Quelli che accusano gli ucraini di voler scatenare una guerra nucleare (linkiesta.it)

di

La Linea

Logica putiniana

Mentre la Russia continua a bombardare e uccidere civili nelle città ucraine, in Italia giornali e tv accusano Kyjiv di avere irresponsabilmente messo fuori uso alcuni degli aerei usati per bombardarli.

Mentre la Russia continua, come ogni giorno da oltre tre anni, a bombardare e uccidere civili nelle città ucraine, in Italia giornali e tv accusano gli ucraini di avere irresponsabilmente messo fuori uso alcuni degli aerei usati per bombardarli.

Sembra una barzelletta di cattivo gusto, ma è esattamente quello che ha detto ieri a Piazzapulita Jeffrey Sachs e che scrive oggi il generale Fabio Mini sul Fatto quotidiano, sotto l’ineffabile titolo «Kiev irresponsabile, ci mette a rischio».

Il gioco ormai è diventato fin troppo scoperto, per non dire ridicolo: quando è la Russia ad avanzare, è la prova che l’Ucraina non è in grado di resistere e dunque farebbe meglio ad arrendersi subito; quando invece Kyjiv dimostra di sapere resistere e contrattaccare, è la prova che vuole scatenare una guerra nucleare e quindi, tanto più, dovrebbe arrendersi e dare subito a Putin tutto quel che vuole.

Come si vede, si tratta di un singolare schema argomentativo, dal quale si ricava sempre la stessa conclusione, anche a partire da premesse opposte.

Chissà come mai.

Dove ci porta il referendum sul Jobs act (lavoce.info)

di

I tre quesiti sul lavoro partono dal presupposto 
che il Jobs act abbia abbattuto le tutele dei 
lavoratori. 

I dati dicono però che non è così.

Precarietà e una più precisa regolamentazione dei rapporti di lavoro sono temi da affrontare, ma in altro modo.

Prima del Jobs act

Il primo quesito referendario, relativo al ripristino dell’art. 18, propone un parziale ritorno, per i lavoratori delle imprese con più di 15 dipendenti, alla “tutela reale” (reintegra sul posto di lavoro), come modificata da leggi successive (Monti-Fornero del 2012) e da interventi della Corte costituzionale.

Data l’aleatorietà del costo effettivo del licenziamento (se illegittimo), la normativa pre-Jobs act aveva un ben noto e riconosciuto effetto deterrente: che però si riversava, oltre che sui licenziamenti, anche sulle assunzioni a tempo indeterminato e sui processi di crescita delle imprese, trattenute sulla soglia dei 15 dipendenti.

La convinzione sottesa alle esigenze di riforma affermatesi nel 2015, a seguito di lunghi dibattiti sullo stato del mercato del lavoro italiano, era che la deterrenza funzionava troppo, proteggendo certamente i lavoratori una volta assunti ma, prima, scoraggiandone l’assunzione a tempo indeterminato; inoltre segmentava il mercato del lavoro dividendo nettamente insider (lavoratori ben inseriti e tutelati) e outsider (lavoratori scarsamente tutelati).

Per ridurre questi effetti negativi era stata avanzata la proposta del “contratto a tutele crescenti” che perseguiva diverse finalità: semplificare (“Un nuovo contratto per tutti” scrivevano Tito Boeri e Pietro Garibaldi nel 2008), incentivare le imprese ad assumere, favorire le assunzioni a tempo indeterminato, liberandole – anche prendendo esempio da altri paesi europei – dall’incertezza sui costi di licenziamento (vedi Pietro Ichino, Inchiesta sul lavoro. Perché non dobbiamo avere paura di una grande riforma, 2011). In sostanza, meno deterrenza e più prevedibilità avrebbero dovuto massimizzare gli effetti positivi per tutti, imprese e lavoratori.

