Schlein distorce i dati sui salari: l’Italia non è ultima nel G20 (pagellapolitica.it)

di Carlo Canepa

Economia
Gli stipendi italiani non crescono, ma restano superiori a quelli di molti altri Paesi

Nelle sue interviste, la segretaria del Partito Democratico Elly Schlein ripete spesso un dato negativo sugli stipendi italiani. Il 28 maggio, ospite a DiMartedì su LA7, ha dichiarato (min. -2:06:50): «Gli italiani hanno i salari più bassi di tutti i Paesi del G20». Pochi giorni prima, il 19 maggio, aveva detto la stessa cosa a Che tempo che fa su Nove: «Gli italiani hanno i salari più bassi di tutto il G20».

Come abbiamo spiegato più volte in passato, è vero che l’Italia ha un problema con i salari. Ma l’affermazione ripetuta da Schlein è scorretta: vediamo perché.

Il G20 è un’organizzazione che riunisce 19 tra i Paesi più industrializzati del mondo, più l’Unione europea e, più recentemente, l’Unione africana. I membri sono: Arabia Saudita, Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Corea del Sud, Francia, Germania, India, Indonesia, Italia, Giappone, Messico, Regno Unito, Russia, Stati Uniti, Sud Africa e Turchia.

Per confrontare i salari tra questi Paesi, la fonte più aggiornata è l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE). Nei suoi report, l’OCSE raccoglie (pag. 205) i dati sugli stipendi medi lordi a tempo pieno, comprensivi di straordinari e altre voci accessorie, ma al lordo delle imposte e dei contributi. I valori sono convertiti in dollari internazionali, a parità di potere d’acquisto, per permettere un confronto più equo: un dollaro, infatti, non ha lo stesso “valore” ovunque – per esempio, negli Stati Uniti il costo della vita è più alto che in Messico.

Secondo i dati più recenti, relativi al 2022, il salario medio in Italia era pari a 54.131 dollari a parità di potere d’acquisto: si tratta dell’ottavo valore più alto tra i Paesi del G20. Ai primi tre posti troviamo Germania, Australia e Canada. Francia e Regno Unito – gli altri due grandi Paesi europei membri del G20 – precedono l’Italia, che però supera il Giappone. In fondo alla classifica ci sono Indonesia, India e Brasile.

Dunque, dire che l’Italia ha i salari «più bassi» del G20 è sbagliato. Con tutta probabilità, quando Schlein fa questa affermazione, si riferisce a un altro dato.

Di recente, l’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) ha pubblicato un rapporto secondo cui, tra il 2008 e il 2024, l’Italia è stato il Paese del G20 con la crescita più bassa dei salari reali, cioè al netto dell’inflazione. I grafici qui sotto mostrano l’andamento dei salari nelle economie avanzate del G20 (a sinistra) e in quelle emergenti (a destra).

Andamento dell’indice dei salari medi reali nei Paesi del G20, anni 2008-2024 – Fonte: ILO

(Andamento dell’indice dei salari medi reali nei Paesi del G20, anni 2008-2024 – Fonte: ILO)

L’Italia è rappresentata nel grafico a sinistra dalla linea più in basso, di colore verdone. Posto a 100 il valore del salario medio italiano nel 2008, nel 2024 questo valore risulta più basso: in altre parole, i salari italiani nel 2024 sono inferiori a quelli del 2008. L’Italia è l’unico Paese avanzato del G20 con un saldo negativo, insieme al Regno Unito e al Giappone.

Questo, però, non significa – lo ribadiamo – che i salari italiani siano oggi più bassi di quelli dei Paesi emergenti rappresentati nel grafico a destra, come Cina, Indonesia o Turchia. In queste economie, tra il 2008 e il 2024, gli stipendi sono cresciuti di più rispetto all’Italia, ma restano più bassi in valori assoluti e a parità di potere d’acquisto.

Non è la prima volta che Schlein distorce i dati sui salari in Italia. Negli scorsi mesi, per esempio, ha detto che gli stipendi italiani sono i più bassi di tutta l’Unione europea e che, in particolare, quelli degli insegnanti sono i più bassi tra tutti i Paesi dell’OCSE. Entrambe queste dichiarazioni sono esagerate.

