“La famiglia naturale non esiste”: la sociologa Chiara Saraceno spiega perché (adnkronos.com)

“La famiglia naturale non esiste”: è questo il 
punto fermo della sociologa Chiara Saraceno, 
intervenuta lo scorso fine settimana al Festival 
Nobìlita di Reggio Emilia, dedicato alla Cultura 
del Lavoro.

Al centro del suo speech, il rapporto tra lavoro e famiglia, le trasformazioni culturali in atto e la ricerca di nuovi equilibri sociali.

Per famiglia naturale, o tradizionale che dir si voglia, si intende quella formata da una coppia eterosessuale legata da matrimonio, con una netta distinzione nei ruoli di genere e votata alla procreazione.

Un modello che non esiste, spiega l’esperta, ma che fatichiamo a “lasciar andare” perché è “come pensiamo di concepirla da sempre”: una tendenza non solo italiana dovuta al fatto che “la prima dimensione che conosciamo venendo al mondo è proprio quella familiare. È al suo interno che impariamo cosa sia una relazione. Ed è per quello ci sembra ‘naturale’.

Tanti modelli di ‘famiglia’

Ma dire che la famiglia naturale non esiste non significa negare la legittimità di questa forma di legame umano. Significa piuttosto riconoscere che non è un modello unico né universale: la storia e l’antropologia ci mostrano infatti che le società umane hanno sempre creato una grande varietà di forme familiari, e che perfino all’interno della stessa civiltà il concetto è cambiato ripetutamente, adattandosi ai contesti e ai bisogni del momento.

Per fare un esempio, secondo Saraceno anche l’idea – che ci sembra ovvia – che la famiglia debba basarsi sull’amore e sulla libera scelta degli individui è, in realtà, recente. Non era così fino a poco tempo fa nemmeno in Occidente, e in molte culture del mondo non lo è ancora oggi. Senza contare le profonde differenze legate al contesto sociale: la famiglia del proletariato, ad esempio, è sempre stata molto diversa da quella della nobiltà, sia nelle dinamiche che nei significati.

Dunque, dire che “la famiglia non è naturale non vuol dire che è contro natura; vuol dire che anche quella che pensiamo essere la famiglia naturale non sta nella natura, altrimenti vorrebbe dire che nella maggior parte della storia le persone si sono aggregate in famiglie contro natura”.

Un’invenzione culturale

Piuttosto è il diritto a dire cosa sia e non sia natura. “La famiglia naturale è un’invenzione culturale”, afferma Saraceno nel suo ultimo libro “La famiglia naturale non esiste”. E allora come si formano queste ‘invenzioni’?

Sedimentandosi nelle pratiche, nei rapporti con le religioni e i regolamenti degli Stati, dove ci sono, e con le necessità del tempo”, ha spiegato la sociologa dal palco di Nobìlita. Nello specifico, “ciò che definisce l’appartenenza o meno alla famiglia cambia nel tempo”, sottolinea l’esperta ricordando che “per molto tempo, in modo diverso a seconda della società, ciò che ha definito i confini della famiglia è stata la filiazione: decidere di chi sono i figli, a chi appartengono. Da questa necessità in diverse società è derivata l’esigenza di controllare la fecondità femminile”.

Un esempio di come sia il diritto, e dunque un dato culturale, a decidere cosa sia famiglia e cosa no, la sociologa nel suo intervento ha ricordato “un fatto che oggi sembra assurdo: in Italia fino al 1975 i figli nati fuori dal matrimonio erano illegittimi (una parola violenta: non avevano diritto a nascere)”. Quindi, ha sottolineato, “non era la natura che fondava la famiglia. Si è dovuto attendere fino al 2012 per ottenere che non ci fosse più distinzione”.

A dimostrare la varietà storica del concetto di famiglia, Seraceno rammenta che “l’Europa è l’unico posto al mondo in cui da molto presto è prevalsa la famiglia monogamica seriale (una sola moglie per volta). In altre parti del mondo hanno prevalso per molto tempo le famiglie poliginiche (presenti anche nella Bibbia)”. Eppure “in questo spazio europeo diverse modifiche a questa norma, come la convivenza prematrimoniale o le coppie omosessuali, sono state recepite prima”.