La proposta si trasforma nel 2015 in dettato legislativo. Le aspettative erano chiare: incremento delle assunzioni a tempo indeterminato e crescita dimensionale delle imprese, scontando il prezzo di un possibile incremento dei licenziamenti per il venir meno dell’effetto deterrenza. Decisivo era che il saldo occupazionale fosse positivo e trainato dall’incremento dello stock di rapporti di lavoro a tempo indeterminato.

Cosa è successo alle assunzioni

Il contratto a tutele crescenti diventa operativo il 7 marzo 2015, limitatamente ai dipendenti assunti dopo quella data da imprese con più di 15 dipendenti. E le assunzioni a tempo indeterminato esplodono: a fine 2015 sfioreranno i 2 milioni, record tuttora imbattuto, probabilmente imbattibile (i dati citati, salvo diversa indicazione, si riferiscono al settore privato extra-agricolo e sono ricavati dai Rapporti annuali Inps e dall’Osservatorio mercato del lavoro – ex Osservatorio precariato).

Si aggiungono poi oltre mezzo milione di trasformazioni da tempo determinato con un saldo complessivo (= incremento dei posti di lavoro a tempo indeterminato) di quasi 900mila unità, anch’esso un valore mai più visto. Merito del contratto a tutele crescenti e del superamento dell’articolo 18?

Non solo e non tanto. Contestualmente, con la legge di stabilità 2015 (legge 190 del 23 dicembre 2014), era stato varato l’“esonero triennale”, un’inedita incentivazione alle assunzioni e trasformazioni a tempo indeterminato, transitoria perché valida solo per il 2015, innovativa per chiarezza e semplicità dei requisiti richiesti, così consistente (fino a un max di 24mila euro per rapporti di lavoro proseguiti fino a 36 mesi) da configurare un colossale incentivo alle assunzioni, radicalmente diverso dai tanti piccoli provvedimenti che spostano, forse, solo il consenso di qualche sigla associativa.

Nell’esplosione delle assunzioni a tempo indeterminato si mescolavano inevitabilmente gli effetti dell’esonero triennale e del contratto a tutele crescenti. Chi ha provato a distinguerli (il tentativo più noto è quello di Paolo Sestito ed Eliana Viviano) non ha avuto difficoltà a riconoscere la nettissima prevalenza dell’effetto esonero, né poteva essere diversamente sul piano strettamente congiunturale.

Di fatto, le imprese nel corso del 2015 (soprattutto a fine anno), recuperando parzialmente i livelli occupazionali scesi nella lunga fase di crisi 2009-2014, hanno fatto il pieno di posizioni a tempo indeterminato: perciò non desta meraviglia se nel triennio successivo (2016-2018) la crescita ulteriore dei posti di lavoro a tempo indeterminato è stata modestissima.

Dell’esonero 2015 hanno largamente beneficiato anche le piccole imprese, ma nel complesso dell’intero periodo esaminato (2014-2024) le imprese maggiori (over 15 dipendenti) sono andate decisamente meglio delle piccole. Ciò spiega la crescita – sia pur lenta – della dimensione media delle imprese italiane, per effetto dell’aumento del numero delle imprese maggiori (figura 1),mentre la platea di quelle piccolissime rimane sostanzialmente ferma.

Figura 1 – Imprese private per classe dimensionale dei dipendenti, 2014-2023. Numero indice 2014=100 (fonte: elab. su dati Inps)

Perché tornano a crescere i contratti a termine

Nel contempo, a partire dal 2017, s’impenna il ricorso al lavoro a termine: per la prima volta si superano nell’anno i 3 milioni di assunzioni (al netto di stagionali, intermittenti, somministrati). Come mai? Non doveva il tempo determinato essere riassorbito dal contratto a tutele crescenti, data la “maggior facilità” (alias maggior certezza degli eventuali costi) di ricorrere ai licenziamenti?

Evidentemente le imprese hanno continuato a preferire, ove possibile, il contratto a termine, perché il contratto a tutele crescenti non risulta un incentivo sufficiente a cambiare abitudini e valutazioni sul rischio connesso alle assunzioni a tempo indeterminato.

