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Spese militari, il sentiero stretto (corriere.it)
di Ferruccio de Bortoli
Sono giorni bui per l’Unione europea che prova l’amarezza di sentirsi periferia del mondo. Incapace di un sussulto di dignità di fronte alla maleducazione imperiale di Trump. Ansiosa di compiacerlo (se il segretario della Nato, Mark Rutte, fosse italiano che cosa direbbero di noi?). E ora costretta a riarmarsi anche al di là della propria volontà. Scelta però inevitabile e responsabile che sottoscriverebbe persino il «pacifista» Giuseppe Conte se fosse ancora a palazzo Chigi.
Ma lasciamo fuori le miserie e le ambiguità (di maggioranza e opposizione) di casa nostra. Il timore è quello che un’ Unione europea così politicamente debole si rassegni al dominio internazionale della forza. Ovvero che non difenda lo stato di diritto, su cui è fondata, presupposto di un lungo e storico periodo europeo di pace.
La sua anima identitaria. Non rivendichi la civiltà di molte sue leggi (che non sono tutte odiosi orpelli burocratici come da vulgata sovranista) davanti all’arbitrio di chi mette sul piatto il peso della propria potenza economica, commerciale e, non ultima, militare.
Vale anche nel rapporto con i nostri alleati storici, gli americani, nella speranza che anch’essi si ritengano tali. Il dubbio rimane anche dopo il vertice dell’Aia. Nei prossimi giorni sapremo se l’impegno europeo a far salire la spesa militare con l’obiettivo di portarla (ma nel 2035) al 5% del Pil (in realtà al 3,5%) avrà avuto, come naturale contraltare negoziale, un ammorbidimento della posizione americana sui dazi.
Se non ci fosse vorrebbe dire che il potere negoziale europeo è assai modesto, risibile. C’è un indizio che lascia pensare all’esistenza di una benché minima relazione. Il presidente americano ha minacciato ritorsioni contro la Spagna del disinvolto Pedro Sánchez, unico Paese ad essersi opposto all’escalation delle spese militari (per ragioni non ideali ma di politica interna), dimenticandosi che Madrid fa parte dell’Unione europea, competente a trattare in tema di commercio internazionale.
Trump lo ha fatto durante una surreale conferenza stampa nella quale ha scambiato i giornalisti americani non graditi per agenti nemici e quelli stranieri per funzionari del proprio Paese. Forse qualche volta sarebbe il caso di disertarle certe conferenze stampa, ma questo è un altro discorso.
Giorgia Meloni deve ringraziare le (una volta odiate) regole europee perché le consentono di aderire trumpianamente al riarmo senza inquietare più di tanto il proprio alleato «pacifista», ovvero la Lega. Con tempi più lunghi degli altri.
L’Italia è sotto procedura d’infrazione. Non ha invocato la clausola di salvaguardia, come hanno fatto già altri Paesi membri, per scorporare dal deficit alcune spese, soprattutto militari. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, è giustamente prudente e presidia l’attuale percorso virtuoso delle finanze pubbliche, premiato dalle agenzie di rating.
Il problema si porrà dunque, a procedura esaurita, soprattutto nel 2027, anno peraltro elettorale. La verifica dei solenni impegni dell’Aia si farà nel 2029 quando forse, come è accaduto per il precedente accordo di arrivare al 2%, si constaterà che non tutti ce l’avranno fatta. Ma sarà un altro mondo, speriamo non peggiore di questo. Il sentiero italiano è stretto ma non strettissimo.
Sulla carta gli impegni per il riarmo sono giganteschi. Equivalgono di fatto a un Pnrr militare aggiuntivo. Saremo dunque capaci, eventualmente, di spenderli? Una parte di questi investimenti, pari all’1,5% del Prodotto interno lordo, riguarderà non gli armamenti ma le infrastrutture strategiche (compreso il ponte sullo Stretto di Messina), in particolare quelle legate alla trasformazione digitale e alla cybersicurezza.
Gli strumenti a disposizione, il piano Rearm e i prestiti Safe, non bastano per mobilitare, come annunciato da Ursula von der Leyen, 800 miliardi nei prossimi quattro anni. La Germania, con il suo obiettivo di investire fino a 500 miliardi, fa storia a sé avendo anche una maggiore capacità fiscale.