Il matrimonio sparirà?

Ma arriveremo a “sacrificare il vincolo”, e dunque ad abolire il matrimonio e, in prospettiva, perfino la coppia? Per la sociologa già il termine ‘sacrificio’ richiama un debito che non potrà mai essere saldato, come sanno tutti coloro che si sono sentiti dire dai genitori e dai nonni che si sono sacrificati per loro.

Se qualcuno sacrifica se stesso per una relazione, la contropartita non sarà mai sufficiente. Che cosa può mai rispondere un figlio a un genitore che dice “mi sono sacrificato per te”? Dovrebbe dargli la propria vita in cambio. Anche questa è una relazione. Mi piace più l’idea che una relazione sia una responsabilità, un lavoro”.

Ecco perché per Saraceno dovemmo valutare forme di relazione e legami basati sulla responsabilità, sui principi di libertà, uguaglianza e dignità personale, oltre alla cura reciproca: peraltro tutti criteri anch’essi soggetti a cambiamenti storico-sociali.

La famiglia come ambito di lavoro non remunerato

Tra questi c’è il lavoro, perché “la famiglia c’entra, con il lavoro, moltissimo“, afferma Saraceno chiarendo che non è solo una questione di come le politiche sull’occupazione impattino sulle donne e di rimando sui tassi di fecondità di un Paese, ma “innanzitutto perché la famiglia è un ambito di lavoro non remunerato” che “anche se molto spesso si concretizza sotto il velo dell’amore” non è comunque “meno lavoro”.

“Di questo lavoro non solo non se ne riconosce sempre il valore, ma diventa un vincolo alla professione remunerata, soprattutto per le donne, specie in Italia, dove c’è ancora più squilibrio fra uomini e donne nel lavoro familiare (che però diminuisce se entrambi nella coppia lavorano, sebbene mai sotto la soglia del 70-30%). Non ci sono solo disuguaglianze tra uomini e donne nel mercato del lavoro, ma anche disuguaglianze tra donne quando varia il livello di istruzione o si hanno figli piccoli; disuguaglianze consistenti, di cui non si parla abbastanza”, avvisa Saraceno.

Che continua: “La famiglia è uno snodo importante. Già anni fa Massimo Paci, un sociologo economico, notava che è l’impostazione familiare a decidere chi va a lavorare e a quali condizioni. La famiglia non è solo un luogo di socializzazione, di affettività, come di violenze e di odi: è anche un’istituzione economica (e di ridistribuzione economica)”, per quanto non ci faccia piacere vederla così.

Il rischio per i giovani non è l’individualismo

E il concetto di responsabilità andrebbe declinato anche sui giovani, che secondo Saraceno non sono poi così individualisti come spesso gli adulti li dipingono: “Entrano in rapporti di coppia prestissimo, sembra che non possano starne senza, e poi fanno fatica a essere autonomi al loro interno – soprattutto i maschi”.

Ecco allora che il rischio maggiore è legato a questa dimensione delle relazioni, che sfocia nel controllo (e in casi di femminicidio precoci), piuttosto che all’individualismo.

Una ricerca di Save the Children, ricorda la sociologa, mette in luce un dato preoccupante “oltre il 30% degli adolescenti, maschi e femmine, ritiene normale geolocalizzarsi con il cellulare e controllare il telefono dell’altro. Direi che è più importante questo rischio, rispetto all’individualismo”.

(Nella foto: Chiara Saraceno al Festival Nobilita (Credits Domenico Grossi/Nobilita))

“La famiglia naturale non esiste”: la sociologa Chiara Saraceno spiega perché

Il referto trapelato su Imane Khelif non dimostra che è un uomo: cosa dice la scienza (open.online)

di David Puente

FACT-CHECKING

La scienza ricorda, da decenni, che diverse condizioni possono portare a uno sviluppo femminile già in fase embrionale nonostante un corredo cromosomico XY

Circola online, ripreso anche da alcuni media, un referto medico che viene attribuito a Imane Khelif, il quale riporta un’analisi cromosomica con risultato 46,XY. Il test, intestato al Dr. Lal PathLabs di Nuova Delhi, indica la presenza di un “cariotipo maschile” su 30 cellule della puglile analizzate.