L’eccezionalismo ucraino, la rivoluzione, e la resistenza all’imperialismo russo (linkiesta.it)

di

Liberi dal passato

A Kyjiv e in tutto il paese, la società è diventata cosmopolita, aperta, libera.

Non è stata sempre così, ma adesso tutti apprezzano le tradizioni, la cultura, la storia, lo stile di vita di una nazione profondamente cambiata dall’attacco di Mosca. Pubblichiamo in italiano un tweet di Illia Ponomarenko

Questa è la traduzione in italiano di un intervento su X di Illia Ponomarenko, autore di I Will Show You How It Was: The Story of Wartime Kyiv.

Il Presidente dell’Ucraina è ebreo. Il nostro Ministro della Difesa è musulmano, un tataro di Crimea. Il Comandante in capo delle Forze Armate è un russo etnico.

Il nostro miglior pilota di droni, recentemente insignito del titolo di Eroe dell’Ucraina, è un ungherese etnico. Oltre 70.000 donne prestano servizio nell’esercito.

Quasi tutti i medici da campo più rinomati sono donne.

La rivoluzione che ha cambiato per sempre questo paese è iniziata con un post su Facebook scritto da un pashtun afgano etnico, un importante giornalista ucraino.

E nel nostro Parlamento abbiamo un deputato nero, un afro-ucraino campione olimpico e ammirato da tutti.

Tutto questo in un paese che è ancora, per la maggior parte, slavo.

Per le strade di Kyjiv oggi si vedono ristoranti halal per turisti musulmani accanto a locali ebraici. Non lontano ci sono un museo e un monumento dedicati a Sholem Aleichem, e una targa con il volto di Golda Meir, che un tempo visse qui.

Tra i nostri principali luoghi simbolici: sinagoghe del XIX secolo. A pochi passi, una grande moschea e un centro culturale musulmano. E sopra ogni cosa, naturalmente, le antiche chiese e i monasteri cristiani, i più antichi e significativi del mondo slavo orientale.

Ancora non riesco a credere che il muftì musulmano capo dell’Ucraina (un tataro etnico di Donetsk) abbia lasciato il suo incarico per servire come paramedico in prima linea. Che il nostro rabbino capo lavori instancabilmente ogni giorno per aiutare l’Ucraina in tutto il mondo, e che suo figlio adottivo sia morto combattendo per l’Ucraina, con le armi in mano.

Da anni ormai, una gigantesca menorah luminosa viene accesa ogni Hanukkah nel cuore della piazza principale di Kyjiv. E nel Giorno dell’Indipendenza, ogni confessione religiosa si riunisce nella Cattedrale di Santa Sofia per pregare per l’Ucraina, ciascuna secondo il proprio rito.

Così come tutti si riuniscono per commemorare Babyn Yar (le fosse comuni naziste, ndt) e il monumento dell’Holodomor (la carestia imposta da Stalin, ndt).

Più si guarda il mondo, più ci si rende conto di quanto sia diventata sana la società ucraina nella convivenza tra etnie e fedi diverse.

Non siamo sempre stati così. Lo stiamo diventando adesso, mentre il paese viene radicalmente trasformato dalla rivoluzione e dalla difesa contro la Russia imperialista.

Ci stiamo scrollando di dosso, a gran velocità, il peso di tanti retaggi del passato.

Proprio di recente, a maggio, l’Ucraina ha commemorato la Seconda Guerra Mondiale con i papaveri e lo slogan “Mai più!”

Che contrasto netto con la frenesia satanica del “Giorno della Vittoria” russo, con il suo culto della morte, il suo “Possiamo farlo di nuovo!” e la sua glorificazione del morire per lo Zar.

Sullo sfondo della guerra, l’Ucraina sta vivendo una vera rinascita nazionale e culturale. Stiamo riscoprendo la lingua ucraina, i libri ucraini, la musica, il cinema, come qualcosa di prezioso.

E per quanti decenni ci hanno insegnato a disprezzare tutto ciò che era ucraino come “di terza categoria”, “contadino”, “inferiore”?

