Il precedente dell’Italicus nel gorgo dei depistaggi (ilmanifesto.it)

di Davide Conti

Bologna, 2 agosto 1980. 

L’attentato neofascista del 1974 provocò 12 morti e 50 feriti. Nessuna condanna

Il 31 luglio 1980 il giudice Angelo Vella chiudeva la sentenza-ordinanza sulla strage neofascista del treno Italicus del 4 agosto 1974 (12 morti e 50 feriti). Nella conferenza stampa del giorno dopo lo stesso Vella dava notizia del rinvio a giudizio di tre imputati. Si trattava di Mario Tuti, Piero Melentacchi e Luciano Franci membri del gruppo toscano del Fronte Nazionale Rivoluzionario, una delle sigle dell’eversione nera nate all’indomani dello scioglimento del Movimento Politico Ordine Nuovo del novembre 1973.

Nel 1992 tutti saranno definitivamente assolti dalla Cassazione. Ancora oggi, per lo Stato italiano, non esiste colpevole.

Fino al 1 agosto 1980 quella era, nell’immaginario collettivo, la strage di Bologna poiché aveva colpito un treno nella provincia della città. Così la chiamò Pasolini nella sua celebre invettiva civile «Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974».

Meno di 48 ore dopo l’incriminazione dei neofascisti per l’Italicus, la strage di Bologna avrebbe cambiato luogo di riferimento spostandosi nel cuore della città; facendo 85 morti e 200 feriti; scrivendo un nuovo tragico capitolo del romanzo nero della Repubblica.

Per il massacro del 2 agosto 1980 la Corte d’Assise d’Appello ha confermato, nel luglio scorso, la condanna di Paolo Bellini (neofascista, ’ndranghetista e collaboratore del Ros dei carabinieri), Piergiorgio Segatel (all’epoca capitano dei carabinieri) e Domenico Catracchia ovvero l’amministratore del condominio di via Gradoli a Roma (di proprietà di tre società riconducibili al Sisde) dove nel 1981 i Nar installarono una loro base.

I tre si aggiungono ai neofascisti Francesca Mambro, Giusva Fioravanti e Luigi Ciavardini (condannati definitivamente), a Gilberto Cavallini (condannato in appello) e ai mandanti/depistatori individuati in Licio Gelli e Umberto Ortolani (capi della P2); Federico Umberto D’Amato (capo dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno), Mario Tedeschi (senatore del Msi e direttore de Il Borghese).

A cinquant’anni di distanza la strage dell’Italicus racconta molto di ciò che avvenne prima e dopo quel 4 agosto 1974. Anticipa lo stretto legame tra manovalanza neofascista e P2 (con quest’ultima che «svolse opera – scrive la Commissione presieduta da Tina Anselmi – di istigazione agli attentati e di finanziamento dei gruppi della destra extraparlamentare toscana»); narra dei depistaggi eseguiti da alti esponenti degli apparati di forza e dei servizi segreti; rievoca l’apposizione del segreto di Stato da parte di due Presidenti del Consiglio (Spadolini nel 1982 e Craxi nel 1986) di fronte alle richieste di documenti da parte della magistratura; ricorda che la strage fu preceduta (come quella di piazza Fontana) da una serie di attentati sulle linee ferroviarie (29 gennaio Silvi Marina, nei pressi di Pescara; 9 febbraio treno Taranto-Siracusa; 21 aprile Vaiano, provincia di Pisa); che seguì la strage di piazza della Loggia a Brescia (28 maggio) e che venne seguita dall’attentato a Terontola (9 gennaio 1975).

Rammenta, infine, di un falso propalato dal padre della destra di ieri e di oggi: Giorgio Almirante. Il segretario del Msi (all’epoca alle prese con la richiesta di autorizzazione a procedere approvata dal Parlamento contro di lui per ricostituzione del partito fascista) annunciò al capo dell’Ispettorato Antiterrorismo Emilio Santillo l’attentato dell’Italicus 19 giorni prima della strage, accusandone i gruppi della sinistra extraparlamentare: «Siamo stati in grado – disse Almirante alla Camera il 5 agosto 1974 – di comunicare il mattino del 17 luglio al dottor Santillo che un attentato era in via di preparazione alla stazione Tiburtina.

L’informazione era inesatta solo per un particolare di notevole importanza, perché si parlava del Palatino, il treno Roma-Parigi, e non dell’Italicus. Io fui in condizioni di mandare un biglietto al dottor Santillo e di farlo seguire da una telefonata. Gli mandai un biglietto nel quale erano indicati i nomi dei presunti organizzatori dell’attentato. So per certo che quei tre indiziati o presunti indiziati o presunti colpevoli o presunti organizzatori appartengono a gruppi extraparlamentari di sinistra operanti in Roma e più esattamente all’Università di Roma».

A pulire gli occhi da queste falsità ci penserà la «Piazza bella piazza» cantata da Claudio Lolli a Bologna il giorno dei funerali delle vittime, quando le alte cariche democristiane dello Stato saranno sonoramente contestate da una massa di popolo consapevole della vera matrice dell’eccidio.

Dopo mezzo secolo di impunità resta anche un’ultima evocativa immagine: quella del ferroviere Silver Sirotti che, in servizio sull’Italicus, tentò di spegnere le fiamme dell’incendio per salvare le vite dei passeggeri e morì travolto dal fuoco.

Vittima aggiunta della strage come era stato nel dicembre 1969 un altro ferroviere, Giuseppe Pinelli, morto innocente nella Questura di Milano all’alba del primo capitolo del romanzo nero della Repubblica.