Il documento è reale? Non c’è conferma ufficiale da parte del laboratorio o dalla stessa Khelif. Si potrebbe trattare della prova definitiva per sostenere che sia un uomo? No, lo avevamo già spiegato in passato. Inoltre, basta leggere il documento per comprendere che non riporta con certezza l’effettiva e totale condizione della pugile che fin da piccola, in un Paese come l’Algeria, è stata identificata e riconosciuta alla nascita come femmina.

Il documento genetico: cosa dice davvero e cosa no

L’esito del test, attribuito nel documento a Imane Khelif, riporta che le cellule analizzate possiedono i cromosomi XY. Il laboratorio chiarisce che non sono state osservate anomalie cromosomiche numeriche o strutturali macroscopiche, ma aggiunge che il test non rileva microdelezioni o mutazioni genetiche più sottili, che potrebbero essere alla base di alcune condizioni note come DSD, tra cui rientrano varie forme di intersessualità.

Dunque, il referto non “smaschera” alcun imbroglio o complotto sulla vicenda di Khelif. Di fatto, il documento riporta un dato genetico (XY), ma non dichiara che Khelif sia un uomo e non basta per sostenerlo (come spiegato qui).

Al contrario, lo stesso laboratorio invita espressamente ad effettuare una “correlazione clinica” («Results to be clinically correlated»), ovvero una valutazione medica completa che potrebbe considerare anche l’anatomia, gli ormoni ed eventuali sindromi genetiche.

Cosa dice la scienza sul corredo 46,XY e il sesso

Come già spiegato in precedente articolo, possedere un corredo cromosomico XY non equivale automaticamente a essere uomo. Esistono condizioni genetiche rare, come la sindrome da insensibilità agli androgeni (AIS), in cui una persona con cromosomi XY si sviluppa come donna.

All’interno del portale Info Intersex dell’Istituto Superiore di Sanità, nella sezione “Variazioni delle Caratteristiche del Sesso/Differenze dello Sviluppo del Sesso“, leggiamo che «lo sviluppo delle caratteristiche del sesso di ognuno di noi è il risultato di una complessa interazione tra i cromosomi (strutture formate da DNA e proteine contenute in ogni cellula) e gli ormoni (molecole – proteine o steroidi – prodotte dalle ghiandole endocrine e rilasciate nel sangue)».

Si tratta di conoscenze note da oltre un decennio, come riportato in un articolo de Le Scienze del 2007 dal titolo «Non solo i cromosomi stabiliscono il sesso».

Come spiegato in una pubblicazione realizzara dal Dott.Antonio Balsamo (pediatra, endocrinologo esperto in differenze dello sviluppo del sesso), Silvano Bertelloni (pediatra), Franco D’Alberton (pediatra) e Giacinto Marrocco (chirurgo pediatrico), ci sono diverse condizioni che possono portare a «uno sviluppo sessuale diverso da quello atteso in base al cariotipo di partenza».

Infatti, «chi si occupa di “differenze dello sviluppo del sesso” sa che alcune persone si trovano a cavallo, nel senso che i loro cromosomi sessuali affermano una cosa, ma le loro gonadi (ovaie o testicoli) ne dichiarano un’altra».

La Società Italiana di Endocrinologia (SIE) ha ribadito, in un post del 2024 durante le polemiche contro Imane Khelif, che in certe condizioni, pur essendo geneticamente XY, l’organismo non risponde agli ormoni maschili, portando a uno sviluppo femminile già in fase embrionale.

Per questo motivo, alla nascita, il genere attribuito è quello femminile. Detto questo, Imane Khelif potrebbe possedere i cromosomi XY, ma questo la avvantaggia sportivamente? La SIE sottolinea che non vi è alcuna evidenza scientifica riguardo vantaggi sportivi attribuibili in queste condizioni.

