’avevo inserito in un vecchio post titolato:
“STANZE DI VITA QUOTIDIANA. RIFLESSIONI SU UOMINI CHE FURONO (CHE SONO) TRA I PIU’ GRANDI CRIMINALI CHE LA STORIA RICORDI.
XX SECOLO: STALIN – LENIN – MUSSOLINI – HITLER. XXI SECOLO: PUTIN”.
«scritto: 1955 – 1958 modificato – 1964 ricostruito – 1968»
Con questa notazione Solženicyn, nel 1968, chiude la mezza pagina di presentazione della redazione definitiva de ‘Nel primo cerchio’.
L’opera fu concepita tra il 1945 e il 1953, durante gli anni di detenzione dello scrittore. I novantasei capitoli che la compongono furono redatti tra il 1955 e il ‘58.
Nel tentativo di superare gli ostacoli posti dalla censura sovietica, nel 1964 Solženicyn preparò una versione da lui definita spennata e aggiunse: «perché godesse almeno di una flebile vita.»
Questa stesura prevedeva il taglio di nove capitoli (ottantasette quelli conservati), tra i quali ovviamente quelli su Stalin, l’ammorbidimento di alcune sezioni ed anche un significativo cambiamento di una parte importante della trama.
Gli aggiustamenti non servirono a rendere possibile la pubblicazione in Unione Sovietica ma fu questa la versione che trovò la via del samizdat e del tamizdat, circolando clandestinamente in URSS e finendo all’estero, dove fu pubblicata.
In Italia il testo del 1964 venne dato alle stampe da Mondadori nel 1968.
La ricostruzione del 1968 con qualcosa di migliorato, come disse l’autore, e completa dei suoi novantasei capitoli, venne edita in URSS, come prima edizione in lingua russa, nel 1990. Nel 2006 la televisione russa trasmise un adattamento dell’opera in una versione che si discostava non poco dalla trama originale.
Il volume uscì in lingua inglese solo nel 2009. In Italia la stesura definitiva de ‘Nel primo cerchio’ si pubblicò nel 2019: cinquantuno anni dopo l’edizione spennata di Mondadori!

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