Un dibattito pubblico più approfondito è necessario. Chi è contro il riarmo esprime una posizione legittima. Non è un nemico della Patria. Vanno spiegate le ragioni della sicurezza nazionale che un governo responsabile non può sottacere, né dissimulare.
In un confronto aperto e sincero, si dovrebbe anche ammettere che difficilmente non si sacrificheranno investimenti di altra natura. Si pagherà un prezzo, inevitabile. Escluderlo è una presa in giro. Perché se non vi fossero conseguenze su altri capitoli di spesa, vorrebbe dire che sono state trascurate o impiegate male risorse necessarie in diversi settori (dalla sanità alla scuola). Una futura ricomposizione della spesa pubblica è inevitabile. Meglio dirlo per tempo.
E poi c’è il tabù del servizio di leva obbligatorio (in Italia abolito nel 2004 con una legge varata dal governo D’Alema nel 2000). Mai avremmo voluto riparlarne.
Secondo il cancelliere tedesco Friedrich Merz è ormai necessario istituire una riserva. La Danimarca, tanto per fare un esempio, lo reintrodurrà, per uomini e donne, dal prossimo anno. Noi vogliamo dire qualcosa ai pochi giovani che abbiamo o facciamo finta di niente?
L’estremismo debole del Pd non offre un’alternativa di governo (linkiesta.it)
Chiacchiere e bandiere
Serve qualcosa in più del Pride di Budapest e del salario minimo per suscitare un nuovo entusiasmo. Manca la concretezza del riformismo, una parola considerata compromissione con l’avversario o intelligenza col nemico
In questi mesi il Partito democratico ha rafforzato la sua identità, cioè l’identità che il gruppo dirigente di Elly Schlein ha voluto dargli. Che è quella di un partito di sinistra senza aggettivi, fortemente sensibile alle battaglie valoriali e molto determinato sui temi sociali. Il Pride di Budapest e il salario minimo potrebbero essere gli esempi più chiari delle prime e dei secondi.
È un partito che s’impegna moltissimo nelle dimostrazioni di massa. Ha animato la manifestazione per l’Europa di piazza del Popolo del 15 marzo, quella per Gaza del 7 giugno: senza il Pd non ci sarebbero state. Si è mobilitato al massimo per i referendum portando ai seggi milioni di elettori. Ha vinto molte elezioni comunali, Genova in primis, cardine di alleanze larghe.
È ben presente nelle battaglie parlamentari. Ha una leader molto riconoscibile e indiscussa all’interno del partito anche perché la cosiddetta minoranza non è in grado di sostituirla. Soprattutto, sul piano più strettamente politico, ha stretto un’alleanza saldissima con il M5S e Avs con il consenso pure di Italia viva e altre forze minori. Non è vero dunque, come alcuni dicono, che il Pd non esiste. È vero il contrario.
Così come non è corretto dire che il centrosinistra è diviso: programmaticamente l’intesa Pd-M5s-Avs sembra incarnare quasi un partito unico. E allora, perché nel Paese, tra i giovani, negli uffici, nelle fabbriche, nel mondo della cultura e dell’informazione, non si sente una corrente che evochi un’alternativa di governo credibile e ravvicinata e susciti un entusiasmo nuovo?
«Il Partito democratico non riesce a trasmettere un’immagine forte di sé», ha scritto sul Corriere della Sera Nando Pagnoncelli a commento dell’ultimo sondaggio Ipsos che dà il Pd in discesa al 21,4 per cento. E lasciamo stare se è 21,4 o 22,5 o 23,2: la dimensione è sempre quella dell’«eterno secondo». Distante dal partito di Giorgia Meloni, la Grande Antagonista che cammina spedita. Come mai questa perdurante relativa debolezza a fronte dei dati obiettivi di cui si diceva?
Mentre pare sempre più forte a livello di comuni e regioni, sembra esserci come un nuovo “fattore K” che non consente al Pd di puntare a Palazzo Chigi. Ma qual è questo male oscuro che impedisce al primo partito di opposizione di spiccare il volo verso una dimensione diversa, più di massa? Ci sono gli errori, banalmente: i referendum, per esempio. Cosa rimane di quella battaglia se non il senso amarognolo di averla, semplicemente, perduta?
