Modello Corbyn
Dopo il Canada, l’anti-trumpismo resuscita anche la sinistra australiana. E in Italia?, si chiede Francesco Cundari nella newsletter “La Linea”.
Dopo lo straordinario recupero dei liberal di Mark Carney in Canada, anche i laburisti australiani di Anthony Albanese devono ringraziare il presidente degli Stati Uniti per la loro clamorosa rimonta. Ancora una volta, il bacio di Donald Trump, o per meglio, il bacio a Donald Trump – alla sua pantofola, diciamo così – si dimostra fatale per i sovranisti.
Considerando lo spettacolo cui abbiamo assistito qui negli utlimi mesi, con la gara tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini a chi è più amico di Trump, a chi vuole più bene a Elon Musk (e ai suoi satelliti), a chi è più disponibile a mandar giù tutto, persino i dazi che strangolano le nostre esportazioni, ce ne sarebbe di che nutrire qualche speranza persino per la sinistra italiana. Si direbbe anzi che il Partito democratico abbia davanti a sé un’autostrada. Il problema è che Elly Schlein appare sempre più decisa a imboccarla contromano.
Il secondo mandato di Trump ha segnato una frattura epocale, non semplicemente nella Nato, ma nell’idea stessa di occidente, quasi una caduta del muro di Berlino alla rovescia, come ha scritto Enrico Cisnetto, traendone peraltro l’ottimistica conclusione che di qui a un paio d’anni l’intero sistema politico italiano possa subire la sorte della cosiddetta Prima Repubblica (volesse il cielo).
Davanti alla duplice minaccia dell’imperialismo putiniano e dell’aperta ostilità americana, ben rappresentata dal discorso di J.D. Vance a Monaco, sono emersi in Europa leader consapevoli del pericolo e capaci di fronteggiarlo, dal laburista Keir Starmer nel Regno Unito ai popolari Friedrich Merz in Germania e Donald Tusk in Polonia, non a caso, come nota oggi Christian Rocca nel suo editoriale, tutti quanti «volenterosi difensori dell’indipendenza democratica e dell’integrità territoriale dell’Ucraina».
In Italia, al contrario, la deriva demagogica del Pd di Schlein appare inarrestabile: dalla posizione ostile e anche ipocrita assunta sul riarmo europeo fino all’incredibile scelta di schierare il Pd a favore del referendum contro le leggi del Pd sul lavoro, che impone all’intero gruppo dirigente una sorta di pubblica auto-umiliazione, mentre intitola al partito una battaglia quasi certamente perdente, per la difficoltà di raggiungere il quorum, e probabilmente ancor più dannosa se lo raggiungesse: perché fossilizzerebbe ancor più l’intero centrosinistra su una posizione anacronistica, faziosa e minoritaria.
C’erano sicuramente delle buone ragioni, a suo tempo, per contestare la cancellazione dell’articolo 18, molte di meno per rimetterlo ora, nessuna per farlo attraverso una campagna referendaria di cui Giorgia Meloni sarà verosimilmente l’unica reale beneficiaria.
Con i problemi che il mondo e l’Italia si trovano davanti, il comportamento del Pd è inspiegabile e autolesionista: invece di inchiodare Meloni al populismo trumpiano, si lancia al disperato inseguimento di Giuseppe Conte, che da parte sua non fa nemmeno lo sforzo di votare il sacrosanto referendum sulla cittadinanza (seconda vittima di questa assurda campagna).
Dopo il referendum per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, quando il governo conservatore di Theresa May ondeggiava per ben tre anni sotto il peso delle irrisolvibili contraddizioni innescate dalla Brexit, è lecito domandarsi cosa sarebbe potuto accadere se alla guida del Labour ci fosse stato un leader capace di denunciarle e di sfruttarle a suo vantaggio, a fronte alta, invece di Jeremy Corbyn, che al riguardo aveva invece una posizione estremamente ambigua, per non dire corriva. Il mio timore è che il populismo trumpiano di Meloni abbia trovato in Schlein il suo Corbyn, cioè la sua immeritata assicurazione sulla vita.