Intersex, alcuni casi noti

Non è la prima volta che un’atleta con cromosomi XY compete in discipline femminili. Maria José Martínez Patiño, ostacolista spagnola, fu esclusa dalle gare perché risultata 46,XY, salvo poi essere riammessa dopo aver dimostrato di essere affetta da sindrome da insensibilità agli androgeni (AIS), senza ottenere successi.

Esistono anche casi noti nel mondo della moda. La top model belga Hanne Gaby Odiele, ad esempio, ha rivelato pubblicamente di essere nata con sindrome da insensibilità agli androgeni, quindi con cromosomi XY ma corpo femminile in tutto e per tutto.

Tornando a Imane Khelif, se il referto medico, trapelato senza il suo consenso e ormai finito in pasto ai suoi detrattori, non risultasse falso e confermasse un corredo cromosomico XY, la sua condizione potrebbe essere assimilabile a quella di molte altre persone intersex. La pugile dovrebbe sottoporsi a ulteriori controlli per conoscere la sua eventuale condizione.

Considerando quanto riportato in questo articolo, Imane Khelif non potrebbe essere identificata come “uomo” né accusata di aver mentito sul proprio sesso fin da piccola.

Atenei Usa, tagli (e danni) (corriere.it)

di Milena Gabanelli e Giuseppe Sarcina

L’attacco di Donald Trump alle università 
americane, con tagli per dodici miliardi di 
dollari, sta mettendo a rischio sessanta atenei. 

La più colpita è Harward, che si è vista congelare i fondi per mille ricercatori. A catena saltano gli studi per le cure mediche e si perdono migliaia di posti.

L’offensiva di Donald Trump ha già investito 60 università americane, e tagliato i fondi (o minacciato di farlo) a sette atenei privati. Eccoli: Harvard, Brown University, Columbia, Cornell, Northwestern University, The University of Pennsylvania, Princeton. Ma nel mirino ci sono altri importanti istituti del Paese come Georgetown, Johns Hopkins, Berkeley, The University of Southern California.

Nel complesso, tra i fondi congelati e quelli a rischio, parliamo di finanziamenti per 12 miliardi e 80 milioni di dollari. La gran parte dei tagli tocca, come vedremo, proprio il sistema Harvard, che comprende l’università e 15 ospedali tra i quali il Mass General Brigham, il Dana Farber Cancer Institute e il Boston Children’s Hospital. Tre centri medici di riconosciuta eccellenza a livello mondiale. Ma l’inedito e violento attacco si inserisce in un contesto molto chiaro.

Via 18 miliardi al Nih

Appena rientrato alla Casa Bianca, Trump ha chiesto alla Segretaria per l’Educazione, Linda McMahon, di preparare un piano di drastiche riduzioni di spesa, con l’obiettivo di arrivare alla chiusura del Dipartimento, devolvendo ai singoli Stati e alle comunità locali quelle competenze sulle scuole di ogni ordine e grado rimaste in carico al governo federale.

Il grosso della spesa è già decentrato: nel 2025 il bilancio federale ha stanziato 207 miliardi di dollari, mentre la spesa degli Stati ha raggiunto i 518 miliardi, e quella delle istituzioni locali i 1.197 miliardi. Il bilancio generale per il 2026 prevede enormi sforbiciate anche per i grandi centri di ricerca. Già lo scorso febbraio tagliati il 37% dei fondi, cioè 18 miliardi su 48, destinati al Nih, il National Institutes of Health, il più grande centro di ricerca biomedicale del mondo che alimenta una rete di circa 2.500 laboratori e istituti, con 300 mila scienziati e 600 borse di studio destinate all’attività di ricerca di Harvard.

Nel 2020 il ruolo del Nih fu decisivo per approntare i vaccini anti-Covid, con la supervisione di Anthony Fauci. Attenzione, però. Le ragioni economiche e contabili si intrecciano strettamente con motivazioni ideologiche: al Nih si rimprovera, tra le altre cose, «di aver promosso una radicale ideologia di genere a detrimento della gioventù americana».

