La xenofobia contro i rifugiati ucraini nei paesi dell’Est Europa (valigiablu.it)

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Dall'inizio dell'invasione su larga scala russa, a 
febbraio 2022, oltre sei milioni di ucraini hanno 
lasciato il paese e si sono stabiliti altrove in 
Europa. 

A  circa 4,3 milioni è stata concessa la protezione temporanea, che consente di risiedere e lavorare liberamente negli stati membri dell’Unione europea.

Secondo le statistiche dell’UNHCR, la Polonia è lo stato membro dell’Unione europea che conta il maggior numero di rifugiati ucraini (asilo, protezione temporanea o altro sistema di protezione) con  1.903.100 persone al gennaio 2025. Seguono la Germania (1.168.535 rifugiati ucraini), la Repubblica Ceca (636.595), la Spagna (231.755) e l’Italia (207.150).

L’accoglienza per gli ucraini è stata relativamente migliore nei paesi dell’Unione Europea rispetto a quella riservata ad altri rifugiati di origini extraeuropea.

Ma tutto il mondo è paese. A oltre tre anni dall’inizio dell’invasione su larga scala, in alcuni paesi la retorica anti-ucraina occupa uno spazio crescente nel dibattito pubblico e politico in alcuni paesi d’Europa centrale. Grazie ai partner del progetto Pulse abbiamo raccolto informazioni sulla situazione in Polonia, Repubblica Ceca, Romania e Ungheria.

“Prima la Polonia”

Il 25 agosto scorso il presidente polacco Karol Nawrocki ha posto un veto all’emendamento alla legge sull’assistenza ai cittadini ucraini che proponeva, tra le altre cose, di estendere la protezione di questi ultimi fino al 2026.

Nawrocki ha spiegato che si aspettava che il governo includesse nella legge una disposizione che stabilisse che gli assegni familiari sarebbero stati versati solo agli ucraini che lavorano e pagano le tasse in Polonia, spiega Michał Kokot, del giornale indipendente Gazeta Wyborcza. “‘Prima la Polonia, prima i polacchi’ non è solo uno slogan elettorale”, ha ripetuto Nawrocki, ribadendo il suo slogan di campagna.

Cosa dicono i dati? Secondo un rapporto Deloitte per la Banca Nazionale Polacca, spiega Gazeta Wyborcza il 78 per cento dei cittadini ucraini residenti in Polonia ha un lavoro. Gli ucraini hanno contribuito con 15 miliardi di złoty (circa 350 milioni di euro) al bilancio polacco e a un aumento del 2,7 per cento del PIL.

Nel paese la retorica dei politici cambia insieme all’opinione pubblica, continua il giornalista, spiegando che la simpatia verso gli ucraini sta diminuendo: nel 2023 il 64 per cento dei polacchi li vedeva in maniera positiva, all’inizio del 2025 la percentuale era scesa al 53 per cento. Inoltre un recente sondaggio ha rivelato che oltre il 19 per cento dei polacchi è favorevole a privare gli ucraini del diritto agli assegni familiari.

Gli ucraini “trattati meglio” dei cechi

Nella Repubblica Ceca la retorica anti-ucraina si gioca tra il partito di Andrej Babiš, Azione dei cittadini insoddisfatti (ANO 2011, uscito vincitore dalle elezioni del 3 e 4 ottobre), in competizione – per quanto riguarda gli slogan anti-ucraini – con il partito di estrema destra Libertà e Democrazia diretta (Spd) di Tomio Okamura. Nel giugno scorso Okamura ha criticato la proposta di concedere l’indennità di maternità alle donne ucraine che vivono nel paese. Pochi giorni dopo, Babiš ha ripreso la stessa retorica.

Una terza forza di opposizione che sfrutta la propaganda anti-ucraina è la coalizione filo-russa Stačilo!. Stačilo! riunisce parte della sinistra legata al Partito Comunista e a vari movimenti di protesta, spesso con un orientamento ultranazionalista. La formazione sostiene inoltre che la Repubblica Ceca dovrebbe promuovere la “pace”.

