Cultura
Marco Vallora, “Scritti. Come se la parola dipingesse”, a cura di Marcello Barison, Giorgio Agamben, Monica Ferrando, ed. Electa “Post-mortem”, il libro che Vallora rinviò all’infinito. Da Lotto e Pontormo al surrealismo, uno sfrenato, arbasiniano “only connect”, con un impegno segreto…
E’ successo a Bobi Bazlen, potrebbe capitare a Marco Vallora: la ventura di diventare un personaggio di romanzo prima che il titolare di un’opera. La sua vita estremista rappresentava, per chi la conosceva, un monito – se non un esorcismo.
Con tutto l’affetto che ispirava, ma anche con la pena e la paura che incuteva, ci si appiccicava questo post-it mentale: attenzione a non fare la fine di Marco. Malgrado fosse lontana la sua fine effettiva, e triste oltre ogni dire – di morire nell’ultimo treno a perdifiato –: quella fine, come l’entelechia divinata da Sciascia nelle foto di Pasolini, era inscritta in ogni atomo della sua personalità.
Questo livre à venir surrogherebbe il non meno fantomatico romanzo cui a quanto pare Vallora lavorò, ovviamente senza mai concluderlo, il cui «protagonista col procedere della storia si autoabolisce».
La notizia la dà Marcello Barison nell’interminabile e mimetico-stremante ma in tutti i sensi necessaria postfazione che, di questo ipotetico romanzo su Vallora, è già la sinopia; e che mette capo all’altrettanto necessario volume da lui curato (insieme a Giorgio Agamben e Monica Ferrando, ma con l’aiuto non meno prezioso di Pier Giovanni Adamo e Silvia Capodivacca) dei suoi Scritti Come se la parola dipingesse (Electa, pp. 529, € 39,00).
Nella invece stringata premessa Agamben incorona Vallora «incomparabile saggista del nostro tempo», riconducendo la «dislocazione semantica» della sua scrittura alla matrice di Roberto Longhi.
Al di là delle pur condivisibili patenti illustri, concordo piuttosto con l’«enorme» conclusione di Barison: per come si dispiega in questa generosa ma infinitesima selezione, e a dispetto di oggetti e sedi di pubblicazione, la scrittura di Vallora «non è critica d’arte». Semmai un’écriture, un mezzo senza fine, come quella a suo tempo teorizzata da Roland Barthes, maestro ideale e fratello in spirito.
Il testo più personale è quello appunto sul grande amico del quale Vallora, all’indomani della morte traumatica (non solo da lui paragonata a quella di Pasolini), tradusse il libro di svolta (dall’«avventura semiologica» al «piacere del testo»): il libro sul Giappone intitolato L’impero dei segni (e la fisionomia di Marco aveva in effetti qualcosa di «dolcemente orientale», come ha scritto Francesco Maria Colombo).
Non era quello un lavoro editoriale, bensì un «impegno interiore, quasi segreto»: assunto per continuare a «convivere» con l’amico scomparso (nello spirito del lutto agente, per la morte della madre, che a Barthes aveva dettato La camera chiara: conclusa la cui stesura poteva andare incontro alla fine – come, prima di lui, aveva confessato Proust a Céleste Albaret).
Tradurlo per «ripeterlo», non col rictus concettuale del Pierre Menard di Borges ma per ri-viverlo, all’infinito rieseguendone la partitura come faceva, Barthes, con l’adorato Schumann: per «esistere accanto all’arte senza fagocitarla» (Barison).
(Marco Vallora)
Necessario quanto paradossale, il primo libro firmato da Vallora non poteva insomma che uscire postumo. Sempre Barison riporta la scheda editoriale di un libro intitolato, à la Thomas Pynchon, L’incanto di Lotto, annunciato però nel «2099».
Su Lorenzo Lotto Vallora ha scritto pagine mirabili (quelle dalla tornitura davvero longhiana nonché bantiana, non senza un sospetto di parodia, campionate in copertina), ma anche questo non era concepibile come libro suo. Quello lo si poteva solo rinviare all’infinito – con quell’epoché trascendentale dell’opera (e della vita) che, come a un certo personaggio di Henry James, l’opera (e la vita) di Vallora se l’è mangiata (lo confessa con parole di Cocteau: «Sto sempre aspettando? Aspettare cosa? Ho dietro di me tanti ricordi di disordine, di alberghi, di biancheria sporca (…), mi pare di scivolare giù dalle Montagne Russe, solo al mondo, giù nel buio»).
Se proprio bisogna parlare di Longhi, sarà per Barison un «Loghi corretto Arbasino»: per la pratica sfrenata dell’only connect, si capisce (che, restando al solo testo su Lotto, non si perita di evocare Monteverdi Caravaggio il Serpotta, ma anche Max Jacob e Picasso e Gadda).
Ma la cultura «concitata» e sgomentevole di Vallora assomigliava piuttosto a quella da lui attribuita a Pasolini: non divertimento moltiplicatorio dell’io bensì gravame cilìceo, «manieristica gabbia soffocante». Evidente del resto la proiezione nelle pagine sul Pontormo (o sul Bronzino nell’introibo sulla «pittura come menzogna»). Solo che, rispetto alla topica tana con scala retrattile, la reclusiveness di Marco era a rovescio.
Anziché barricarsi in casa nel più saturnino contemptus mundi, ha trasformato la sua stessa casa (più d’una casa, anzi) in un luogo alienato, un deposito o meglio una discarica di libri e altri oggetti d’affezione che hanno finito per fisicamente espellere il malinconico disposofobo: condannandolo a un’esistenza raminga in «sistemazioni di fortuna, foresterie, divani e qualche volta pure stuoini di amici o conoscenti, sempre aggravato da enormi trolley carichi di libri».
Forse così sperando di scampare al destino allegorico del Kien di Canetti, o di certi ancor più tormentosi personaggi di Hrabal o Doctorow, Marco s’era insomma barricato fuori: saturando il proprio spazio vitale e rendendolo letteralmente inabitabile, come un’installazione di Arman o Büchel. Piena dei libri degli altri, si capisce: quelli che lui risolutamente non scriveva.
Questa era la paradossale formula della sua esistenza, che Barison definisce – con ossimoro perfetto – «accumulazione dissipativa». Anziché rimpinzare a dismisura l’ego, la collezione infinita era «come un togliersi per far infinitamente spazio ad altro».
L’autoritratto interminabile che è l’opera di Vallora nel suo complesso è tutto a rovescio, come quello di spalle che dipinse una volta lo Schönberg pittore dilettante (al quale ha dedicato pagine dalla pirotecnica, se possibile, più che arbasiniana: ripelliniana), o l’allusivo ritratto di Edgar James di René Magritte, La reproduction interdicte (col quale si divertiva a giocare, Marco, nell’ultima mostra da lui curata, quella di Alba sul surrealismo). E come Schönberg voleva dipingere solo occhi, un grande occhio figura nell’unico quadro che, si sappia, ha dipinto Vallora: anche quello, si capisce, un autoritratto.
L’ultimo della serie lo ricorda l’artista Luca Trevisani. In un suo allestimento al Grand Hotel et des Palmes di Palermo, in ricordo di Raymond Roussel che vi aveva fermato il suo vagabondaggio, gli chiese Marco di fotografarlo, nella stanza ominosa, nella posa del cadavere. Anche quella volta il viso non si vedeva. E anche quella foto, come tutto il resto, ora è perduta.
(Roland Barthes, “No. 159, 15 Dec ’71” – Parigi, BnF9






















































