Vallora, il critico dissipatorio conquistato da Barthes (ilmanifesto.it)

di Andrea Cortellessa

Cultura

Marco Vallora, “Scritti. Come se la parola dipingesse”, a cura di Marcello Barison, Giorgio Agamben, Monica Ferrando, ed. Electa “Post-mortem”, il libro che Vallora rinviò all’infinito. Da Lotto e Pontormo al surrealismo, uno sfrenato, arbasiniano “only connect”, con un impegno segreto…

E’ successo a Bobi Bazlen, potrebbe capitare a Marco Vallora: la ventura di diventare un personaggio di romanzo prima che il titolare di un’opera. La sua vita estremista rappresentava, per chi la conosceva, un monito – se non un esorcismo.

Con tutto l’affetto che ispirava, ma anche con la pena e la paura che incuteva, ci si appiccicava questo post-it mentale: attenzione a non fare la fine di Marco. Malgrado fosse lontana la sua fine effettiva, e triste oltre ogni dire – di morire nell’ultimo treno a perdifiato –: quella fine, come l’entelechia divinata da Sciascia nelle foto di Pasolini, era inscritta in ogni atomo della sua personalità.

Questo livre à venir surrogherebbe il non meno fantomatico romanzo cui a quanto pare Vallora lavorò, ovviamente senza mai concluderlo, il cui «protagonista col procedere della storia si autoabolisce».

La notizia la dà Marcello Barison nell’interminabile e mimetico-stremante ma in tutti i sensi necessaria postfazione che, di questo ipotetico romanzo su Vallora, è già la sinopia; e che mette capo all’altrettanto necessario volume da lui curato (insieme a Giorgio Agamben e Monica Ferrando, ma con l’aiuto non meno prezioso di Pier Giovanni Adamo e Silvia Capodivacca) dei suoi Scritti Come se la parola dipingesse (Electa, pp. 529, € 39,00).

Nella invece stringata premessa Agamben incorona Vallora «incomparabile saggista del nostro tempo», riconducendo la «dislocazione semantica» della sua scrittura alla matrice di Roberto Longhi.

Al di là delle pur condivisibili patenti illustri, concordo piuttosto con l’«enorme» conclusione di Barison: per come si dispiega in questa generosa ma infinitesima selezione, e a dispetto di oggetti e sedi di pubblicazione, la scrittura di Vallora «non è critica d’arte». Semmai un’écriture, un mezzo senza fine, come quella a suo tempo teorizzata da Roland Barthes, maestro ideale e fratello in spirito.

Il testo più personale è quello appunto sul grande amico del quale Vallora, all’indomani della morte traumatica (non solo da lui paragonata a quella di Pasolini), tradusse il libro di svolta (dall’«avventura semiologica» al «piacere del testo»): il libro sul Giappone intitolato L’impero dei segni (e la fisionomia di Marco aveva in effetti qualcosa di «dolcemente orientale», come ha scritto Francesco Maria Colombo).

Non era quello un lavoro editoriale, bensì un «impegno interiore, quasi segreto»: assunto per continuare a «convivere» con l’amico scomparso (nello spirito del lutto agente, per la morte della madre, che a Barthes aveva dettato La camera chiara: conclusa la cui stesura poteva andare incontro alla fine – come, prima di lui, aveva confessato Proust a Céleste Albaret).

Tradurlo per «ripeterlo», non col rictus concettuale del Pierre Menard di Borges ma per ri-viverlo, all’infinito rieseguendone la partitura come faceva, Barthes, con l’adorato Schumann: per «esistere accanto all’arte senza fagocitarla» (Barison).

Marco Vallora(Marco Vallora)

Necessario quanto paradossale, il primo libro firmato da Vallora non poteva insomma che uscire postumo. Sempre Barison riporta la scheda editoriale di un libro intitolato, à la Thomas Pynchon, L’incanto di Lotto, annunciato però nel «2099».

Su Lorenzo Lotto Vallora ha scritto pagine mirabili (quelle dalla tornitura davvero longhiana nonché bantiana, non senza un sospetto di parodia, campionate in copertina), ma anche questo non era concepibile come libro suo. Quello lo si poteva solo rinviare all’infinito – con quell’epoché trascendentale dell’opera (e della vita) che, come a un certo personaggio di Henry James, l’opera (e la vita) di Vallora se l’è mangiata (lo confessa con parole di Cocteau: «Sto sempre aspettando? Aspettare cosa? Ho dietro di me tanti ricordi di disordine, di alberghi, di biancheria sporca (…), mi pare di scivolare giù dalle Montagne Russe, solo al mondo, giù nel buio»).