Ci sono due miti diffusi nella società ceca dai populisti e dall’estrema destra: uno è che i rifugiati ucraini sono trattati meglio dei cittadini cechi; l’altro è che gli ucraini siano abbastanza ricchi da non aver bisogno di aiuto, o che provengono da regioni dove non c’è guerra.

Guardando ai fatti, spiega Petr Jedlička di Deník Referendum, nella Repubblica Ceca sono registrati 373mila rifugiati ucraini, di cui solo 89mila ricevono sussidi; di questi, la metà sono bambini, un terzo sono pensionati e il resto sono persone con disabilità e donne in congedo di maternità.

La metà dei rifugiati ha un lavoro e non riceve alcun sussidio. I dati, inoltre, mostrano che l’economia ceca sta traendo notevoli benefici dai rifugiati ucraini. Nel primo trimestre del 2025, la spesa totale per i rifugiati è stata pari a 155 milioni di euro, mentre nello stesso periodo hanno versato 286 milioni di euro in tasse e imposte.

Il referendum di Orbán sull’adesione dell’Ucraina all’UE

In Ungheria la questione, oggi ancora lontana, dell’adesione dell’Ucraina all’Ue viene usata in chiave politica, spiega Kata Moravecz di Hvg.

Il governo di Viktor Orbán ha infatti svolto un sondaggio nazionale sulla questione nel giugno scorso. Inviata a tutte le famiglie, il questionario cominciava affermando che l’adesione dell’Ucraina sarebbe stata un duro colpo economico per l’Ungheria e avrebbe contribuito a peggiorare il tenore di vita dei suoi cittadini, sottolineando, inoltre, che la criminalità sarebbe aumentata nel paese. Il governo sostiene di aver ricevuto due milioni di questionari compilati, in cui il 95 per cento degli ungheresi ha espresso il proprio dissenso all’adesione dell’Ucraina all’UE.

Péter Magyar, leader del partito di opposizione Tisza, sostiene, citando fonti del servizio postale ungherese, che in realtà solo mezzo milione di questionari compilati sono stati restituiti al governo. Né lui né la Fidesz, il partito al potere, sono in grado di fornire prove a sostegno di queste affermazioni.

Negli ultimi anni, il governo di Viktor Orbán ha fatto tutto il possibile per scoraggiare le persone dal chiedere asilo in Ungheria. Secondo l’Unicef, attualmente nel paese ci sono 61mila ucraini, 47mila dei quali hanno solo una protezione temporanea.

L’aumento del sentimento anti-ucraino in Romania

In Romania, solo il 21 per cento degli intervistati in un sondaggio dell’istituto Inscop Research percepiva gli immigrati ucraini come una grave minaccia, racconta Nicolae Cotruț di HotNews. Eppure, aggiunge, è in corso un cambiamento nell’atteggiamento dell’opinione pubblica nei loro confronti.

Nel settembre 2023 il 64 per cento dei romeni riteneva che la Russia dovesse ritirare il proprio esercito e restituire i territori occupati all’Ucraina. Questa percentuale è oggi al 56 per cento; in parallelo chi pensa che l’Ucraina debba cedere i territori occupati dalla Russia è oggi al 33 per cento, mentre due anni fa era al 24.

“Se questa tendenza continuerà, queste percentuali potrebbero invertirsi, anche se non è certo. Tuttavia, la propaganda russa rimane estremamente aggressiva e coloro che la sostengono, indipendentemente dalla loro appartenenza politica, sono molto espliciti”, afferma Remus Stefureac, fondatore del rinomato istituto Inscop, che ha condotto lo studio.

Secondo Stefureac, quel 21 per cento degli intervistati che considera l’emigrazione ucraina una grave minaccia sta diventando il bersaglio perfetto per i partiti estremisti e potrebbe far pendere la bilancia elettorale dalla loro parte.

Stessa xenofobia, target diverso

Il caso della retorica anti-ucraina è interessante perché richiama, in maniera speculare, la retorica contro l’immigrazione in Europa occidentale: i discorsi sono simili, il target è diverso.

Coma mai? “La ragione di questa differenza è il diverso panorama migratorio tra Est e Ovest. L’Europa orientale non ha avuto ondate migratorie significative provenienti da paesi non europei, il che spiega in parte la reazione virulenta di questi paesi contro qualsiasi iniziativa di accoglienza, in particolare nel contesto del sistema di Dublino dopo il 2015, dove si trattava di una sorta di xenofobia ‘a distanza’”, spiega Denys Gorbach, sociologo ucraino e specialista di economia politica e movimenti sociali.