Cammino per le strade di Kyjiv a Natale (il 25 dicembre, non il 7 gennaio come imposto dai preti di Mosca) e vedo gruppi di bambini in abiti tradizionali ricamati che portano stelle di Betlemme colorate e cantano canti natalizi. Il “Natale ucraino” sta tornando in queste terre come tradizione culturale viva.

A Pasqua, la gente si raduna vicino alla Cattedrale di Santa Sofia per picnic e danze primaverili. Nella città vecchia sopra Podil, spesso sento giovani suonare canti cosacchi con i tamburi. E vedo sempre molte persone nei luoghi sacri della nostra nazione: la Lavra delle Grotte di Kyjiv, le cattedrali di Leopoli, il Monumento alla Patria, i vecchi castelli.

Non siamo diventati improvvisamente ferventi credenti. Abbiamo semplicemente imparato a essere orgogliosi, come mai prima d’ora, di essere ucraini e ad apprezzare le nostre tradizioni, la nostra cultura, la nostra storia, e il nostro stile di vita, nel nostro paese.

In tempo di guerra continuano a nascere nuove tradizioni, contro ogni previsione.

Oggi onoriamo i veterani di guerra invitandoli a dare il calcio d’inizio simbolico delle partite di calcio,  poi offriamo loro una standing ovation dagli spalti, per il loro servizio.

Potrei andare avanti così per ore. Quello che sto cercando di dire è che amo ciò che l’Ucraina sta diventando.

Questa speranza, che irrompe tra dolori e difficoltà indicibili, è come una luce che trafigge il tunnel. L’Ucraina di oggi e quella di 12 anni fa sono due paesi completamente diversi.

La strada davanti è terribilmente difficile, ma se solo – se solo la nostra Ucraina riuscirà a sopravvivere a questa guerra per la sua stessa esistenza.

https://x.com/iaponomarenko/status/1928486620736717289?s=46&t=h3us3k4yj_bD4wN7UfhD5Q

(Maksym Diachenko per Unsplash)

Educare o punire, la voce “solitaria” di Manconi nel gran chiasso del populismo (ildubbio.news)

di Francesca Spasiano

L’intervista

Dai femminicidi alle politiche migratorie e securitarie del Governo. Il sociologo al Salone di Torino: «Così si sollecita la volontà di vendetta»

Femminicidi, immigrazione, sicurezza. La risposta della politica ai fenomeni sociali è sempre la stessa: introdurre nuovi reati. Anche quando i numeri ci raccontano un’altra storia, anche quando sappiamo che la curva dei reati violenti è in discesa.

L’equazione resta invariata. E chi contribuisce all’allarme, resta sordo a un dato ormai acquisito: la “spada penale” non può essere la ricetta contro ogni male. E di certo non “cancella” i problemi con cui ci confrontiamo come per magia, se alla sanzione non affianchiamo mai gli strumenti dell’educazione.

Di tutto questo si è parlato sabato 16 maggio con Luigi Manconi, ospite del Dubbio nella cornice del Salone del libro di Torino. L’incontro era imperniato sui due poli del dibattito – “educare o punire” – che si è ripresentato con forza in seguito agli ultimi provvedimenti licenziati dal governo Meloni. Non soltanto con il decreto Sicurezza approvato “senza” Parlamento, ma anche sui reati di genere, con il ddl sul femminicidio presentato dall’esecutivo in occasione dell’8 marzo.

Il provvedimento introduce una fattispecie autonoma e la lega all’ergastolo. Affidandosi ancora una volta, ragiona Manconi, «a un’ipotesi smentita da tutte le ricerche scientifiche sul tema, secondo la quale maggiore è la sanzione, minori sono i reati». «Ma è dimostrato da cinquant’anni sottolinea – che l’inasprimento delle pene non dissuade dal commettere un dato reato».

Sociologo, scrittore, politico, Manconi analizza il fenomeno con la lente opposta a quella del demagogo. E anche nel rapporto tra patriarcato e femminicidi legge una correlazione «meno rozza di quanto si creda». «Si dice che più c’è patriarcato, più si uccidono le donne, ma questa è solo una variabile.

L’altro fattore, che rimanda all’alto numero di femminicidi in paesi come quelli scandinavi, qualifica questa attività criminale come forma disperata, estrema – e sia chiaro -, folle, di difesa del maschio di fronte ai processi di emancipazione femminile».

