di Carmelo Palma
Cosa vuole l’Ucraina?
I pacifisti che pensavano di salvare la pace a Monaco nel 1938 e che non volevano morire per Danzica nel 1939 sono gli stessi che oggi vorrebbero sacrificare l’Ucraina sull’altare della pace affaristico-mafiosa nella nuova Yalta russo-americana
In vista della mobilitazione euro-pacifista, in cui la sinistra italiana celebrerà festosamente il divorzio da quella europea e il matrimonio mistico con lo Spirito del tempo, che soffia forte da Washington e da Mosca, vale la pena di ricordare che il pacifismo è sempre stato (e per sua natura non può che essere) il corollario di un teorema totalitario.
Lo è stato nell’Europa che pensava di salvare la pace a Monaco nel 1938 o che non voleva morire per Danzica nel 1939; ha continuato a esserlo dagli anni cinquanta fino al crollo del Muro tra i partiti di osservanza comunista che stigmatizzavano il bellicismo della Nato (ma non quello del Patto di Varsavia) e per scongiurare l’apocalisse atomica volevano fermare la corsa agli armamenti contro l’impero sovietico.
Lo è, a maggior ragione, oggi nell’Occidente pacifista, che non è disponibile a compromettere il business as usual con la perigliosa difesa delle ambizioni europee dell’Ucraina, preferendo la tranquillità di un duplice e disarmato vassallaggio ai contraenti russo-americani di una nuova Yalta cleptocratico-mafiosa.
Il pacifismo, da un secolo a questa parte, è sempre stato la nobilitazione umanitaria della servitù dei deboli e la legittimazione morale della dominazione dei forti. Conta assai poco la buona o la cattiva fede del pacifista: il dato oggettivo è che il pacifismo giustifica, sempre e comunque, come dovere morale degli aggrediti e dei loro sostenitori l’accettazione del diritto politico dell’aggressore e dei suoi complici. Il pacifismo non ammette solo la violenza come kratos, cioè come potere, ma soprattutto la riconosce come arché, cioè come principio legittimo dell’ordine politico nazionale e internazionale.
È apparentemente curioso, ma i più efficaci e risoluti contestatori della vulgata pacifista in Italia sono stati i radicali, cioè i principali sostenitori della politica antimilitarista e della lotta nonviolenta. A spiegare tutto, in modo esemplare, è un formidabile documento parlamentare: l’intervento che l’allora deputato Roberto Cicciomessere tenne alla Camera il 16 gennaio 1991, poche ore prima della scadenza dell’ultimatum dell’Onu e dell’inizio all’operazione Desert Storm, a seguito dell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein.
Quell’intervento a distanza di quasi trentacinque anni rivela una tragica attualità, perché oggi rispetto al conflitto in Ucraina si sta riproponendo il medesimo canone pacifista, utilizzato ai tempi per scongiurare l’intervento delle forze alleate, peraltro forti di un mandato Onu, contro il regime di Saddam Hussein.
C’è l’accusa di far scoppiare la guerra rivolta a chi – a guerra ampiamente scoppiata – vuole ripristinare condizioni di legalità internazionale e non a chi l’ha fatta scoppiare, imponendo il diritto della forza contro la forza del diritto. C’è l’idea che le ragioni della pace impongano la neutralità tra l’aggressore e l’aggredito e l’appello alla resa del secondo per non eccitare la violenza e propiziare la benevolenza del primo.
C’è l’imputazione morale alla vittima che non si rassegna a essere tale e che sparge intorno a sé gli stessi semi di morte che la condannano. C’è lo stesso ripugnante candore con cui i salvati spiegano ai sommersi della storia che c’è una necessità e una giustizia nel loro sacrificio.
Nel suo intervento Cicciomessere spiega che non solo la nonviolenza, ma anche l’antimilitarismo sono una alternativa radicale al pacifismo. Il nonviolento predilige mezzi diversi per gli stessi fini della guerra giusta e mette a rischio la propria vita per fermare o almeno ingombrare l’azione dei violenti, mentre il pacifista consegna la vita e la libertà dei deboli alla volontà del loro carnefice. Il nonviolento fa politica col proprio corpo, il pacifista coi corpi degli altri.
L’antimilitarista lotta perché i complessi militari-industriali non diventino un potere separato e avverso al controllo democratico – e quindi ne smaschera le retoriche nazionaliste e gli interessi affaristici – ma non ritiene affatto che le armi siano un mezzo illegittimo di difesa del diritto degli Stati e della libertà degli uomini o che la loro legittimità sia subordinata a un particolare allineamento politico-ideologico.
In un passaggio dell’intervento, Cicciomessere dice a proposito dei pacifisti di sinistra che essi «utilizzano la nonviolenza con gli stessi criteri con i quali hanno usato in passato la violenza, cioè con la stessa impostazione ideologica per la quale in passato affermavano che uccidere un fascista non è reato e che la rivoluzione armata è giusta e sacrosanta».
È esattamente così: Pietro Secchia negli anni cinquanta animava i Partigiani della Pace contro la Nato continuando a coordinare la fazione militarista e rivoluzionaria del Partito comunista italiano. Negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta il pacifismo anti-americano patrocinava qualunque movimento militare di liberazione ai quattro angoli del pianeta, purché fosse anti-americano o presunto tale.
Oggi la grande parte del movimento pacifista anti-ucraino riconosce il diritto alla lotta armata (cioè, in questo caso, terroristica) dei sostenitori della causa palestinese contro lo Stato ebraico.
D’altra parte questo pacifismo double face non è solo appannaggio della sinistra; la malafede pacifista è ampiamente transpartitica come rispetto alla causa ucraina dimostra tutta la destra fascio-leghista di ieri, di oggi e di domani, pronta a invocare i blocchi navali e il dispiegamento delle cannoniere per difendere i sacri confini della patria dalle bagnarole dei migranti, ma disponibile a far mutilare l’Ucraina di un quarto del suo territorio per la causa della pace nel mondo e persuasa che la resistenza ucraina sia una molesta interferenza negli equilibri naturali della storia.
Alla fine, tutti i pacifisti, di qualunque colore, si assomigliano e si pigliano in questo disprezzo razzistico per le vittime designate nella catena alimentare della politica globale, finché non tocca a loro essere mangiati.