Ma il punto è più di fondo. È l’assenza di una proposta generale, che è poi fatta da varie idee particolari. Il salario minimo, che peraltro non è una rivoluzione, va benissimo, ma un grande partito non si può caratterizzare su una misura giusta ma in fondo «piccola» come questa. O la sanità: bene, ma dov’è un piano dettagliato – il problema è complicatissimo – per farla funzionare?
Né basta mostrificare gli avversari – Trump, Meloni, adesso Ursula von der Leyen – per incarnare politiche alternative vincenti. È il vecchio discorso del primato della protesta sulla proposta. Il Pd non tira fuori programmi alternativi di una qualche forza persuasiva e mobilitante perché è un partito chiuso che non sa coinvolgere le forze e gli individui più di qualità che si trovano nella società, all’esterno, talora molto all’esterno, delle mura del Nazareno.
E politicamente Elly Schlein circondata dai suoi aficionados che le battono le mani non riesce ad andare oltre quelli che in tutt’altro contesto Giorgio Napolitano chiamava «i vecchi confini»: è la sinistra senza aggettivi, appunto, identitaria nelle piazze e negli slogan, dura contro gli avversari, la sinistra di «sempre e per sempre dalla stessa parte mi troverai».
Quella degli occhi di Enrico Berlinguer sulla tessera. Quella storia lì “Elly” ce l’ha in pugno, ed è giusto. Manca però l’Italia di tutti i giorni, le persone della porta accanto che non chiedono tutto e subito ma magari poco e va bene domani. Al Pd manca la concretezza del riformismo, una parola considerata compromissione con l’avversario o intelligenza col nemico.
È un «estremismo debole» fatto di chiacchiere e bandiere. E invece o si prova a sfondare di là o si muore. Se Elly Schlein non lo vuole fare, ci provi qualcun altro, nel Pd e fuori dal Pd.
Nel mondo reale ci sarebbe un sacco di gente pronta a costruire un programma di governo serio. Manca il soggetto politico. Verrebbe da dire: riformisti di tutti i partiti, unitevi. Non è un problema di lotte interne ma una questione di contenuti: che è la sfida più difficile che il Partito democratico sembra non voler giocare mai.

Pfizer non ha documentato che il 23% dei feti o neonati da donne vaccinate sia morto (open.online)
di David Puente
FACT-CHECKING

Durante un servizio del programma televisivo Fuori dal Coro, in onda su Rete 4, è stato citato un articolo del sito DailyClout secondo cui «il 23% dei feti o dei neonati di madri vaccinate è morto». Il riferimento è al vaccino anti-Covid-19 di Pfizer e si basa su un documento interno dell’azienda. Tuttavia, la narrazione è fuorviante e la citazione del contenuto di DailyClout non rappresenta affatto uno “scoop”.
Analisi
Il servizio risulta prelevato e condiviso via Facebook con testi come il seguente:
*IL 23% DEI FETI O DEI NEONATI DELLE DONNE VACCINATE CON SIERO PFIZER È MORTO. QUESTO SOLO NEI PRIMI 3 MESI. IMMAGINA IN 3 ANNI COSA È SUCCESSO IN TUTTO IL MONDO
Il servizio di “Fuori dal Coro” (Rete 4 – Mediaset – mercoledì 28 maggio 2025) sui “Pfizer Papers”, andrebbe immediatamente inviato a tutte le istituzioni: presidente della Repubblica, governo, parlamentari e alla Commissione Parlamentare d’Inchiesta COVID-19.
Sul caso è intervenuto Salvo Di Grazia, medico e ginecologo noto con il soprannome di Medbunker, in un post Facebook:
Creano un servizio TV che ne parla come un fatto assodato, intervistano un “ricercatore indipendente” (che è come dire che io sono un premio Nobel artigianale) non dicono tutto e usano il solito tono misterioso che piace tanto agli amanti delle psicosi sociali. Il 23% di donne in gravidanza hanno avuto il feto morto o con danni “terribili”. Una fake news ridicola. Parlano però di un fatto FALSO. Non è mai stato evidenziato un danno particolare dei vaccini Covid in gravidanza.

