La «relazione speciale» Donald-Russia (corriere.it)

di Matteo Persivale

Casinò salvati con denaro di Mosca, la Trump Tower, 
le convergenze e le inchieste. 

Così il tycoon non ha mai smesso di cercare sponde

«Il Dipartimento di Giustizia mi ha autorizzato a confermare l’esistenza di un’indagine più ampia sulla potenziale collusione tra la Russia e la campagna elettorale (di Trump, ndr ). Non diremo più nulla finché non avremo concluso».

Ultime parole famose di James Comey, direttore del Fbi, il 3 maggio del 2017 in una deposizione davanti al Congresso: sei giorni dopo, il 9 maggio, non era più direttore del Fbi, licenziato via lettera dal neopresidente (il mandato del direttore è decennale,

Comey era in carica da quattro). Il giorno successivo, 10 maggio, Trump incontrava nello Studio Ovale — mai successo prima — Sergey Lavrov, ministro degli Esteri russo, e l’allora ambasciatore di Mosca a Washington Sergey Kislyak, e diceva loro: «Ho appena licenziato il capo del Fbi. Era un pazzo, un vero demente. Ho subito forti pressioni a causa della Russia. Ora la pressione è stata rimossa. Non sono sotto inchiesta».

L’uscita, irrituale come peraltro la scelta di invitare nello Studio Ovale i media russi con annesse apparecchiature elettroniche, riuscì perfino a far passare in secondo piano un’imprudente esternazione presidenziale fatta davanti ai russi: Trump si era vantato d’aver sventato un’operazione terroristica dell’Isis, informazione già di per sé top secret, e l’aveva fatto in un modo tale da indicare implicitamente che l’intelligence fosse stata raccolta dagli israeliani.

Benevolenza sospetta

Ma di cosa parliamo quando parliamo di Trump e Russia? Perché un politico che appena sceso in campo comincia ad attaccare tutti, dentro e fuori il partito, dentro e fuori il suo Paese, concede un bonus che resiste tuttora proprio alla Russia, ex nemico? Perché non c’è una scelta geopolitica trumpiana, dal 2017, che non favorisca in qualche modo — o quantomeno eviti di danneggiare — Mosca? Il disengagement americano dall’Europa attaccata spesso e volentieri da lui e dal vice JD Vance era da ottant’anni un obiettivo prioritario del Cremlino.

Si può ovviamente considerare parte di una strategia più ampia, è però evidente che la benevolenza trumpiana verso Mosca sommata allo spinoso tema delle interferenze russe, ormai accertate, nelle elezioni americane, lasci aperti molti interrogativi.

Dalla campagna elettorale del 2016 con quell’estate di passione di Hillary Clinton a causa delle e-mail democratiche hackerate, le domande si sommano. Trump per primo ne è cosciente: il suo appetito pantagruelico per le lettere maiuscole è secondo soltanto a quello per il fast food e il golf, e twittò da presidente eletto, l’11 gennaio 2017, poco prima di entrare alla Casa Bianca, un annuncio sintetico: «La Russia non ha mai cercato di fare leva su di me. NON HO NESSUN RAPPORTO CON LA RUSSIA, NESSUN AFFARE NESSUN PRESTITO NIENTE DI NIENTE!».

Da allora, più il procuratore speciale Robert Mueller — l’allora ministro della Giustizia, l’ex senatore Jeff Sessions, vecchia volpe washingtoniana, s’era saggiamente chiamato fuori dall’inchiesta passando la patata bollente — sembrava indagare sui rapporti tra campagna elettorale trumpiana e Mosca, più il presidente irrideva l’idea stessa coniando termini — «Trump è un maestro del branding», avvertì inascoltato Bill Clinton nel 2015 — come «la beffa russa» e «Russiarussiarussiarussia» intonato stile cantilena.

Eppure, da allora è partita una vasta pubblicistica che ha documentato la special relationship trumpiana con Mosca, a partire dalla sua visita moscovita nel 1987 quando era ancora un semplice palazzinaro senza ambizioni politiche.

Vantaggi reciproci

Nel libro Collusion. Come la Russia ha aiutato Trump a conquistare la Casa Bianca (Mondadori) del giornalista del Guardian Luke Harding si ipotizza una sorta di convergenza tra l’interferenza della Russia nelle elezioni presidenziali statunitensi del 2016 e i legami finanziari e personali di Trump con entità russe. Spionaggio? No, più semplicemente una relazione di reciproci vantaggi.