L’ansia da consenso che blocca Meloni in mezzo al guado (ildubbio.news)

di Mauro Bazzucchi

La presidente del consiglio continua a oscillare 
tra slanci liberali e ricadute populiste

“Di lotta e di governo”, si sarebbe detto un tempo, per i partiti che vogliono accreditarsi come forza responsabile, ma allo stesso tempo sono preoccupati di non recidere il cordone ombelicale con la propria vocazione protestataria originale e con la pancia del proprio elettorato.

Il problema, nella storia repubblicana, si è posto per più di un partito e negli ultimi anni i casi si sono decisamente infittiti.

Basti pensare al M5s dei due governi Conte, che nel giro di pochi mesi passò alle missioni di solidarietà per i gilet jaunes francesi al sostegno a Mario Draghi o alla Lega di Matteo Salvini, che teneva alto l’allarme securitario e allo stesso tempo sedeva al Viminale.

Ora sia Conte che Salvini contano di risalire nei sondaggi a discapito di Fratelli d’Italia, che essendo il partito di maggioranza relativa ed esprimendo la presidente del Consiglio si dovrebbe trovare naturalmente in una posizione più vincolata a livello istituzionale, sia sul piano nazionale che internazionale.

Dovrebbe, perché in termini pratici è proprio su questo fronte che si sta palesando l’ambiguità della linea portata avanti dalla presidente del Consiglio. Una linea fatta di oscillazioni, stop and go, iniziative talvolta di segno opposto, che dopo quasi due anni di guida dell’esecutivo ancora non consentono di dire quale sia la parabola da lei tracciata per FdI e la destra italiana non proveniente dalla tradizione liberale.

A spanne, sembra che Meloni sia guidata dall’ossessione di scongiurare il crollo di percentuali che ha riguardato Lega e M5s, cercando di conciliare elementi di conservatorismo liberale e altri chiaramente riconducibili al populismo e al sovranismo internazionale.

Lo schema è collaudato e reiterato, e visto il buon risultato per FdI alle ultime Europee la convinzione che questo funzioni deve aver prevalso nella mente della premier. Per cui, l’impressione è che si andrà avanti su questo doppio registro almeno fino a quando Meloni lo riterrà elettoralmente vantaggioso.

Sul fronte interno, accade che alla commemorazione dell’assassinio di Giacomo Matteotti si riconosca che quest’ultimo è stato ucciso da «squadristi fascisti» e poi però si attacchino i giornalisti per l’inchiesta di Fanpage che ha smascherato sacche di neofascismo e di antisemitismo all’interno dell’organizzazione giovanile del partito. Poi arriva il repentino dietro- front sotto forma di lettera indirizzata a via della Scrofa in cui si chiede tolleranza zero per i fascisti. Una vexata quaestio, quella del fascismo, che a causa delle reticenze finisce fatalmente per non abbandonare la presidente del Consiglio nemmeno

quando le polemiche nei suoi confronti appaiono forzate, come per le accuse lanciate alla “destra di governo” per la strage di Bologna da Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione delle vittime. Qui una nota di Palazzo Chigi citava le sentenze che ne attribuiscono la responsabilità ai neofascisti.

Ma è sul piano internazionale che lo stare in mezzo al guado di Meloni rischia di essere severamente condannato dai fatti, perché l’ansia di non far perdere consenso a Fratelli d’Italia potrebbe non coincidere con i tanto sbandierati interessi nazionali, in questa fase di ricambio ai vertici dell’Ue.

Non è un caso che una delle testate ritenute meglio informate sulla politica comunitaria (“Politico”) abbia scritto che le ultime polemiche sollevate da Meloni sul Rapporto sullo Stato di diritto dell’Ue, con annessi attacchi ad alcune testate, che a loro volta hanno fatto seguito alla scelta di votare no alla rielezione di Ursula von der Leyen, stiano danneggiando l’Italia nella delicata trattativa per l’assegnazione a Roma di un commissario di peso.

Quando sembrava che a Bruxelles l’Ecr si stesse definitivamente emancipando dalla destra sovranista, tanto da votare assieme alla maggioranza attuale l’ufficio di presidenza dell’Europarlamento e ottenere una vicepresidente, è arrivato il no a von der Leyen, così come il no alla parte della mozione pro- Ucraina che condannava le iniziative diplomatiche di Viktor Orban. Incalzata dal trio Le Pen- Orban- Salvini, Meloni non ha resistito alla forza del cordone ombelicale della destra populista, con un supplemento di preoccupazioni apportato da ciò che sta succedendo negli Usa, dove Trump sembra andare verso la vittoria a grandi falcate.

E così, anche la visita ai giochi olimpici diventa una illustre vetrina per l’ambiguità meloniana: la presa di posizione contro il Cio per aver fatto gareggiare la pugile algerina Imane Khelif, che strizza l’oc- chio ai settori più conservatori e confessionali dell’opinione pubblica accordandosi con analoghe considerazioni fatte da Trump e dal portavoce di Putin che ha addirittura parlato di “perversione”.

“Ma anche” ( per dirla con Walter Veltroni) l’incontro col presidente francese Macron a margine del concorso ippico. Un primo banco di priva per capire se la scommessa meloniana porterà i suoi frutti o se inizierà a mostrare la corda sarà, come detto, la scelta del commissario Ue che spetta all’Italia. Poi, ci sarà da impostare una manovra finanziaria con poche risorse e col ritorno dei vincoli di bilancio europei. In quest’ultimo caso, i numeri mal si concilieranno con la strategia del “doppio forno”.