Solo di recente i paesi dell’Europa dell’Est hanno “ottenuto i propri migranti: gli ucraini”, prosegue Gorbach: “Già prima dell’invasione del 2022, avevano una popolazione considerevole di migranti economici provenienti dall’Ucraina, ora si sono aggiunte centinaia di migliaia di rifugiati. Questo mette in moto gli stessi meccanismi di razzializzazione e nativismo che sono all’opera in Occidente: alla fine, abbiamo le ‘nostre’ minoranze da odiare”.

Come mai questa differenza con tra Est e Ovest? Perché, aggiunge, Gorbach, questo ruolo nell’Europa occidentale è occupato da altre minoranze “straniere”: turchi in Germania, magrebini e neri in Francia, marocchini e turchi in Belgio, per esempio.

Inoltre, per esempio in Francia, gli esiliati ucraini sono circa 70mila, un numero marginale rispetto alla popolazione del paese – oltre 68 milioni di abitanti. “Oltre ad essere meno numerosi, i rifugiati ucraini sono in maggioranza donne e in Europa occidentale; sono meno visibili e possiedono in media più capitale culturale ed economico rispetto a chi si è trasferito nell’Europa dell’Est”.

*Articolo pubblicato su Voxeurop e realizzato nell’ambito del progetto PULSE, un’iniziativa europea a sostegno della collaborazione giornalistica internazionale. Hanno contribuito alla sua realizzazione  Nicolae Cotruț (HotNews.ro), Kata Moravecz (EUrologus/HVG) e Petr Jedlička (Denik Referendum)

Un rifugiato ucraino ha in mano le bandierine dell'Ucraina, della Polonia e degli Stati Uniti(Immagine in anteprima via Central European Times)

La salute mentale degli ucraini (e la mia) (ilpost.it)

di Davide Maria De Luca

«L’Ucraina è nel pieno di una vera e propria 
sessione di terapia collettiva, una “terapia 
nazionale” per cercare di restituire un basilare 
senso di sicurezza.

Come se la guerra avesse fatto tornare bambina un’intera nazione»

Qualche tempo fa mi sono trovato in un centro per anziani durante una sessione di arteterapia. Ero a Mala Danylivka, un sobborgo di condomini popolari sovietici immersi nel verde a pochi chilometri da Kharkiv, nell’Ucraina orientale. Il fronte corre a poco meno di trenta chilometri da qui.

Erano trascorsi quasi due anni esatti da quando, nell’agosto del 2023, mi ero lasciato tutto alle spalle per trasferirmi in Ucraina e lavorare come reporter freelance di guerra e la scena che avevo davanti mi era diventata ormai familiare.

In una stanza rinnovata di fresco al pianterreno di una chruščovka degli anni Sessanta, quattordici persone erano sedute intorno a un tavolo con le teste, in gran parte canute, piegate su fogli di carta. A parte il rombo di un paio di caccia ucraini diretti a bombardare più a nord, nella stanza si sentiva solo lo scricchiolare di pennarelli e, in sottofondo, una musica rilassante che faceva venire voglia di chiudere gli occhi e mettersi a dormire.

Olha Tkachova, la psicologa dell’ONG italiana Intersos che viene qui circa una volta a settimana, aveva chiesto ai suoi beneficiari, il termine tecnico per quelli che in un altro contesto sarebbero i suoi pazienti, di disegnare un albero ai cui rami, invece di foglie, sono appese le cose che portano felicità nella vita. Aveva dato anche un suggerimento: per disegnare l’albero si può partire tracciando il contorno della propria mano.

Lyudmilla Kovalenko, 68 anni, ha mostrato il risultato del suo lavoro. Il suo albero aveva tutti i colori dell’arcobaleno e ogni ramo terminava in due righe di ordinati caratteri cirillici che descrivevano semplici piaceri che ricorda da prima della guerra. «Passeggiare nel parco», legge, «Andare a dormire senza paura», «Non preoccuparsi per il futuro».