Se proprio bisogna parlare di Longhi, sarà per Barison un «Loghi corretto Arbasino»: per la pratica sfrenata dell’only connect, si capisce (che, restando al solo testo su Lotto, non si perita di evocare Monteverdi Caravaggio il Serpotta, ma anche Max Jacob e Picasso e Gadda).

Ma la cultura «concitata» e sgomentevole di Vallora assomigliava piuttosto a quella da lui attribuita a Pasolini: non divertimento moltiplicatorio dell’io bensì gravame cilìceo, «manieristica gabbia soffocante». Evidente del resto la proiezione nelle pagine sul Pontormo (o sul Bronzino nell’introibo sulla «pittura come menzogna»). Solo che, rispetto alla topica tana con scala retrattile, la reclusiveness di Marco era a rovescio.

Anziché barricarsi in casa nel più saturnino contemptus mundi, ha trasformato la sua stessa casa (più d’una casa, anzi) in un luogo alienato, un deposito o meglio una discarica di libri e altri oggetti d’affezione che hanno finito per fisicamente espellere il malinconico disposofobo: condannandolo a un’esistenza raminga in «sistemazioni di fortuna, foresterie, divani e qualche volta pure stuoini di amici o conoscenti, sempre aggravato da enormi trolley carichi di libri».

Forse così sperando di scampare al destino allegorico del Kien di Canetti, o di certi ancor più tormentosi personaggi di Hrabal o Doctorow, Marco s’era insomma barricato fuori: saturando il proprio spazio vitale e rendendolo letteralmente inabitabile, come un’installazione di Arman o Büchel. Piena dei libri degli altri, si capisce: quelli che lui risolutamente non scriveva.

Questa era la paradossale formula della sua esistenza, che Barison definisce – con ossimoro perfetto – «accumulazione dissipativa». Anziché rimpinzare a dismisura l’ego, la collezione infinita era «come un togliersi per far infinitamente spazio ad altro».

L’autoritratto interminabile che è l’opera di Vallora nel suo complesso è tutto a rovescio, come quello di spalle che dipinse una volta lo Schönberg pittore dilettante (al quale ha dedicato pagine dalla pirotecnica, se possibile, più che arbasiniana: ripelliniana), o l’allusivo ritratto di Edgar James di René Magritte, La reproduction interdicte (col quale si divertiva a giocare, Marco, nell’ultima mostra da lui curata, quella di Alba sul surrealismo). E come Schönberg voleva dipingere solo occhi, un grande occhio figura nell’unico quadro che, si sappia, ha dipinto Vallora: anche quello, si capisce, un autoritratto.

L’ultimo della serie lo ricorda l’artista Luca Trevisani. In un suo allestimento al Grand Hotel et des Palmes di Palermo, in ricordo di Raymond Roussel che vi aveva fermato il suo vagabondaggio, gli chiese Marco di fotografarlo, nella stanza ominosa, nella posa del cadavere. Anche quella volta il viso non si vedeva. E anche quella foto, come tutto il resto, ora è perduta.

Roland Barthes, "No. 159, 15 Dec ’71", Parigi, BnF (Roland Barthes, “No. 159, 15 Dec ’71” – Parigi, BnF9

I cinque quesiti destinati a inasprire le divisioni (corriere.it)

di Massimo Franco

La Nota

Fino a qualche giorno fa l’incognita era quale sarebbe stata la percentuale dei votanti, comunque sotto il quorum del 50% più uno.

E cioè, se la sconfitta dei promotori dei cinque referendum di domenica e lunedì sarebbe stata umiliante o alla fine incoraggiante. Nelle ultime ore, alcuni esponenti delle opposizioni, come il segretario della Cgil, Maurizio Landini, mostrano ottimismo: come se gli inviti all’astensione del presidente del Senato, Ignazio La Russa, della premier Giorgia Meloni e del vicepremier Matteo Salvini avessero mobilitato di rimbalzo gli avversari.

È difficile dire se queste speranze siano solo parte della campagna referendaria. O se nascano dalla percezione di un’improvvisa reazione di un’opinione pubblica fredda da anni verso le consultazioni referendarie; e ancora più tiepida di fronte a quesiti che riguardano il mondo del lavoro e il diritto alla cittadinanza, presentati con un linguaggio tecnico tale da scoraggiare la partecipazione. Pd, M5S e Cgil additano quello che a loro avviso è un «silenzio di regime» da parte della tv di Stato sulla consultazione.

È chiaro che, se i referendum non saranno validi per non avere raggiunto la metà dei votanti, questo sarà uno degli argomenti polemici principali. Non il solo, perché la stessa scelta di Meloni e La Russa è stata considerata, per quanto legittima, istituzionalmente sgrammaticata: tanto più perché la premier ha detto che andrà ai seggi ma non ritirerà le schede. Gli avversari le hanno chiesto perché non abbia optato per cinque «no», se era contraria, e la accusano di «prendere in giro» chi vota.