Ma c’è stato anche dell’altro: da un lato si è manifestata l’onda lunga (ritardata) del “decreto Poletti” del 2014 con la facilitazione dei contratti a termine (sostituzione di vincoli quantitativi alle causali, con l’obiettivo di ridurre l’incertezza e deflazionare il contenzioso), dall’altro l’effetto “vasi comunicanti” generato dalla soppressione di altre tipologie di rapporti di lavoro (contratti a progetto e contratti di associazione in partecipazione abrogati proprio con il Jobs act e soprattutto i lavori occasionali a voucher soppressi  a marzo 2017), come documentato dettagliatamente nel Rapporto annuale Inps del 2018.

“Decreto Poletti” da un lato e contratto a tutele crescenti dall’altro risultano aver determinato una cospicua deflazione del contenzioso, ma questo risultato non trova né riconoscimento né attenzione. Mediaticamente forse poco spendibile, è poco sostenuto anche a causa dell’erratica e insufficiente disponibilità di statistiche giudiziarie analitiche, adeguate a supportare la conoscenza dell’impatto socio-economico dei cambiamenti normativi.

La crescita dei rapporti di lavoro a tempo determinato tra il 2017 e il 2018 è stata la premessa necessaria per il temporaneo successo del “decreto Dignità” voluto dal governo giallo-verde nel 2018. Affidava la roboante mega mission di “abolire la precarietà” ad alcuni disincentivi: il parziale ritorno alla causalità da un lato e il rafforzamento di limiti numerici dall’altro.

Gli effetti si sono dispiegati tra la fine del 2018 e il 2019: significativa (e favorita dall’alto numero di contratti a tempo determinato in essere) è stata l’accelerazione delle trasformazioni in tempo indeterminato – per la prima volta nel 2019 hanno superato le 700mila unità -, anche in tal caso “spinta” da nuove agevolazioni monetarie; quanto alla numerosità dei nuovi contratti a termine si registra – nonostante i proclami – una marginale riduzione: anche nel 2019 si mantengono sopra i 3 milioni.

Più netto e duraturo è stato invece l’impatto sui contratti di somministrazione, con l’inversione a favore di quelli a tempo indeterminato.

Per l’insieme del lavoro dipendente i dati mensili Istat-Forze di lavoro (che non consentono un’analisi fine, per singola tipologia contrattuale) attestano che l’incidenza dei dipendenti “non permanenti” sul totale del lavoro dipendente si arresta nel 2019 attorno al 17 per cento, ma non scende: “abolire la precarietà” resta un programma troppo vasto, anche per il decreto Dignità.

Più incisivi, dopo la pandemia, risultano i cambiamenti strutturali – soprattutto demografici ma anche tecnologici e professionali – che, per varie ragioni (riduzione dell’offerta di lavoro, ricerca di competenze particolari e altro), aumentando l’attenzione delle imprese per le strategie di fidelizzazione, sono all’origine della recente contrazione dell’incidenza del lavoro temporaneo (registrata nei dati Istat): negli ultimi 4 mesi disponibili, a partire da dicembre 2024, siamo scesi sotto il 14 per cento, il che vuol dire in valori assoluti un calo di circa 400-500mila unità rispetto ai valori massimi (oltre 3 milioni) raggiunti sia prima sia immediatamente dopo la pandemia.

Che cosa è successo ai licenziamenti

E i licenziamenti? Non dovevano crescere? L’introduzione del contratto a tutele crescenti non doveva provocare i “licenziamenti facili”, quasi all’anglosassone? Nulla di nulla. Anzi sì, qualcosa succede nel 2016 con una modesta risalita dei licenziamenti nei primi mesi dell’anno. Ma – si è capito ben presto – tutta dovuta alla “reazione”, temporanea, di adattamento (controintuitivo) all’obbligo introdotto da marzo 2016 di presentare le dimissioni esclusivamente on line (per contrastare il fenomeno delle dimissioni in bianco): una complicazione, in particolare per le aziende cinesi, che ha favorito – transitoriamente – i licenziamenti.