La politica punitiva

Nei documenti ufficiali presentati dall’Amministrazione al Congresso si legge che nelle scuole bisogna togliere spazio alle «ideologie della sinistra radicale»; mentre l’offensiva contro le università è uno dei capitoli più importanti della politica punitiva, revanscista contro la ricerca, la scienza, accusate di essere portatrici di «ideologie radicali e divisive».

Il fattore scatenante è stata l’onda di manifestazioni e occupazioni contro i bombardamenti indiscriminati su Gaza, soprattutto alla Columbia e ad Harvard, che a sua volta ha suscitato le critiche dei conservatori e di parte della comunità ebraica. L’11 aprile scorso la Commissione federale contro l’antisemitismo ha inviato una lettera al presidente di Harvard, Alan Garber, rinfacciando all’ateneo di «non aver rispettato i diritti civili e intellettuali necessari per giustificare un finanziamento pubblico», consentendo la diffusione di pregiudizi e stereotipi contro la comunità ebraica.

Il Dipartimento per la Sicurezza Interna ha chiesto all’Accademia di fornire i dati personali degli studenti stranieri per «verificare che non vi siano soggetti che appoggino il terrorismo o l’antisemitismo» o che abbiano partecipato a manifestazioni di protesta, dentro o fuori il campus.

Harvard non cede

Alan Garber, 69 anni, medico ed economista, ebreo, ha difeso l’autonomia dell’ateneo e respinto le richieste. A quel punto è partita l’escalation: diversi dipartimenti dell’Amministrazione hanno subito congelato 2,4 miliardi di fondi utilizzati per finanziare circa mille ricercatori impegnati in settori cruciali: medicina, biochimica, fisica quantistica, quantum computing, intelligenza artificiale e altro. Inoltre è stata avanzata la pretesa di controllare i criteri di assunzione dei docenti e di ammissione degli studenti.

Il presidente dell’ateneo si è rivolto al Tribunale federale invocando la difesa della libertà di pensiero, sancita dal Primo emendamento della Costituzione, e il giudice Allison Burroghs ha sospeso il provvedimento. Trump ha alzato ancora il livello dello scontro: chiesta la sospensione del visto a 6.800 studenti stranieri, e il 26 maggio ha minacciato di decurtare altri 3 miliardi, da girare alle trade schools , gli istituti professionali.

Saltano le ricerche scientifiche

Alla Cornell University è stato congelato un miliardo di fondi. In un comunicato ufficiale l’ateneo ha fatto sapere di aver ricevuto la disdetta per 75 contratti con il dipartimento della Difesa relativi «a ricerche profondamente significative per la difesa nazionale americana, per la cybersecurity e per il settore sanitario».

In concreto si tratta di ricerche sul cancro, progetti sui motori dei jet, sui materiali super conduttori e sulle tecnologie di comunicazione satellitare. Alla Northwestern University i funzionari trumpiani hanno annunciato un taglio di 790 milioni di dollari. Ma finora non è arrivata una notifica formale. In ogni caso, fanno sapere dall’Istituto, i fondi federali «trainano le sperimentazioni sui minuscoli pacemaker e la ricerca sull’Alzheimer». Filoni che ora sono a rischio.

Blocco delle assunzioni

Alla Brown University dovrebbero essere decurtati 510 milioni; significa il blocco della costruzione già iniziata di un grande laboratorio dedicato alla biologia e altre scienze. The University of Pennsylvania teme di perdere 175 milioni di dollari. Al momento sono attive 596 linee di finanziamento con il dipartimento della Difesa e quello della Sanità.

I contratti più importanti, e ora più a rischio, sono quelli destinati al Center for Aids Research at the Perelman School of Medicine, affiliato all’università. Potrebbero essere compromesse anche le ricerche condotte per conto del Pentagono sulle «reazioni dei militari impegnati in missioni condotte in ambienti ostili, come disastri naturali o attacchi terroristici». Dimezzati i fondi per Princeton: via 210 milioni sui 455 versati nel 2024. I vertici dell’ateneo hanno già annunciato il blocco delle assunzioni per ogni funzione.