Ma in passato anche forze oggi all’opposizione hanno spinto per l’astensionismo. Comunque vada, la prospettiva è quella di un’ulteriore spaccatura tra la destra di governo e le sinistre più i 5 Stelle; e la radicalizzazione delle posizioni e l’inasprimento di un clima che prepara ulteriori divisioni: si tratti di riforma della giustizia o di cambiamenti costituzionali. Ma si avverte anche un secondo fronte, interno agli equilibri delle opposizioni.

L’ex premier e commissario europeo Paolo Gentiloni, del Pd, vede «una resa dei conti nell’album di famiglia» della sinistra per via referendaria. La segretaria del Pd, Elly Schlein, vorrebbe archiviare il Jobs act voluto dall’allora premier del Pd, Matteo Renzi, oggi leader di Iv; mettere a tacere una minoranza contraria al suo movimentismo e all’asse con il M5S; e migliorare il raccordo con la Cgil per non regalarla al M5S di Conte. Schlein ha replicato a Gentiloni spiegando che «questi referendum riguardano il presente e il futuro del Paese».

Pazienza se saranno l’ennesima occasione di divisione dell’alleanza che dovrebbe opporsi a quella meloniana.

È stata eletta la migliore canzone degli anni Settanta, il grande decennio del ROCK (esquire.com)

di

Musica

Si trova in testa a una classifica dei brani più belli degli anni ’70 secondo Pitchfork.

Dal punto di vista musicale, gli anni Settanta sono stati un decennio fondativo, durante il quale sono nate icone celebrate ancora oggi. Senza sottovalutare i contributi del cantautorato, del folk, della disco music e di altri generi, si può tranquillamente affermare che quelli in questione sono stati anni grandiosi per il rock.

Per quello classico, innanzitutto, con l’affermazione di band leggendarie come Led Zeppelin, The Rolling Stones, Pink Floyd e The Who. Genesis, Yes, King Crimson e Emerson, Lake & Palmer contribuirono alle strutture complesse del progressive rock, mentre nel perimetro dell’hard rock troviamo attive band come Black Sabbath, Deep Purple e AC/DC, che getteranno le basi dell’heavy metal.

Qual è stata la migliore canzone di un decennio così importante?

La risposta arriva dal sito di musica Pitchfork, una vera autorità a riguardo, che ha prodotto una mostruosa classifica con le duecento più importanti canzoni degli anni Settanta.

La più grande canzone degli anni ’70

Led Zeppelin, Pink Floyd, The Rolling Stones: nella lista di Pitchfork ci sono tutti, ma ciò che giunge sorprendente è che nessuno di loro è in testa. Il più bel brano musicale dal 1970 al 1979 è Life on Mars? di David Bowie.

david bowie settanta

(David Bowie nel 1971 – Michael Ochs Archives//Getty Images)

Life on Mars? – si legge a supporto di questa scelta – era un ponte tra la dancehall britannica e il rock’n’roll, Judy Garland e i Beatles, l’innocenza del passato e l’utopismo del futuro. Con questa traccia, Bowie dimostrò di aver capito che le divisioni tra le epoche e tra i generi erano artificiali: per dimostrarlo, c’era solo bisogno di compiere un grande gesto unificatore, un’abile sintesi che nessuno aveva ancora mai creato fino a quel momento.

Sempre nella stessa classifica, troviamo al secondo posto Don’t Stop ‘Til You Get Enough di Michael Jackson, che per la rivista ha scandito il passaggio di questa monumentale figura del pop da star infantile icona solista. Al terzo posto c’è Marvin Gaye con What’s Going On.

Ascolta Life on Mars? di David Bowie cliccando sul box qui sotto.

L’ex Pugile che ha due nemici(corriere.it)

di Paolo Mieli

Elezioni polacche 

Brutto risveglio per i leader europei che auspicano un futuro della comunità motivato da una più decisa collocazione al fianco di Volodymyr Zelensky.

Erano andati a dormire avendo appena appreso i particolari dell’«operazione ragnatela» con la quale sabotatori ucraini grazie ai droni avevano distrutto una quarantina di aerei russi, colpendoli persino in una base siberiana.

All’alba, però, il presumibile entusiasmo dei «volenterosi» è stato spento dalla notizia che nelle elezioni presidenziali polacche il candidato della destra, Karol Nawrocki aveva battuto, sia pure d’un soffio, il ben più europeista sindaco di Varsavia Rafal Trzaskowski, uomo dell’élite prossima al primo ministro Donald Tusk. Un bel guaio. Karol Nawrocki è un ex pugile dilettante, non estraneo — secondo siti a lui avversi — ad ambienti malavitosi e, in tempi lontani, persino al traffico di escort.