Al netto dell’imprevista increspatura, i licenziamenti tendono a diminuire, per l’effetto principe – – del miglioramento congiunturale, che conta più di tutto il resto. Poi è arrivata la pandemia, il blocco temporaneo dei licenziamenti economici e il successivo dibattito sui tempi per il ritorno alla “normalità”: se affrettati, si sarebbe rischiato – secondo alcuni presunti conoscitori del mercato del lavoro – un milione di licenziamenti.

Ancora una volta nulla di tutto questo, come documentato nella figura 2, che riporta l’andamento dei licenziamenti economici e disciplinari dal 2014 al 2024, distintamente per imprese sotto e sopra la fatidica soglia dei 15 dipendenti.

Figura 2 – Licenziamenti economici e disciplinari in Italia, 2014-2024 (fonte: elab. su dati Inps)

Due quesiti con un obiettivo politico

Ritenere dunque che il Jobs act abbia inferto un vulnus imperdonabile alle tutele dei lavoratori appare, sul piano degli effetti ottenuti, indimostrato. Che se poi allarghiamo il giudizio all’insieme degli interventi previsti con il Jobs act – dal ridisegno dell’indennità di disoccupazione con la Naspi alle restrizioni introdotte per i contratti parasubordinati a progetto e di associazione in partecipazione fino alla spinta alle politiche attive e altro ancora – la valutazione che “prima era meglio” appare, ancora più nettamente, un riflesso di giudizi conservatori e superficiali.

E quindi il referendum, relativamente al primo e al terzo quesito (recupero della reintegra e delle causali per il tempo determinato), mostra ciò che vuole sostanzialmente, tutto sul piano politico: costringere il Pd a riconoscere di aver sbagliato, obbligarlo al mea culpa per essere andato troppo in là nel riformismo.

Che la regolamentazione dei rapporti di lavoro debba essere ancora rivista e precisata, anche alla luce degli interventi recenti della Corte costituzionale, è del tutto logico (chiare al riguardo sono le indicazioni di Pietro Ichino). Come pure non è affatto risolto il problema della precarietà: il calo significativo dei contratti a termine non basta.

Molto si dovrebbe fare in più sul terreno dei controlli: se ci fosse un garante che si preoccupasse dei dati che non vengono utilizzati dalle amministrazioni pubbliche, avrebbe ampia materia di indagine. Basterebbe relativamente poco per guardar dentro le informazioni che le imprese trasmettono alle autorità pubbliche in tempo reale (a cosa serve altrimenti la digitalizzazione?) e restituire alle stesse segnalazioni immediate sullo sforamento dei tanti vincoli quantitativi (eventualmente, questi sì, da rafforzare) che già oggi la normativa prevede per i contratti a termine, senza ritornare alle causali, la cui opinabilità consegna ai giudici (imprevedibili) la valutazione sui fabbisogni occupazionali delle imprese.

E senza dimenticare che tanti casi di precarietà immotivata e di bassi salari si radicano non tanto nei contratti a termine propriamente intesi ma in altre tipologie di rapporti di lavoro mal utilizzate: part-time troppo flessibili, intermittenti senza regole d’orario, tirocini ripetuti, partite Iva pretestuose. Questioni su cui reintegra e causali non c’entrano.

L’operazione Ragnatela dell’Ucraina è stato un autentico disastro per Mosca (startmag.it)

di Chiara Rossi

Parla Di Liddo (Cesi)

“Le Forze Armate ed i Servizi di Intelligence ucraini hanno rasentato la perfezione della logistica e nella pianificazione” e per la Russia “il danno politico e di immagine è gigantesco”.