Lo “scoop” che non c’è (recuperato da un articolo del 2023)
Come spiegato dal medico e divulgatore scientifico Salvo Di Grazia, la trasmissione ha fatto riferimento a un articolo del 2023 (non del 2025) pubblicato da DailyClout, un sito già noto ai fact-checker statunitensi per la diffusione di tesi No Vax. Di Grazia sottolinea che l’interpretazione dei dati è viziata da calcoli «già strampalati di loro» e «tutti sbagliati».
Cosa dice realmente il documento Pfizer
Il documento Pfizer in questione, intitolato “5.3.6 Cumulative Analysis of Post-Authorization Adverse Event Reports“, è stato divulgato negli Stati Uniti in seguito a una richiesta FOIA (Freedom of Information Act). Si tratta di un report interno contenente dati forniti dalla farmacovigilanza, che raccoglie segnalazioni di eventi avversi post-marketing fino al 28 febbraio 2021.
Come chiarito più volte, queste segnalazioni non dimostrano un nesso causale con il vaccino, come avviene comunemente per i farmaci soggetti a monitoraggio.
Nel documento (pagina 12), sono citati 274 casi totali relativi alla gravidanza, di cui 124 di donne vaccinate. Tra queste, si sarebbero registrati 28 eventi gravi, come aborti spontanei (25) e morte fetale (1). È da questi numeri che deriva il presunto «23%» rilanciato da DailyClout, ma si tratta di segnalazioni grezze, prive di qualunque conferma di nesso causa-effetto.
Un report interno non equivale a uno studio validato
L’intera narrazione poggia dunque su dati incompleti, datati e limitati ai primi due mesi della campagna vaccinale, con un campione estremamente ridotto che non può essere considerato rappresentativo a livello globale. Inoltre, il documento non è uno studio scientifico peer-reviewed, ma un rapporto interno.
Nel suo post, Di Grazia cita invece ricerche sottoposte a revisione paritaria, che includono numeri molto più ampi. Tra queste, una meta-analisi su 21 studi condotti su 149.685 donne incinte, che non ha riscontrato alcun aumento del rischio di aborto in donne vaccinate contro il Covid.
Di Grazia cita anche uno studio pubblicato su The Lancet nel 2022 su oltre 1.000 donne, che non supporta in alcun modo la narrazione di DailyClout. Un’ulteriore pubblicazione del 2024, da lui menzionata, conclude chiaramente: «Non è stata riscontrata alcuna associazione tra la vaccinazione contro il COVID-19 e la morte fetale».
Conclusioni
Quanto riportato da DailyClout non può essere considerato come prova dell’esistenza di un rischio elevato di aborto, morte fetale o neonatale legato ai vaccini anti-Covid somministrati in gravidanza.
Referendum e contesto politico, una riflessione di Sciascia (ilfoglio.it)
Piccola Posta
Lo scrittore parla del referendum indetto dai radicali contro l’ergastolo in un’intervista pubblicata da Repubblica nel 1980. Un episodio di grande attualità
Nel 1980, in un’intervista a Laura Lilli per Repubblica, Leonardo Sciascia si rivendicò autore satirico e tutt’altro che illuminista – era satira anche quella. Disse anche, ricordando il suo vecchio racconto “La morte di Stalin”, pubblicato su Passato e presente, 1959, poi ne “Gli zii di Sicilia”, Einaudi 1960: “Capisco lo stalinista, non lo stalinismo”. Vent’anni prima aveva scritto a Calvino che nel racconto sulla morte di Stalin stava parlando anche di sé.
La sua frase sembra definire e assolvere la storia del comunismo italiano. Non poteva immaginare che rivalsa si sarebbe procurato mezzo secolo dopo lo stalinismo degli stalinisti.
In quell’intervista, Sciascia raccontò anche un episodio di grande attualità, come si dice. “Di recente una vecchietta è andata a firmare per il referendum indetto dai radicali contro l’ergastolo. E firmando ha detto: ’Che bellezza, così leviamo l’ergastolo e mettiamo la pena di morte’.
E’ chiaro che se io dovessi metterla al centro di un mio racconto non potrei prendermela con la vecchietta, dovrei prendermela con il contesto politico, culturale e così via, che ha fatto sì che la vecchietta la pensasse a quel modo”. Già: il contesto. E il referendum.

Scarti umani – Luigi Mascheroni (diario.world)