Più recentemente si è appassionato di storia. Ancorché quarantaduenne, ha posizioni da ultras cattolico per quel che riguarda i diritti civili. E ha annunciato che da presidente della Repubblica le farà valere. Decisamente antipatizzante nei confronti dell’Europa, nelle ultime settimane ha ricevuto l’aperto sostegno di Donald Trump. Quanto all’Ucraina, Nawrocki, nel corso della campagna elettorale, ha concesso molto alle manifestazioni di insofferenza popolare contro i rifugiati provenienti dal martoriato Paese (due milioni di persone).

E ha dato gran peso alla scarsa disponibilità dei suoi connazionali di essere, in un futuro, arruolati come combattenti al fianco di Zelensky. Del resto, la Polonia ha un’antica diffidenza, che potremmo definire ostilità, nei confronti dell’Ucraina.

Ostilità che però non ha impedito alla Polonia di schierarsi al fianco di Kiev dopo l’invasione russa del 24 febbraio 2022. E che non si è mai trasformata in deferenza per la Russia, da Nawrocki definita tempo fa uno Stato «barbaro».

Nel Paese è ancora viva la memoria del settembre 1939 quando nel giro di diciassette giorni la Polonia fu invasa per metà (un po’ più) dai nazisti tedeschi e per l’altra metà (un po’ meno) dai sovietici. Per essere successivamente devastata nel corso della Seconda guerra mondiale. E finire poi consegnata, per un quarantennio, ad un regime dittatoriale governato per interposto personale politico da Mosca.

Il partito che ha designato Nawrocki per la corsa presidenziale, «Diritto e Giustizia» (PiS), fu fondato nel marzo del 2001 dai gemelli Lech e Jaroslaw Kaczynski già attivi, fin dagli anni Settanta, nel Comitato di difesa degli operai e in seguito nelle file di Solidarnosc. Lech Kaczynski fu consigliere di Walesa e conobbe anche il carcere.

Caduto il regime, fu sindaco di Varsavia e poi dal 2005, quando sconfisse l’attuale primo ministro Donald Tusk, fu presidente della Repubblica. Fino al 10 aprile del 2010. Giorno in cui, mentre si recava a una commemorazione del massacro della foresta di Katyn (ventiduemila ufficiali polacchi uccisi dai sovietici nel 1940), il suo aereo, in fase di atterraggio, si schiantò al suolo nella base aerea russa di Smolensk.

Assieme a lui persero la vita la moglie e novantaquattro persone di cui ottantasei esponenti di primo piano della vita politica, economica e militare polacca. Non è mai stata individuata una sola prova che dietro quell’incidente ci fosse lo zampino di Putin. Ma in Polonia fiorisce tuttora una storiografia che per vie traverse riconduce il tragico accaduto a trame moscovite.

Jaroslaw, dopo la morte del fratello, provò, per un breve periodo, a prendere il suo posto. Ma quando comprese di non avere lo stesso carisma di Lech e la sua stessa capacità di attrarre voti, si ritirò in un ruolo di secondo piano. Di secondo piano sì, ma pur sempre di primaria influenza all’interno del PiS.

Ed è stato lui che, pur costretto a sopportare qualche borbottio nel proprio entourage, ha scelto l’«esterno» Nawrocki perché corresse per il prestigioso incarico di presidente della Repubblica. Raccontano che l’abbia individuato per il fatto che, come saggista e come presidente dell’Istituto della memoria nazionale, Nawrocki si è dedicato con passione ai crimini commessi in Polonia nel corso della Seconda guerra mondiale e del successivo regime comunista.

Questo per dire che «Diritto e Giustizia» resta un partito doppiamente vaccinato nei confronti di Mosca. Fu nella consapevolezza di queste caratteristiche che, nel febbraio del 2023, l’ex presidente degli Stati Uniti Joe Biden scelse il Castello di Varsavia per pronunciare il suo discorso più impegnativo in difesa di Zelensky. All’epoca alla presidenza della Polonia c’era Andrzej Duda e alla guida del governo Mateusz Morawiecki.

Due uomini del PiS (Morawiecki ha poi preso il posto di Giorgia Meloni alla guida dei Conservatori europei). Ragion per cui anche se si dà per scontato che Nawrocki si metterà di traverso a Tusk assai più di quanto già fece Duda e che, nella postura pubblica, cercherà in ogni modo di imitare Trump, perfino dai suoi avversari è considerato assai improbabile che segua poi le orme di Trump lungo sentieri che conducono a sotterranee intese con Putin.