Pochi minuti dopo, seduti su dei puff in una stanza dai colori pastello, Kovalenko mi ha spiegato che sono tutte cose che ha perso da quando, lo scorso maggio, la sua casa è stata bombardata e suo figlio, 42 anni, è stato mobilitato nell’esercito ucraino.

Ora tutto ciò che le resta sono l’ansia per la sorte di suo figlio e le poche cose che è riuscita a infilare in due borsoni di plastica prima di lasciare la sua casa in fiamme. Suo marito ormai quasi non si muove dal letto, dove resta incollato a leggere notizie sui canali Telegram nel tentativo di dare un senso a quello che sta succedendo a lui e alla sua famiglia. Per il momento, l’unico aiuto che ricevono dallo stato sono le loro pensioni: in tutto, circa 200 euro al mese.

(Lyudmilla Kovalenko mostra la foto del suo appartamento distrutto – foto Davide Maria De Luca)

Tkachova, la psicologa, lavora con le vittime della guerra dal primo giorno dell’invasione. Ha iniziato con le organizzazioni di volontari che distribuivano cibo e medicine quando Kharkiv era sotto assedio. È rimasta in città fino alla liberazione, poi ha rispolverato la sua laurea in psicologia e ha trasformato il suo desiderio di aiutare gli altri in un lavoro.

Qualche settimana fa un drone russo ha colpito il suo condominio in piena notte, un appartamento all’ultimo piano è andato in fiamme e l’intero palazzo è stato evacuato. Tkachova si è messa in salvo con sua figlia e si è ritrovata nella stessa situazione dei suoi beneficiari. Senza una casa, con una vita ridotta a quello che ha potuto infilare in una valigia quando la polizia le ha permesso di tornare per pochi minuti nel suo appartamento.

Per aiutare le persone che hanno perso tutto bisogna ripartire dalle cose più semplici, mi spiega. Come per esempio: trascorrere con loro un quarto d’ora in silenzio, ascoltando una musica serena e lasciando che la mente vaghi tra pensieri positivi. «A volte guardiamo insieme film per bambini. Emozioni semplici, positive. Di questo ha bisogno chi ha perso tutto».

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In Ucraina ho incontrato decine di psicologi come Tkachova e di pazienti come Kovalenko. La salute mentale è un tema di cui si sente parlare dagli ospedali di Lviv alle trincee del Donbas. Dopo tre anni dall’invasione e undici dall’inizio della guerra in Donbas, gli ucraini sono diventati un popolo familiare con il gergo tecnico della psicologia.

Persino gli anziani nei paesini sanno cos’è un trauma, un ricordo intrusivo e conoscono elementari tecniche di rilassamento. Con la loro serenità mentale minacciata ogni notte, sono diventati esperti di patologie mentali e dei possibili rimedi.

Nei primi mesi di invasione, avevano persino nominato uno “psicologo in capo”. Così era conosciuto il controverso ex consigliere di Zelensky, Oleksiy Arestovych, che si era preso l’incarico di spiegare, giorno per giorno, in diretta sui social, l’andamento della guerra, di rassicurare la popolazione che il governo avrebbe continuato a lavorare e che Kyiv non sarebbe caduta. Fino a quando non ha perso la fiducia di Zelensky, Arestovych è stata la rassicurante voce paterna per milioni di persone alla disperata ricerca di una roccia a cui aggrapparsi.

Oggi, quasi ogni bando umanitario internazionale che riguarda l’Ucraina include tra le richieste alle organizzazioni che interverranno quella di fornire ai potenziali beneficiari un supporto psicologico. A Kharkiv Intersos, la ong italiana per cui lavora Tkachova, porta avanti un progetto di protezione umanitaria finanziato dall’Unione europea. Insieme a due operatori sociali, viaggia di paese in paese, a volte indossando elmetto e giubbotto antiproiettile quando arriva vicino al fronte.

L’intero paese è attraversato da queste squadre di terapisti d’assalto, psicologi itineranti che arrivano persino nei luoghi più impensabili, a costo di difficoltà e pericoli personali. Penso che si possa dire senza timore di smentita che in nessuna crisi umanitaria prima dell’Ucraina la salute mentale delle vittime del conflitto è stata così al centro dell’attenzione.

