di Mario Lavia
Giorgia tifa Elly
Con il no al ReArmEu, il Pd abbandona ogni ambizione riformista e si rinchiude in una sinistra identitaria con Fratoianni, Conte e Landini.
Un congresso senza contendibilità servirà a cementare questa linea. Un’opposizione così è il miglior regalo per la destra al governo
(Unsplash)
Giorgia Meloni ha le sue belle gatte da pelare e probabilmente seguirà con occhio distratto le convulsioni nel centrosinistra limitandosi a sorridere delle altrui disgrazie. Quando avrà modo di rifletterci meglio sarà ancora più contenta per la piega degli avvenimenti.
Alle elezioni che potrebbero anche non essere lontanissime avrà di fronte un carrozzone radical-estremista più facile da battere, meno competitivo sul piano della affidabilità persino sul piano internazionale – o almeno così verrà dipinto e non senza qualche appiglio con la realtà.
Il no di Elly Schlein al piano di riarmo deciso dalla Ue (non è più il piano Von der Leyen ma è il piano che ha anche il sostegno dei socialisti europei) non è solo una posizione politica ma la cifra ideologica del Partito democratico schleiniano che porta il partito sui lidi della Left, del pacifismo integrale, del Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte – il quale ci mette un di più di aggressività demagogica ma più o meno siamo lì.
Oggi vedremo in piazza a Roma la segretaria incontrarsi col popolo pacifista che la osannerà dopo quel no di Strasburgo: il primo segno della trasformazione da partito riformatore in grado di contendere ai conservatori il governo del Paese a partito identitario, radicale e di massa, con forti tratti di massimalismo e, forse, di intolleranza verso il pluralismo interno.
Nulla di strano, d’altronde: Elly Schlein è questo, e lo si sapeva. Di fronte al carrozzone radicale guidato da Schlein, Conte, Nicola Fratoianni, Maurizio Landini con il sostegno del mondo mediatico di sinistra, da Repubblica a La7, per i conservatori sarà più facile giocare la carta di una sua affidabilità adottata per gestire il tran tran.
La scena insomma ricorda un po’ la gioiosa macchina da guerra imbastita da Achille Occhetto nel lontano 1994 quando il variopinto cartello delle sinistre spaventò i moderati: e Silvio Berlusconi fece il resto.
Dunque dalle convulsioni di questi giorni sulla politica internazionale, che come spesso accade è il detonatore delle contraddizioni, emerge un elemento di chiarezza: il Pd sta mutando pelle sperando che una indistinta rabbia degli italiani possa sospingere le sue vele.
Sembra che nulla possa fermare questa evoluzione (o, se si vuole, involuzione): Schlein andrà avanti per la sua strada con tutti i mezzi. Anche, se necessario, con un congresso che confermi la sua leadership.
Un congresso farlocco, senza contendibilità. Perché i congressi del Pd sono automaticamente legati alla elezione del segretario/a e dato che nessuno mette in discussione la leadership di Schlein, peraltro non esistendo candidati alternativi, ecco che il congresso sarebbe inutile oppure, peggio, giusto un’occasione per fare piazza pulita della minoranza riformista (che è il disegno che viene attribuito più che a Schlein al agli suo cerchio magico).
Per la presidente del Consiglio molto meglio scontrarsi con questo tipo di avversario che con uno schieramento in grado di rassicurare il Paese, dagli operai in crisi agli imprenditori impauriti, con credibili ricette di governo sul piano internazionale e quello economico-sociale, uno schieramento di segno riformista che al momento non pare avere possibilità di nascere, malgrado la tenuta dei riformisti del Pd e la sussistenza di un’area (Italia viva, Azione, Liberaldemocratici, Più Europa) che però continua a non voler trovare una quadra. Per Giorgia Meloni potrebbe essere non diciamo una passeggiata ma quasi, se le cose rimarranno così.