Conversazione di Startmag con Marco Di Liddo, direttore del Centro Studi Internazionali (CeSI)

L’operazione “Ragnatela” dell’Ucraina – condotta domenica attraverso 117 droni che ha causato danni per circa 7 miliardi di dollari e ha disattivato il 34% dei bombardieri con missili da crociera nelle principali basi aeree russe – può essere effettivamente considerata la “Pearl Harbor” della Russia come sostengono alcuni osservatori?

Per quanto non ami le citazioni storiche per spiegare eventi presenti, poiché nessun evento è davvero simile ad un altro, l’espressione “Pearl Harbor” o quella tipicamente italiana “Caporetto” rendono perfettamente l’idea di quanto avvenuto. Le Forze Armate ed i Servizi di Intelligence ucraini hanno rasentato la perfezione della logistica e nella pianificazione, aggirando il dispositivo di sicurezza e difesa russo.

L’operazione è stata pianificata circa un anno e mezzo fa, mentre circa tre settimane prima dell’attacco sono stati fatti entrare i 4 camion con i doppifondi all’interno dei quali erano nascosti complessivamente oltre 120 droni. Inoltre, l’attacco è stato praticamente simultaneo ed i russi non hanno avuto né il tempo né il modo di difendersi adeguatamente. Il danno materiale è gigantesco, visto che viene compromessa in maniera profonda la flotta di bombardieri strategici russi, utilizzati anche per sganciare o lanciare ordigni armati di testata nucleare.

Tale compromissione affligge direttamente uno dei segmenti della cosiddetta triade nucleare, nella fattispecie quella aviolanciata. Quei velivoli venivano usati per lanciare bombe e missili da crociera armati con testate convenzionali contro gli obiettivi in Ucraina. In tal mondo, la capacità offensiva russa subisce un danno considerevole. Inoltre, l’industria russa non ha la capacità di rimpiazzare tali mezzi nel breve periodo.

Parallelamente, il danno politico e di immagine è gigantesco: ancora una volta, i servizi militari e civili russi (GRU ed FSB in particolare) hanno fallito, dimostrando quanto il Paese sia vulnerabile e non una potenza indistruttibile ed imbattibile come la propaganda della sua leadership vuole dimostrare. In sintesi, si è trattato di un autentico disastro.

Secondo una fonte dell’SBU di Kiev, i droni sono stati trasportati segretamente in profondità nel territorio russo e nascosti all’interno di camion prima di essere lanciati. Di che tipo di droni si tratta?

I droni impiegati sono dei quadrielica in materiale plastico leggero, fabbricati grazie a stampanti 3d. Pesano circa 2 kg ed hanno la capacità di trasportare fino a 2,5 kg di esplosivo. Si tratta di droni FPV (first person view, visualizzazione in prima persona) che sembra abbiano utilizzato la rete telefonica russa per trasmettere le immagini ai propri operatori, situati teoricamente a migliaia di km dagli obiettivi.

Questo tipo di drone può essere utilizzato in due modi: il primo, classico, prevede un operatore che li pilota utilizzando un visore ottico oppure uno schermo, mentre il secondo prevede l’utilizzo dell’intelligenza artificiale che, tramite il riconoscimento delle immagini, individua e si scaglia autonomamente contro il bersaglio. Visto l’elevato numero di droni, esiste la concreta possibilità dell’utilizzo esteso dell’IA e della guida preimpostata su coordinate GPS (quelle delle basi colpite) in modo da limitare quasi totalmente la capacità di jamming da parte dei russi.

Lato russo, che tipo di strutture militari o logistiche sono state colpite o compromesse, e con quali effetti tattici o operativi sul breve termine per le forze armate russe

Secondo le informazioni disponibili ad oggi, sono state attaccate 4 basi:  Olenya (Oblast di Murmansk), Belaya (Oblast di Irkutsk), Severny (Oblast di Ivanovo) e Diaghilev (Oblast di Riazan) e sono stati distrutti o gravemente danneggiati 12 velivoli delle basi di Olenya e Belaya nella fattispecie 7 bombardieri Tu-95,  4 bombardieri Tu-22M3 e un cargo An-12.

