di Guia Soncini
L’avvelenata
Ottusi chic
Nessuno sa più esprimere un concetto in modo chiaro, né Vongola75 né i ristoratori né gli intellettuali. Figuriamoci l’intelligenza artificiale
E se quelli la cui idea di insulto definitivo, di parola che chiude la conversazione, di delegittimazione dell’interlocutore è dire «sionista», se quelli lì fossero uguali identici spiccicati a quelli che teoricamente sono distantissimi da loro, quelli la cui idea di insulto definitivo eccetera è dire «antisemita»?
Se la ristoratrice che ritiene di doverti educare, istruire, convertire alle sue idee sulla Palestina o su altro, e il – da lei teoricamente distantissimo – Met Ball, la serata di gala newyorkese che ha il tema dei dandy neri e quindi ecco certo non bisognerebbe fare la passerella mondana con tutte le cose brutte che succedono nel mondo ma mica puoi annullare il tappeto rosso proprio l’anno che abbiamo il tema afroamericano, se questi due tentativi di infarcire di ricatto culturale un abito da sera o una fettuccina fossero non certo distanti ma invece uguali identici precisi?
Se non ci fosse nessuna differenza, ma proprio nessuna, tra la ristoratrice che i clienti che non la pensano come lei nel suo ristorante non ce li vuole, e tutti quelli – li conosco io, li conoscete voi, li conosciamo tutti – che da anni si vantano di non voler più parlare con quel loro familiare che osa non ritenere che Trump sia il Male Assoluto, o che lo sia Salvini, o che lo sia la Meloni?
Se dire «antisemita» avesse ormai la valenza che aveva «comunisti» detto da Berlusconi, che parlava di insegnanti di lettere moderatissimi pittandoli come fossero stati degli stalinisti intenti a pianificare la fine della proprietà privata, o che ha «radical chic» detto da Vongola75, che in genere si rivolge a quegli stessi insegnanti di lettere di prima, quelli col mutuo per un bilocale neppure in centro, ignara, povera Vongola, che per essere radical chic si debba essere innanzitutto plutocrati, poi anche estremisti di sinistra, sì, ma prima ricchi, e non ricchi nell’accezione per cui è ricco chiunque guadagni tremila euro al mese, ricchi veri – se i due utilizzi sciatti di lemmi imprecisi non fossero poi così dissimili?
Mi pare che l’unica differenza, rispetto a prima, sia che gli automatismi lessicali sono diventati patrimonio anche degli intellettuali, e non solo delle vongole. Che ormai, sarà il PhD di cittadinanza o il fatto che se non appartieni a nessuna curva nessuno ti mette like e fatichi a percepirti vivo, non ci sia più nessuno che vive di precise parole.
Anche perché quelli che vorrebbero essere un po’ più accurati brancolano in un buio informativo fatto di risultati di Google imprecisi, voci di Wikipedia abborracciate, tantissimo rumore di fondo, e quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così che abbiamo noi quando in cima ai risultati di Google ora ci troviamo l’intelligenza artificiale, la quale ha lo stesso problema che hanno sempre avuto gli interlocutori scarsi.
Gli interlocutori scarsi, lo sappiamo perché o ne abbiamo almeno uno o siamo uno di essi, non sanno di essere interlocutori scarsi. Come tutti gli scarsi si sentono equipaggiatissimi, e quindi tendono a voler finire le frasi dell’interlocutore.
Guardavo Marco Travaglio dal podcaster più di successo (e quindi più scarso) d’Italia. L’intervistato raccontava d’aver perso una causa perché c’era stato un errore di persona (aveva attribuito a Tizio Caio non so che malefatte compiute da un suo omonimo).
Lo zelante intervistatore si affrettava a completare la frase, dicendo qualcosa come: e quindi ha fatto causa a te invece che a quell’altro che si chiamava uguale. L’interlocutore scarso, oltre a non avere lessico né informazioni, non ha neanche logica, e quindi non arriva da solo a intuire che un errore di persona significa che hai sbagliato tu l’attribuzione dei fatti, no che hanno sbagliato loro la querela (per carità, può accadere anche questo, ma arrivo a sperare che in quel caso non ti condannino).