Si tratta di «una reazione irrazionale, e massimamente criminale», puntualizza Manconi, nei confronti della quale le politiche penali rischiano di fallire. «Negli ultimi anni c’è una categoria, che è quella di populismo penale, che come tutte le formule è un po’ abusata e non facile da spiegare – dice Manconi -. Spesso veicola luoghi comuni, ma se c’è una manifestazione limpidissima del populismo penale è proprio la volontà di introdurre il reato autonomo di femminicidio.

Perché il populismo penale è una forma demagogica di criminalizzazione della vita sociale. E cosa c’è, nell’Italia contemporanea, di più demagogico del dichiarare di voler cancellare il femminicidio?. Qual è l’impegno che può ottenere più consensi di questo? Io non credo che ve ne siano altri – prosegue -. Evocare quindi il femminicidio e spacciare un provvedimento come questo, quale fosse la soluzione al fenomeno, è esattamente un’operazione demagogica che solletica e sollecita gli umori più oscuri dell’animo umano, la volontà di vendetta in ogni caso».

Ecco le parole, populismo e vendetta, che ricorrono nel corso dell’incontro per inquadrare anche le politiche sul carcere e il decreto Sicurezza. Che introduce 14 nuovi reati e 9 aggravanti.

«Non tutti i dati sono così inequivocabili e incontestabili – riprende Manconi -, ma sappiamo con chiarezza e coerenza che gli omicidi volontari, fattore di massimo allarme sociale, sono calati dal 1992 ad oggi di quattrocento unità all’anno. Tuttavia, questa riduzione così clamorosa non ha portato l’opinione pubblica italiana ad avvertire una maggiore sicurezza». Come lo spieghiamo?

«Io penso molto semplicemente che la responsabilità sia della politica – risponde Manconi -. La spiegazione sta esattamente in ciò che la politica, o per meglio dire alcuni partiti politici, hanno fatto della sicurezza, del problema dell’immigrazione». Che viene presentato costantemente, dice il sociologo, sotto l’etichetta dell’invasione.

Un paese come il nostro, dove avvengono tragedie e crimini, ma che «sta perfettamente in linea con tutti gli standard di sicurezza dei paesi occidentali, viene presentato come una bolgia dantesca di efferati crimini». Il tutto attraverso un «processo di manipolazione delle coscienze» al termine del quale l’opinione pubblica finisce per sentirsi inevitabilmente insicura.

Manconi ne ha anche sul tema del carcere, in particolare per l’introduzione del reato di rivolta dietro le sbarre anche per le forme di resistenza passiva come lo sciopero della fame. Che per il detenuto – sottolinea – rappresenta un importante processo di emancipazione culturale.

«Chi rinuncia alla protesta violenta per fare uno sciopero della fame, è un detenuto che ha fatto il primo, magari piccolo, ma assai significativo passo verso l’integrazione e l’inclusione nel sistema dei diritti», dice Manconi. «Ecco perché deve indignare quella norma» contenuta del decreto Sicurezza, «perché l’hanno voluta pensando di colpire le rivolte e invece si avrà il solo effetto di incentivarle».

Ma tutto questo ci conduce verso lo Stato di polizia, come crede qualcuno? «No, io sostengo l’esatto contrario – chiosa Manconi -. L’evocazione dello Stato di polizia, o ancor più l’evocazione del fascismo, è un miserabile trucco. Io non penso in alcun modo che in Italia ci sia il fascismo, e non penso che mai ci sarà.

Ma attenzione: in presenza di una democrazia, come quella italiana, non sono escluse tendenze autoritarie. Alcune cose che stanno succedendo negli Stati Uniti ci dicono che il pericolo è reale. Concentrazioni di potere che non necessariamente comportano una rottura democratica, ma una crisi della democrazia e dello Stato di diritto per come l’abbiamo voluti, pensati e desiderati.

Derive illiberali che non necessariamente sono destinate a vincere, anzi sono convinto che possano essere sconfitte».