Licenziati 180 ricercatori

Infine, la Columbia University. L’istituto di New York ha deciso di soddisfare le richieste dei trumpiani, pur di riavere indietro i 400 milioni di fondi pubblici, bloccati nelle scorse settimane. La questione è ancora in sospeso, nonostante l’impegno a rafforzare le misure di sicurezza interne, la disponibilità a identificare i partecipanti alle manifestazioni nel campus, vietando a chi protesta di coprirsi il volto e assumendo 36 guardie private per evitare disordini.

Inoltre, il dipartimento di Studi sul Medio Oriente, l’Asia del Sud e l’Africa verrà gestito da una nuova figura, un vice-rettore, che avrà il compito di rivedere i programmi dei corsi, con «equilibrio e imparzialità», predisponendo i «necessari aggiustamenti accademici».

L’università, che nel 2024 aveva investito 1,1 miliardi ricevuti dalle casse federali nel campo della ricerca medica, biochimica, ambientale e anche in studi legali, ha deciso di licenziare 180 ricercatori. Sono a rischio progetti legati alle applicazioni dell’AI sulle cure mediche, le terapie basate sulle trasfusioni di sangue, la ricerca sui fibromi uterini.

I privilegiati sono sempre gli altri

La battaglia trumpiana è presentata all’opinione pubblica anche come una rivolta contro la cultura elitaria, barricata a difesa dei propri privilegi. Alle prestigiose università della Ivy League si rimprovera di aprire le porte non solo ai più ricchi, ma anche ai più raccomandati, ovvero ai figli degli ex alunni e dei facoltosi donatori. Il che è vero.

Per esempio Charles Kushner versò 2,1 milioni di dollari ad Harvard e, in cambio, suo figlio Jared fu iscritto ai corsi, anche se i suoi test di ammissione erano largamente insufficienti. Jared Kushner è il marito di Ivanka Trump, e genero del presidente.

REFERENDUM SUL LAVORO/ Le ragioni per bocciarli non andando a votare (ilsussidiario.net)

di Massimo Ferlini

Dei cinque referendum dell'8-9 giugno ben quattro 
riguardano il lavoro.

E sembra meglio bocciarli non andando a votare

Seconda domenica di giugno e appuntamento elettorale. Si vota per il secondo turno delle amministrative in molti comuni, ma soprattutto è il weekend della sfida referendaria.

La chiamata alle urne riguarda 5 quesiti. Quattro sui temi del lavoro per cui ha raccolto le firme la Cgil e uno sulla cittadinanza per i giovani figli di coppie di immigrati nati in Italia ma con nazionalità di origine legata alla famiglia.

Quest’ultimo referendum si propone di ridurre il periodo dopo il quale è possibile fare domanda per il riconoscimento di italiano da 10 a 5 anni. Vi è un largo consenso intorno a questa proposta e il silenzio, con un po’ di vergogna, di quanti ritengono che si possa proseguire con norme che penalizzano giovani che hanno più dimestichezza con le nostre regole di quelle del Paese a cui dovrebbero fare burocraticamente riferimento.

Molto più acceso il dibattito sui quattro quesiti che riguardano il lavoro. Le proposte avanzate dalla Cgil riguardano due temi riferibili in senso lato al Jobs Act. Una relativa ai licenziamenti relativi a lavoratori assunti con contratti a tutele crescenti e l’altra sull’indennità di licenziamento ingiustificato nelle Pmi. Terzo tema riguarda i contratti a termine e punta a renderli più difficili estendendo l’obbligo di causale. Infine, l’ultimo quesito estende la responsabilità del committente nel caso di incidenti sul lavoro rispetto a tutte le imprese coinvolte.