L’intelligenza artificiale è uguale: non capisce mai cosa ti serve, ma è convinta di sì. È convinta di sapere che, se io cerco su Google “Carrère 2021”, non stia cercando soccorso perché sono così rimbambita che non mi ricordo il titolo di “Yoga”, ma voglia sapere in che ordine vadano letti i libri di Carrère, e prontamente mi rassicura che certo, sarebbe meglio cominciare da “Limonov”, ma posso leggerli nell’ordine che desidero (grazie, intellige’, meno male che m’hai dato il permesso, comunque se te lo chiedono davvero suggerisco di farli cominciare da “L’avversario”).
In un vecchio libro-intervista in cui conversava con Antonio Gnoli, “Passo d’uomo”, Francesco De Gregori raccontava un episodio forse mai avvenuto (non sto dandogli del mitomane: è lui stesso, in quel dialogo, a dire che chissà se era successo davvero, lui non se ne ricordava, gliel’aveva detto Lucio Dalla che, come tutti quelli che non hanno bisogno di cercarlo su Google sanno, aveva un rapporto piuttosto disinvolto con la verità).
Riferiva De Gregori che, nella versione di Dalla, una sera in cui si erano ritrovati a cena con Enrico Berlinguer, quello aveva chiesto a De Gregori la differenza tra una chitarra acustica e una elettrica, e lui – lui De Gregori – si era ammutolito invece di rispondere. A De Gregori pare plausibile, come reazione: «È una differenza che sai o non sai, e poi spiegarla al segretario del Pci sarebbe stato comico».
Se Berlinguer oggi chiedesse a Google, quello gli spiattellerebbe lì innanzitutto l’intelligenza artificiale che dice che «La chitarra acustica ha un corpo in legno che amplifica il suono in modo naturale, mentre la chitarra elettrica utilizza pickup magnetici per convertire le vibrazioni delle corde in segnali elettrici che vengono poi amplificati». Praticamente: la chitarra acustica è acustica, la chitarra elettrica è elettrica.
Sembra un’ovvietà, come quando Max Catalano diceva che è meglio essere ricchi e infelici che poveri e infelici, ma pure la definizione di «ovvietà» cambia nel tempo, e non lo dico solo perché oggi di certo s’indignerebbe qualcuno per il classismo di Catalano. Lo dico perché ho rivisto su RaiPlay un po’ di “Quelli della notte” (la settimana scorsa erano quarant’anni dalla prima puntata), trovandolo persino più noioso di quanto mi sembrasse a dodici anni.
La differenza è che allora pensavo fosse una cosa per grandi, adesso l’idea che i miei genitori quarantacinquenni si scompisciassero mi imbarazza parecchio. Oddio, mio padre rideva tantissimo anche del «ce l’ho qui la brioche» di “Drive In”, quindi forse quest’idea che una volta gli adulti fossero intelligenti devo riconsiderarla.
Comunque, che sia un’ovvietà il fatto che la chitarra acustica sia acustica è per ora vero, ma ricordiamoci di controllare se sarà ancora ovvio tra quarant’anni: alla prima puntata di “Quelli della notte”, Max Catalano diceva che se nasci maschio sei uomo e se nasci femmina sei donna, e chi glielo doveva dire che là, dove lui pascolava l’ovvietà come stilema comico, quarant’anni dopo ci sarebbero state le guerre culturali.
Quindi, il breve elenco di parole divenute imprecise che questo articolo sfiora include: sionista, antisemita, comunista, radical chic, omonimo, chitarra acustica, chitarra elettrica, uomo, donna. Quindi, aveva ragione il De Gregori del 2016, a lamentare «l’impressione, sgradevole, di essere spesso meno ignorante di quelli che mi chiedono il voto».
Alla quale, nove anni dopo, si aggiunge l’impressione, non rassicurante, che, per quanto gli intellettuali che bisticciano con le curve avversarie siano imprecisi, ci sia ancora margine di peggioramento.
Possiamo diventare più imprecisi, più ottusi, più tassonomici e più incapaci di capire i toni e più pieni di automatismi. Possiamo perfezionare queste nostre tendenze e somigliare ancora di più ai cervelloni elettronici cui ci affidiamo. Intravedo un luminoso futuro per ogni forma di stupidità, naturale e artificiale.