LUIGI MANCONI EX PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE STRAORDINARIA PER I DIRITTI UMANI DEL SENATO , IMAGOECONOMICA(LUIGI MANCONI IMAGOECONOMICA)

Tutti i motivi che mi impediscono di chiamare genocidio quello a Gaza (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola Posta

I pro Pal vedono la spietatezza tracotante dei ministri fascisti e razzisti di Israele, la prepotenza anonima dei bombardamenti, la precisione terrorizzante delle operazioni speciali. Non vedono la sete di sangue dei guerrieri pseudoislamisti

Anna Foa ha detto martedì a Repubblica: “Io la parola genocidio finora non l’ho usata, ma quello che vediamo penso che ci si avvicini molto. Stiamo andando nella direzione di una pulizia etnica”.

Per qualunque altra situazione simile a quella che via via è diventata la reazione del governo e dell’esercito israeliano all’assalto di Hamas, io avrei senz’altro impiegato il nome di genocidio. Perché non l’abbia fatto è una buona parte della questione.

Paolo Mieli ha detto che quanto a lui il nome di genocidio va sventato, perché implica l’assimilazione con la Shoah. Non è così. Lo sarebbe per chi facesse coincidere la cosiddetta unicità della Shoah con la nozione di genocidio, e vedrebbe dunque una dissacrazione nel suo ulteriore impiego. Ma i genocidi sono, purtroppo, se non tanti, troppi.

Lemkin coniò la parola avendo come “prototipo” il genocidio armeno – che fu il modello dello stesso Hitler. Dopo di allora, tribunali internazionali hanno decretato genocidio il mattatoio del luglio 1995 a Srebrenica, lasciando il resto della storia alla formula della pulizia etnica. Genocidio è stato decretato quello perpetrato dagli Hutu sui Tutsi in Ruanda (1994), dal Tribunale di Arusha. Poiché quella definizione implicava l’obbligo agli Stati Uniti di intervenire, Bill Clinton le ballò attorno, salvo visitare il Ruanda di Kagame a cose fatte e chiedere perdono per l’omissione.

Genocidio è stato decretato da un tribunale ad hoc, ma nazionale, quello cambogiano (1975-1979), contro minoranze e soprattutto contro i dissidenti, gli istruiti, gli abitanti delle città, gli esemplari di “uomo vecchio”. E la lista è più lunga. Dunque l’impiego del nome di genocidio non porta necessariamente ad assecondare la nazistizzazione di Israele, che pure è il piacere di un esorbitante numero di pro-palestinesi, innamorati della metamorfosi delle vittime (ebraiche) in carnefici (nazisti, poiché altri carnefici, a cominciare dagli stalinisti, e non solo per il Holodomor ucraino, non accedono al casting).

Gli esempi sanciti dalla giustizia internazionale, oltre che dalla storia più seria, mostrano che non è necessario all’imputazione di genocidio un progetto di liquidazione totale di una popolazione o di una presunta “razza”, e tanto meno la sua riuscita. Basta il proposito e la pratica della cancellazione culturale o della deportazione o della sostituzione demografica di una popolazione, come quella perseguita metodicamente dalla Cina nel Tibet.

La smisuratezza delle vittime civili a Gaza (che resta tale anche se si dimezzi la cifra fornita da Hamas) e l’esplicito programma di cacciata della popolazione, enunciato perfino briosamente dal padrino Trump, con l’aggiunta ripugnante dell’affamamento, sono sufficienti a sollevare l’interrogazione sul genocidio, oltre alla evidente constatazione degli altri addebiti, che gli sono solo simbolicamente inferiori, come i crimini di guerra e contro l’umanità.

Che cosa dunque mi ha trattenuto dal nominare il genocidio? Non – non più, almeno – la preoccupazione di prestare il fianco all’antisemitismo, che viceversa fa baldoria delle reticenze. Da nove decimi dei 600 e più giorni trascorsi dal 7 ottobre sarei stupito e addolorato di sapere di un solo ragazzo, una sola ragazza, che non guardi con scandalo sdegno e vergogna a quello che soffrono i gazawi.

Per tanti di quei ragazzi la reticenza altrui vale un’autorizzazione a figurarsi l’avversione a Israele e agli ebrei come una forma militante di antifascismo, e la solidarietà coi palestinesi come una forma di resistenza. Una ragione, non di principio ma di opportunità, sta nella diffusa feticizzazione del nome di genocidio, che segna un solco fra chi, dalla stessa parte, accetta o rifiuta di impiegarla: che vuol dire da Liliana Segre, o da Edith Bruck.