L’impatto sulla flotta strategica russa è notevole, considerando il fatto che risultavano operativi, prima dell’attacco circa 36 Tu-95. Inoltre, non va dimenticato che questi velivoli sono una vecchia eredità sovietica di fine anni 80 e non sono più in produzione. Parallelamente, i Tu-22M3 operativi sono circa 45.

Nel complesso, come affermato precedentemente, il danno operativo è non trascurabile, soprattutto per quanto attiene alla componente aerea della triade nucleare del Cremlino e alla capacità di bombardare l’Ucraina a distanza, senza entrare nel raggio dei sistemi di difesa aerea di Kiev.

Inoltre, non bisogna sottovalutare che, in questo modo, l’Ucraina segna un precedente operativo e potenzialmente strategico-dottrinale dirompente: riuscire a colpire obiettivi strategici avversari in profondità e causare miliardi di dollari di danni utilizzando un sistema estremamente economico e difficilmente individuabile.

L’operazione “Ragnatela” dell’Ucraina come ridefinisce la guerra asimmetrica?

L’operazione “Ragnatela” è soltanto il momento apicale di una costante evoluzione sia operativa che strategica e – di conseguenza – dottrinale, che la guerra russo-ucraina continua a segnare mese dopo mese. Da un lato, lo scoppio del conflitto aveva sottolineato come l’epoca delle operazioni di pace fosse alle spalle e bisognava tornare ad un modello di guerra convenzionale pura e “pesante”, dall’altro ha sottolineato come l’introduzione del drone sul campo di battaglia sia un fattore di profonda trasformazione, la classica tecnologia “disruptive” in grado di influenzare profondamente l’approccio di Stati e organizzazioni non statali ai conflitti.

C’è stato – e in che termini – l’aiuto militare e di intelligence di Paesi occidentali?

Sinceramente credo che gli ucraini abbiano fatto praticamente tutto da soli. Ne hanno la capacità. Poi, sia sotto il profilo tecnologico che sotto quello operativo e dottrinale nel campo dei droni sono oggi tra le avanguardia mondiali.

Come ha già accennato prima, quale ruolo ha svolto l’Intelligenza artificiale nell’operazione Ragnatela?

Ha avuto un ruolo determinante sia in fase di pianificazione, per accelerare le simulazioni dell’operazione ed i calcoli inerenti al comportamento dei velivoli sia nella conduzione stessa per il volo e l’individuazione autonoma dei bersagli attraverso il riconoscimento delle immagini.

In che modo l’operazione Ragnatela domenica e l’attacco con esplosivi sottomarini contro il ponte stradale e ferroviario di Kerch, lungo 19 km e che collega la Russia alla penisola di Crimea martedì incideranno sui negoziati tra le delegazioni di Mosca e Kiev?

Gli ucraini hanno semplicemente fatto quello che i russi fanno da mesi: da un lato aprono al negoziato, dall’altro continuano le operazioni militari su larga scala. Creo che l’impatto sul negoziato sarà minimo, poiché la distanza tra Kiev e Mosca è ancora immensa e nessuna delle due intende cedere sulle richieste iniziali.

I russi, poi, non intendono fermarsi finché non saranno stremati o impossibilitati politicamente, economicamente e militarmente a combattere. Oggi questa situazione è ancora lontana.

operazione ragnatela

Sì, dovremmo riflettere sui diritti e sui doveri di chi c’è già (avvenire.it)

di Anna Granata

Cittadinanza
Per un sistema di welfare più stabile e sereno, per un mondo del lavoro più giusto e vitale, per una scuola ancora capace di immaginare il futuro

Sì, dovremmo riflettere sui diritti e sui doveri di chi c'è già

(Ansa)

Una coda silenziosa si snoda davanti alla questura. Volti stanchi, sguardi pazienti. C’è chi ha lasciato il lavoro, chi ha saltato la scuola, chi ha portato con sé un figlio piccolo.