L’Ucraina è nel pieno di una vera e propria sessione di terapia collettiva, una “terapia nazionale” che consiste essenzialmente nel tentativo di restituire un basilare senso di sicurezza. Una ricostruzione che comincia rosicchiando pezzetti di normalità alla tensione costante, il che spesso prende la forma di quindici minuti trascorsi ad ascoltare una musica rilassante disegnando con pennarelli colorati, o a guardare un cartone animato.

Come se la guerra avesse fatto tornare bambina un’intera nazione.

(Una seduta di arteterapia a Mala Danylivka – foto Davide Maria De Luca)

Quando mi sono trasferito in Ucraina anche io, in qualche modo, sono tornato bambino. Da piccolo ero uno di quei ragazzini un po’ solitari che al calcio preferivano i soldatini, impazzivo per le divise militari e i film di guerra – era una passione innocente, non ho mai avuto il culto della guerra, né ho mai pensato di fare il militare, un po’ come un fan del true crime che non necessariamente cova il desiderio di diventare un serial killer.

Crescendo la passione è rimasta, e leggendo i reportage di Tiziano Terzani dal Vietnam ho deciso di farne una professione. Ma per varie e complesse ragioni la guerra, questa grande avventura infantile, prima dell’Ucraina l’ho a lungo avvicinata – in Sri Lanka, pochi mesi dopo la fine della guerra civile, in cerca dei crimini di guerra commessi dall’esercito di Colombo contro i ribelli, in Kosovo sulle tracce dei miliziani partiti per arruolarsi in Medio Oriente, in Kurdistan durante la repressione militare di Erdogan – senza mai entrarci veramente. Quando nel maggio del 2023 sono arrivato per la prima volta in Ucraina mi sono sentito un bambino che coronava il sogno della sua grande avventura.

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E così come me la guerra aveva fatto tornare bambini milioni di altri europei. Il potere dei conflitti si estende al di là del campo di battaglia, non serve trovarcisi in mezzo per sentire l’attrazione che ci spinge verso emozioni primordiali: rabbia, paura, odio. E d’altronde quali altre emozioni potremmo provare di fronte al dolore, alla morte, alla distruzione senza scopo?

A Vesele, un altro paese ancora più vicino al fronte, dove sono stato con Tkachova e la squadra di Intersos, una donna ha iniziato a singhiozzare durante la sessione di disegno. Ha raccontato di essere rimasta sola, di aver quasi completamente perso la vista e di non poter arrivare nemmeno al comune vicino per visitare il mercato.

Era lontana dall’essere la peggiore storia che ho sentito in questi anni, ma per un istante mi ha lasciato comunque sopraffatto. Ho sentito il desiderio di scappare in qualche posto lontano e remoto, di tirarmi una coperta sopra la testa per ignorare tutto questo dolore insensato.

Ma qui si ferma l’utilità della nostra metafora. Perché né noi né gli ucraini siamo davvero tornati bambini a causa della guerra. Ci accomunano molte cose, tra cui quella di essere adulti responsabili delle proprie azioni, con agende e interessi. Ma restiamo anche separati gli uni dagli altri, come noi europei restiamo separati da tutti gli altri esseri umani intrappolati nell’ingranaggio di una guerra.

Per quanto possiamo essere coinvolti e partecipi, per quanto possiamo sentire di avere cose in comune, persino quando decidiamo di vivere con e come loro, da qualche parte ci rimane un paese, una casa, una famiglia che non sono in pericolo immediato.

Dove collocare esattamente questa separazione, questa barriera, e che cosa comporta, ognuno lo sceglie per conto suo. Ma per noi che facciamo informazione per mestiere, è più importante che per altri. Una vecchia regola del giornalismo dice di tenere i fatti separati non solo dalle opinioni, ma anche dalle emozioni. Se finiamo troppo coinvolti nelle nostre storie finiremo per raccontare ciò che proviamo, non quello che vediamo. E, se le distinzioni hanno ancora un senso, i giornalisti non sono né poeti né attivisti.