La campagna di propaganda dice che sono referendum contro il Jobs Act, ma in realtà questa è la prima di tante mistificazioni che reggono questa iniziativa. I contratti a tutele crescenti sono stati limitati dagli interventi della Corte costituzionale e l’eventuale prevalere del Sì restaurerebbe una situazione delle norme Fornero con meno tutela economica e meno categorie di lavoratori (i dipendenti di partiti e sindacati!) tutelati.

L’estensione alle Pmi di oneri che nemmeno il vecchio Statuto dei lavoratori prevedeva sarebbe un danno alla crescita di molte imprese e si risolverebbe in un aumento dei contenziosi. Interessante per gli avvocati del lavoro, meno per imprese e lavoratori.

L’accusa di estensione dei contratti a termine riguarda una misura introdotta dal Governo giallo-verde ed è in controtendenza con la realtà. I contratti a termine stanno diminuendo da soli soprattutto per il mismatching di competenze esistente sul nostro mercato del lavoro.

E, infine, l’estensione di responsabilità a tutti i committenti di lavori crea una situazione ingestibile coinvolgendo piccole imprese che non hanno strutture di controllo come le grandi che sono in grado di gestire i vari passaggi. Sarebbero più difficili i controlli e servirebbe subito un intervento legislativo.

Queste le ragioni di merito per dire comunque No a quanto proposto. Ma le ragioni principali stanno nella mistificazione con cui vengono presentate le motivazioni che stanno alla base della volontà referendaria. Secondo chi appoggia le richieste della Cgil, i referendum sarebbero utili per colpire il lavoro precario da cui derivano anche i bassi salari italiani.

Insomma, sarebbe l’intervento risolutivo per correggere le disfunzioni del nostro mercato del lavoro. Essendo coinvolte le stesse manine dell’abolizione della povertà adesso, votando anche contro una misura voluta da loro, si può abolire il precariato.

Da quando sul balcone di palazzo Chigi è stata annunciata la fine della povertà Istat ne documenta una costante crescita. Pare lo stesso stia capitando alla Cgil. Lancia la lotta contro precari e contratti a termine e questi diminuiscono da soli senza aspettare i risultati dei referendum. E ciò che funziona di più sul mercato del lavoro è grazie al Jobs Act e non contro.

Si sa che la realtà è testarda e non è manipolabile con l’ideologia. Come ben illustrato ancora pochi giorni fa dal Governatore della Banca d’Italia, l’occupazione continua a crescere, ma ciò avviene con una diminuzione del prodotto. Ossia la produttività continua a diminuire. L’occupazione è trainata dalla crescita dei contratti a tempo indeterminato, le ore lavorate sono in aumento, il part-time involontario è in diminuzione. Il precariato è presente in maniera massiccia nella Pa e non è problema di contratti ma di concorsi e spesa pubblica.

Non va tutto bene. Il precariato giovanile è dovuto all’abuso di tirocini e stages che non sono contratti di lavoro, ma un modo per sottopagare l’avvio al lavoro di troppi giovani. Il part.time involontario nasconde troppo spesso un contratto di lavoro in grigio con una sola parte del tempo di lavoro coperta da contratto regolare.

La questione dei salari è poi ormai tema all’ordine del giorno perché oltre a essere fonte di diseguaglianze crescenti diventa limite alla crescita della domanda incidendo sulla crescita economica necessaria per l’equilibrio macroeconomico.

Vi è una situazione del mercato del lavoro per cui le aziende sono impegnate a trattenere presso di sé i lavoratori con le competenze necessarie per affrontare la sfida della digitalizzazione e combattere il mismatching di competenze. I giovani lavoratori premono poi per una maggiore partecipazione alle scelte sia per la propria crescita professionale che per la condivisione del contributo sociale che possono dare con il loro impegno nell’impresa.

Insomma, referendum che esprimono una visione del lavoro antagonistica e una realtà del lavoro che chiede partecipazione, crescita dei salari medi e produttività. Fare vincere il futuro del lavoro è quindi respingere le proposte che guardano al passato.

P.S.: Non voglio però esimermi dal dire cosa farò. Io non parteciperò al voto. È scelta che non corrisponde al mio solito comportamento che ha sempre avuto un forte rispetto per il diritto di voto. Nel caso del referendum, essendoci il quorum, anche il non voto è un voto come ampiamente spiegato da autorevoli costituzionalisti.