Tutti in attesa di un foglio che permetta di restare, studiare, curare, lavorare. In quella coda c’è la vita di chi già appartiene a questo Paese ma deve ancora dimostrarlo ogni giorno. Il quinto quesito del referendum dell’8 e 9 giugno riguarda un aspetto fondamentale del nostro vivere civile: rendere più rapido l’accesso alla cittadinanza, dimezzando i tempi per chi vive stabilmente in Italia. Secondo la normativa attuale, i cittadini stranieri devono attendere dieci anni prima di poter fare richiesta della cittadinanza.

Si tratta di una delle tempistiche più lunghe tra quelle previste dai Paesi europei, ulteriormente rallentata da un macchinoso apparato burocratico che di fatto porta i cittadini stranieri a ottenere la cittadinanza non prima di quindici anni di residenza in Italia. Ridurre i tempi per la richiesta da dieci a cinque anni significa alleggerire pratiche infinite, incerte e costose che di fatto precarizzano l’esistenza di circa cinque milioni di persone.

La questione in gioco è più concreta che simbolica. Non si tratta di aprire indiscriminatamente le frontiere a chiunque arrivi sul suolo italiano, ma di stabilizzare e riconoscere diritti fondamentali (e relativi doveri) a persone di ogni età inserite da tempo nel nostro Paese: adulti lavoratori, famiglie, bambini e ragazzi che studiano nelle nostre scuole.

Accelerare i tempi per l’ottenimento della cittadinanza italiana sarebbe una ventata di aria fresca per i due milioni e mezzo di lavoratori e lavoratrici stranieri attivi nel nostro Paese, tra i quali vale la pena nominare le circa 800.000 persone che si prendono cura giorno e notte della componente più anziana e fragile della popolazione (dati Inps, 2023). Andare a votare, in fondo, significa sostenere quello che è attualmente il nostro più solido sistema di welfare.

Se guardiamo ai più giovani, dimezzare i tempi per la cittadinanza significherebbe dare stabilità e fiducia a quel milione e mezzo di alunni che studiano nelle nostre scuole. Le ricerche da tempo ci dicono che ottenere la cittadinanza italiana ha un impatto positivo sul successo scolastico: meno giorni di scuola persi, minor senso di esclusione, più stabilità e tranquillità famigliare, più successo a scuola.

È un’equazione abbastanza semplice da comprendere e molto nota a insegnanti ed educatori. Circa la metà dei possibili beneficiari del buon esito (e attuazione) di questo referendum è costituito proprio da minori, secondo una proiezione di fondazione Ismu (2024). Bambini e bambine delle nostre scuole dell’infanzia, ragazzi e ragazze che frequentano scuole, oratori, centri sportivi e spazi di socialità insieme ai coetanei autoctoni, e che secondo il sistema normativo vigente possono chiedere la cittadinanza solo al compimento del diciottesimo anno.

Nati e cresciuti qui, spesso scoprono a un certo punto del loro percorso di crescita, con grande stupore e sgomento, di essere considerati stranieri in patria.

È bene ricordare che senza la loro presenza, molte scuole di piccoli comuni ma anche delle grandi città avrebbero già chiuso i battenti, in tempi di inverno demografico. Chi ha raggiunto faticosamente il numero minimo per tenere aperta una scuola dell’infanzia di un piccolo paese di provincia o una pluriclasse di un comune di montagna sa bene quanto dalla presenza di questi bambini e bambine dipenda il futuro delle nostre comunità.

Il dibattito italiano sulla cittadinanza si è concentrato su una dimensione simbolica e di principio, volta a definire chi merita di essere un cittadino italiano. Tra chi sostiene un’italianità ereditata per via famigliare e chi invece pensa alla cittadinanza come percorso da condividere, in molti anni si è faticato a trovare un terreno di incontro.