Certo, è difficile tenere a bada l’entusiasmo infantile che l’avventura della guerra produce: l’eccitazione per le vittorie, la curiosità per le innovazioni tecnologiche, per le tattiche astute – per me di sicuro lo è stato; ed è difficile gestire il desiderio di provare quel che prova chi ci circonda, di identificarsi con la sua storia – e più è tragica la vicenda, più forte è la pulsione.

Ma se ha ancora senso raccontare i fatti, che lasciati a sé stessi non hanno una voce, e non solo le emozioni, che sanno farsi sentire benissimo da sole, allora c’è ancora una buona ragione per tenere fede alla vecchia regola – per quanto cinica possa sembrarci. Per ricordarci che se anche la guerra ci spinge a tornare in uno stadio quasi infantile non siamo più bambini. E non lo sono nemmeno gli ucraini.

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Un rifugio per anziani senza casa a Kharkiv, Ucraina. 19 settembre 2025 (Paula Bronstein /Getty Images)(Un rifugio per anziani senza casa a Kharkiv, Ucraina. 19 settembre 2025 – Paula Bronstein /Getty Images)

IDOS: sfruttamento migranti favorito dai Decreti flussi (nigrizia.it)

Anticipazioni del Dossier statistico immigrazione. 
I dati del Numero Verde antitratta

È l’unica modalità per entrare in maniera regolare nel territorio italiano, il Decreto flussi. Quella finestra temporale in cui un certo numero di persone di origine non comunitaria (numero deciso dal governo) può presentare domanda per un lavoro subordinato, autonomo e/o stagionale, sperando di rientrare nella quota prevista e avere la possibilità di arrivare con la sicurezza di un impiego.

Questo sulla carta, perché poi la realtà è differente e a raccontarla è IDOS, il Centro studi e ricerche che il 4 novembre presenterà la nuova edizione del Dossier statistico immigrazione. Dossier che vede un capitolo dedicato ai Decreti flussi, pagine in cui si racconta come siano diventati lo strumento per sfruttare le persone che arrivano, concorrendo ad alimentare la loro irregolarità e il fenomeno della tratta delle persone.

Fenomeno che sta mutando. La tratta riguarda infatti, rispetto al passato, sempre meno donne e minori, spesso intercettati a fini sessuali, e sempre più uomini adulti che vengono captati al momento della domanda e poi abbandonati a sé stessi, in balìa di forme di occupazione irregolare, al limite dello schiavismo.

Una tendenza registrata dal Numero Verde nazionale antitratta 800 290 290, attivo dal 2000 come strumento di denunce e segnalazioni di sfruttamento di esseri umani. Partendo dalle prese in carico attivate dopo i contatti con il numero, tra il 2014 e il 2024, il dossier ha potuto analizzare l’andamento del fenomeno, evidenziandone il cambiamento.

La media, negli undici anni presi in considerazione, è di oltre 800 prese in carico all’anno. Azioni che hanno visto diminuire del 9,8% la presenza delle donne e del 63,6% quella dei minori, mentre sono raddoppiate quelle riguardanti gli adulti maschi. Lo sfruttamento registrato non è più quello sessuale, calato dal 50% al 24%, ma lavorativo, fenomeno che si registra nel 38,2% dei casi seguiti dal Numero Verde.

È in questo contesto di sfruttamento lavorativo che si inseriscono le segnalazioni delle truffe legate ai Decreti flussi. Con la presenza costante di persone che si pongono come intermediari della domanda e che, a pagamento, avviano la procedura per l’ingresso di chi, straniero, dall’estero, partecipa ai click day.

Gli intermediari seguono i richiedenti posto di lavoro fino al rilascio del nulla osta e del visto, per poi sparire, insieme a coloro che dovevano garantire il lavoro all’arrivo in Italia. Così quando la persona arriva in Italia si trova senza occupazione regolare ma dentro il territorio con necessità di lavorare, esposta di fatto all’irregolarità e allo sfruttamento.

Stando ai dati diffusi da IDOS, soltanto nel secondo semestre del 2024, definito “l’anno degli inganni”, sono stati 139 i potenziali lavoratori migranti (provenienti da Tunisia, Marocco, India ed Egitto) che si sono trovati senza occupazione regolare ed esposti a sfruttamento.

Un numero più che parziale rispetto a un fenomeno diffuso che fatica a essere intercettato nelle sue dimensioni reali.

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