In più in questo caso i proponenti del referendum, capito che il merito dei quesiti non era convincente, hanno trasformato il dato della partecipazione come elemento di successo indipendentemente dal voto Sì o No. Allora l’unico modo per dire chiaramente che è una cultura del lavoro sbagliata quella di chi ha pensato alla campagna referendaria è non partecipare al voto. Così è chiaro che si è per tutelare il lavoro del futuro.

A Roma i comunisti attaccano Pd, M5s e Avs sulla Palestina: “Dov’erano fino a oggi?” (ilfoglio.it)

 I manifesti

Alla vigilia della manifestazione di domani, il Fronte Comunista e il Fronte della Gioventù Comunista hanno affisso diversi striscioni contro il centrosinistra: “Non hanno alcuna credibilità di fronte agli sviluppi drammatici della situazione a Gaza e in Cisgiordania”

Nelle prime ore della mattina a Roma un gruppo di militanti del Fronte Comunista (FC) e del Fronte della Gioventù Comunista (FGC) ha affisso diversi striscioni per la città di Roma, uno dei quali a Piazzale Ostiense, luogo simbolo delle manifestazioni cittadine pro-Palestina.

Su di essi è raffigurata la devastazione della striscia di Gaza e riportata la citazione di una poesia di Bertolt Brecht: Al momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il nemico, insieme alla scritta “PD, AVS e M5S dov’erano fino ad oggi?”.

Gli striscioni, firmati dalle due organizzazioni comuniste, fanno riferimento alla manifestazione di sabato 7 giugno, convocata dai partiti del centro-sinistra sul tema della Palestina.

Il comunicato diffuso dalle due organizzazioni spiega le ragioni di questa presa di posizione: “Le forze politiche promotrici della manifestazione di domani non hanno alcuna credibilità di fronte agli sviluppi drammatici della situazione a Gaza e in Cisgiordania. Dopo oltre 20 mesi di genocidio, in cui PD, M5S e AVS hanno in più occasioni espresso appoggio a Israele e condannato la resistenza palestinese, questa iniziativa, oltre ad essere tardiva, mostra tutta l’ipocrisia del centro-sinistra”.

La nota prosegue soffermandosi sulle responsabilità dei partiti promotori della manifestazione: “L’operazione propagandistica del centro-sinistra appare chiara: cercare di cavalcare il sentimento di sdegno per il genocidio del popolo palestinese che da mesi sta animando gran parte della popolazione italiana. Il dramma che sta avvenendo oggi in Palestina non viene dal nulla, ma ha radici profonde ed è il risultato di oltre 75 anni di colonialismo sionista.

Non dimentichiamo che  questi partiti non hanno mai messo in discussione i rapporti tra Italia e Israele  promuovendo la cooperazione militare, tecnologica, politica ed economica – quando erano al governo, né hanno mai messo in discussione l’adesione dell’Italia alle alleanze imperialiste (NATO e UE)  che sostengono apertamente le politiche israeliane.

Non a caso proprio sotto i governi Conte, compreso quello frutto dalla coalizione PD-M5S-LeU, si è registrato un notevole aumento di esportazioni di armi verso Israele. Grazie anche al centro-sinistra, oggi l’Italia si attesta come terzo fornitore al mondo dopo USA e Germania”.

Conclude la nota: “Non ci berremo la propaganda di PD, M5S e AVS! Facciamo appello a quanti scenderanno genuinamente in piazza domani e a chi si è mobilitato in questi anni contro il genocidio palestinese: non lasciamo che alla nostra testa marci il nemico! Non consentiamo a chi oggi si finge paladino della causa palestinese, ma è pronto a tradire nuovamente la Palestina e il suo popolo pur di governare il paese nel nome degli interessi di profitto di padroni e grandi imprese, al pari del governo Meloni. Non perdoneremo nulla a governo e finta opposizione! Sono stati e rimangono complici del genocidio”.