Può aiutarci pensare ai singoli volti dei compagni di scuola dei nostri figli, a chi si prende cura ogni giorno dei nostri anziani, ai nostri colleghi di lavoro o dipendenti, alle famiglie con le quali condividiamo la panca in chiesa. Sembrerà allora quasi ovvio esprimere per tutti loro il nostro “sì”: un sì per un sistema di welfare più stabile e sereno, per un mondo del lavoro più giusto e vitale, per una scuola ancora capace di immaginare il futuro.

Referendum: Schlein, ‘non ho chiesto abiure ma occasione autocritica per errori passato’ (adnkronos.com)

“Noi abbiamo fatto una Direzione in cui abbiamo votato e non ci sono stati voti contrari e quindi la linea ufficiale del Pd è di sostegno ai referendum con 5 sì.

Poi non chiediamo abiure personali a nessuno ma questo referendum è anche un’occasione di un’autocritica rispetto a errori del passato come non aver cambiato la legge sulla cittadinanza quando si poteva provare a farlo quando si era al governo”.

Lo dice Elly Schlein a Un Giorno da Pecora su Rai Radio 1.

Opposizioni in competizione per la guida del pacifismo (corriere.it)

di Massimo Franco

La Nota

Le opposizioni puntano il dito contro il governo.

Lo accusano di essere reticente sui massacri dei civili palestinesi che l’esercito israeliano sta compiendo. Contestano la cautela del vicepremier e ministro degli Esteri di FI, Antonio Tajani, che definisce «propagandistiche» richieste come quella di ritirare l’ambasciatore a Tel Aviv, e richiama le parole ferme di condanna del capo dello Stato, Sergio Mattarella.

Ma questi attacchi non bastano a nascondere le divergenze che dividono i promotori delle manifestazioni di oggi e di sabato.

Non c’è soltanto il fatto che il corteo a Milano organizzato da Azione e Iv, al quale parteciperanno alcuni esponenti del Pd, punta a scongiurare una deriva antisemita. E si ripropone di richiamare non solo le gravi responsabilità del primo ministro Benjamin Netanyahu, ma anche quelle dei terroristi di Hamas.

Nel modo in cui Pd, M5S e sinistra ecologista si preparano alla manifestazione in piazza San Giovanni a Roma, accanto a una Cgil protagonista, si intuisce un timore: quello di non riuscire a scongiurare una protesta a senso unico per la Palestina.

La deriva antisemita è un rischio sentito acutamente; e favorito dai settori più estremisti. Traspare dallo stesso lessico dei partecipanti. Non a caso, quando si chiede alla segretaria del Pd, Elly Schlein, se veda in quanto succede in Medio Oriente un genocidio perpetrato dagli israeliani, risponde: «È l’Onu che ha parlato di pulizia etnica. Il procedimento è in corso a L’Aia e bisogna rispettare la giustizia internazionale e i mandati emessi sia contro Netanyahu che contro gli esponenti di Hamas».

Schlein rifiuta dunque un termine che banalizzerebbe l’Olocausto subìto dagli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. Ricorda le responsabilità di Hamas per la strage del 7 ottobre del 2023. Giuseppe Conte non sembra porsi il problema, invece.

Dopo avere fatto capire con spregiudicatezza che la piazza del 7 giugno può essere utile anche come volano dei cinque referendum dei due giorni successivi, ieri il leader del M5S ha ribadito: la manifestazione «nasce da un’iniziativa congiunta per dire stop a un massacro che definisco genocidio».

Dietro le differenze di linguaggio spunta la competizione tra Pd, sinistra e M5S per la guida di un pacifismo che dal conflitto mediorientale sconfina fino all’aggressione russa contro l’Ucraina. Domani è stato organizzato dai promotori anche un presidio a Bruxelles davanti all’ambasciata italiana.

Ma l’unità delle opposizioni appare fragile. C’è un postgrillismo deciso a piegare la politica del Pd in senso anti-Ue e anti-Nato; e a distinguersi, dovunque gli sia possibile, da un partito ritenuto tuttora troppo solidale con l’Ucraina e ostile alla Russia.