Proprio negli ultimi giorni, da quando l’argine ha ceduto di colpo e in tutto il mondo, fa mostra di sé una accanita gelosia di pro Pal “di sempre”, che piuttosto che allargare le file ripudiano i nuovi arrivati, almeno fino a che, come nelle risse di ragazzi, non abbiano detto “Mi arrendo!” – “Genocidio!” 

Un argomento rilevante, benché ambiguo (una minaccia sul futuro contro una realtà presente), è la consapevolezza di che cosa sarebbe di Israele se i nemici da cui è circondato arrivassero mai a disporre di una forza sufficiente, a tenere il coltello dalla parte del manico.

I pro Pal, fanatici o commossi che siano, sembrano ignorarlo. Vedono la spietatezza tracotante dei ministri fascisti e razzisti di Israele, la prepotenza anonima dei bombardamenti, la precisione terrorizzante delle operazioni speciali – i cercapersone degli Hezbollah – non vedono la sete di sangue dei guerrieri pseudoislamisti.

Credono – largamente sopravvalutando – ai sondaggi sul favore degli israeliani per lo svuotamento di Gaza, non si interrogano sulla voluttà della folla di infierire su una ragazza violata e ridotta a un manichino, da una festa da ballo a una carretta da gogna. Ciò non toglie che i civili di Gaza non siano colpevoli, anche quando parteggino fervidamente per Hamas. Così come non sarebbero colpevoli i civili israeliani, anche quella minoranza – inferiore al 30 per cento – che parteggia per Netanyahu.

Tanto più che il bracconaggio del 7 ottobre infuriò contro israeliani per lo più pacifisti di sentimenti e di azioni.

Insomma, chi teme per la sopravvivenza di Israele e sa che essa è in causa, da sempre, esita a dissociarsene combattivamente per l’angoscia di condividere una parte di responsabilità della sua rovina futura. Questo è un gran pezzo del ricatto di Netanyahu e del suo gioco al rincaro. Ripete Giuliano Ferrara che gli ebrei non vennero mandati ad Auschwitz dopo aver compiuto un loro 7 ottobre contro la Germania nazista (o l’Italia fascista), né dopo che loro capi avessero proclamato la volontà di cancellare dalla carta geografica la Germania, dal Baltico alle Alpi. E’ vero, ma sbatte contro l’evocazione del passato, della Nakba, della recinzione, delle violenze e delle invasioni dei coloni, della proclamazione dello “stato degli ebrei”…

C’è chi, come me, dall’inizio di questa nuova “guerra” – dai giorni successivi al 7 ottobre, e non ha senso che si ricordi, per Israele e Palestina come per Ucraina e Russia, che “le cose sono cominciate molto prima”, tutte le cose sono cominciate prima – si è augurato una vera svolta, favorita dalla stessa inaudita portata del trauma subìto dalla gente d’Israele: un’offensiva diplomatica sui due stati, per una leadership democratica palestinese – perfino un’investitura a un leader che passasse dall’ergastolo alla presidenza, utopie che tuttavia succedono, sono successe. Bisogna adesso che facciamo i conti con alcuni dei successivi fatti compiuti.

L’offensiva smisurata di Netanyahu ha cambiato i rapporti di forza in Libano a svantaggio di Hezbollah. Ha reso possibile il colpo di scena della fuga di Assad dalla Siria e della riconversione, pur se non conversione, di al SharaaHa tarpato le ali all’Iran e alle sue ambizioni aggressive, messo alle strette il suo micidiale programma nucleare militare, e rafforzato di fatto le speranze della sua audace opposizione. Questi fatti compiuti sono, almeno finora – Netanyahu scalpita ancora per l’attacco finale all’Iran – altrettanti argomenti in favore di chi l’ha appoggiato senza riserve, e tuttavia oggi sente di non poterlo fare più.

Ho due argomenti a trattenermi ancora di qua dal chiamarlo genocidio. Uno è capzioso. Uno fondato, benché forse non risolutivo. Quello capzioso dice che le incertezze sulla definizione della carneficina e dell’umiliazione di Gaza come genocidio possono indurre a rivedere i criteri, forse affrettati, con cui abbiamo chiamato genocidio situazioni simili o anche meno terribili. Capzioso: ma è vistosamente vero che del nome di genocidio si è fatto un abuso tale da finire per banalizzarlo.

L’argomento fondato è questo: in nessuno dei genocidi “classici” che ho elencato, in Armenia, a Srebrenica, in Ruanda, in Cambogia ci sono mai stati combattivi partiti d’opposizione, militari renitenti, folle di manifestanti tenacemente contrari, membri della popolazione decimata presenti nel Parlamento del regime persecutore o nei dibattiti pubblici.

Nessuno può immaginare che durante lo sterminio nazista degli ebrei la casa di Adolf Hitler fosse quotidianamente circondata da manifestanti che chiedevano le sue dimissioni e la sua incriminazione. Né la casa di Pol Pot. Questo fa una enorme differenza. E fa un alleato in Israele.

(AFP)

Padre Maggi: “La Chiesa stia attenta ai passi indietro. E continui sulla scia del cambiamento” (lastampa.it)

«Come Chiesa dobbiamo stare attenti a non fare passi indietro a livello di comunicazione dell’accoglienza».

È l’appello di padre Alberto Maggi dopo la nuova puntualizzazione di Leone XIV sul tema famiglia: ieri il Papa ha precisato che «il matrimonio è il canone del vero amore tra l’uomo e la donna». Religioso dell’Ordine dei Servi di Maria, teologo 79enne, dal 1995 Maggi dirige il Centro Studi biblici Giovanni Vannucci a Montefano, in provincia di Macerata, dove la prima domenica di ogni mese organizza incontri sul Vangelo, a cui partecipano centinaia di persone che arrivano da tutta Italia e dall’estero. In particolare, «ho sempre accolto chi si sente escluso e ferito dalla Chiesa. Tantissime persone omosessuali e transgender».

Che cosa pensa delle varie sottolineature di Papa Prevost sul tema famiglia?

«Non è mia intenzione correggere le parole del Pontefice, ci mancherebbe. In generale, credo che come Chiesa dobbiamo stare attenti a non fare passi indietro a livello di messaggio d’accoglienza. Questo vale sempre, non mi riferisco solo a Leone XIV, che ha appena iniziato il pontificato. Nei Vangeli troviamo un sguardo liberante della famiglia».

Che cosa significa?

«Gesù libera la famiglia dai “ricatti sociali” che ne bloccano la maturazione. L’obiettivo è, e deve essere sempre, aiutare ogni persona ad accedere alla pienezza di vita cui è chiamata. Nei Vangeli, famiglia vuol dire comunità accogliente. Non è una questione di dottrina, che non è in discussione, ma di mentalità. La direzione deve continuare a essere quella di una Chiesa aperta concretamente a tutti».

Come si concilia il richiamo alla famiglia «tradizionale» con la dichiarazione «Fiducia supplicans» del Dicastero per la Dottrina della Fede che consente di benedire coppie omosessuali?

«Papa Leone è chiamato ad affrontare la grande sfida dell’equilibrio tra la difesa della sacralità del matrimonio fra uomo e donna e l’accoglienza delle persone gay. E tra le anime ecclesiastiche in contrasto su questi temi. D’altronde, la vitalità della Chiesa sta proprio nel “ruolo” che Gesù affida – nel Vangelo di Giovanni – allo Spirito: “Vi guiderà alla verità tutta intera”. Non si tratta di prevedere il futuro, ma di comprendere sempre più a fondo il messaggio di Dio, che è innanzitutto Padre. E più la comunità dei suoi figli diventa umana più la Parola di Cristo risplende, diventa chiara e attuale».

Che cosa intende con «diventare umana»?

«Lo Spirito è garanzia di una Chiesa capace di rispondere alle novità della storia. Perché l’umanità cambia: si modificano i modelli relazionali, le strutture sociali, le sensibilità. Di fronte a questi cambiamenti, la Chiesa non deve avere paura, ma porsi in ascolto. Ha lo Spirito che la rende viva, creativa, profetica. Il pericolo è quando, spaventata, la Chiesa si rifugia in vecchie risposte a domande nuove. Quando lo fa, le persone non ascoltano».