Già negli anni ’80 Donald cercò di varare il progetto di una Trump Tower nella Mosca sovietica, e la caduta del Muro rese possibili accordi immobiliari con oligarchi russi prima impensabili. Harding racconta nei dettagli meeting come quello alla Trump Tower del giugno 2016 in cui Donald Trump Jr., Paul Manafort e Jared Kushner incontrano l’avvocata russa Natalia Veselnitskaya per cercare informazioni compromettenti su Hillary Clinton.

Hacker a orologeria

In questo senso, colpisce anche la coincidenza dei server del comitato elettorale democratico hackerati dai russi nel 2016 i cui contenuti vengono rilanciati tramite WikiLeaks poche ore dopo la diffusione della registrazione dello show «Access Hollywood» nel quale Trump si vantava di aggredire sessualmente le donne («Se sei una star puoi farlo»): le mail hackerate dominarono i media riducendo l’impatto negativo per Trump.

Craig Unger in Casa di Trump, casa di Putin (La nave di Teseo) ha indagato sui legami decennali di Donald Trump con oligarchi russi, figure mafiose e l’intelligence di Vladimir Putin. Unger documenta come gli sfortunati casinò di Trump ad Atlantic City siano stati salvati con denaro russo negli anni ’90, e per l’autore un evento fondamentale è il concorso di Miss Universo organizzato da Trump nel 2013 a Mosca, dove cercò accordi commerciali.

Ne esce il ritratto complesso di un Trump né agente consapevole né inconsapevole «utile idiota», ma sicuramente in uno stato di dipendenza finanziaria da entità russe e soprattutto di vulnerabilità assolutamente inedito per un presidente americano.

Usa, stop a vaccini Covid per bambini e donne in gravidanza. Kennedy: “Decisione necessaria” (quotidiano.net)

Il segretario alla Salute lo ha annunciato su X. 

I Centri per la prevenzione li hanno tolti dalle raccomandazioni del calendario vaccinale. Fda: nuovi studi clinici per i richiami

Stop all’uso di vaccini contro il Covid per i bambini sani e le donne in gravidanza negli Usa. Lo ha annunciato oggi Robert F. Kennedy Jr., direttore del Dipartimento della Salute, che sottolinea: “È una decisione necessaria”.

I ‘Centers for Disease Control and Prevention’ (Cdc) statunitensi – che compongono l’agenzia sanitaria federale – non raccomanderanno più la vaccinazione di routine contro il Covid per bambini sani e donne in gravidanza.

La misura arriva una settimana dopo che il commissario della ‘Food and Drug Administration’, Marty Makary, ha annunciato che l’agenzia intende limitare il vaccino contro il Covid ad anziani, bambini e adulti con patologie pregresse.

La Fda: nuovi studi clinici per i richiami

Intanto la ‘Food and Drug Administration’ chiederà nuovi studi clinici per approvare i richiami annuali per la popolazione sotto i 65 anni. È per questo motivo che nei giorni scorsi l’azienda farmaceutica Moderna ha ritirato la richiesta di autorizzazione a commercializzare il vaccino combinato per Covid e influenza che era pendente alla FDA.

La posizione di Kennedy sui vaccini

Kennedy ha una lunga storia di opposizione a una varietà di vaccini e nel 2021, ha definito quello contro il Covid “il più letale mai prodotto“.

Il segretario alla Salute da anni sostiene, inoltre, che ci sia un legame tra i vaccini e l’autismo nei bambini.

Il segretario alla Salute Usa, Robert F. Kennedy Jr

Referendum truffa (areadraghi)

di Fabrizio Cicchitto, Giuliano Cazzola, Sergio Pizzolante, Alessandra Servidori.

Su Il Foglio

Non partecipiamo al referendum della vendetta della sinistra reazionaria contro la sinistra riformista.

L’8 e 9 giugno si svolgerà il referendum su cinque quesiti, quattro proposti dalla Cgil su temi del lavoro e uno sulla cittadinanza. Noi sottoscritti invitiamo i riformisti ad astenersi dal voto e comunque – per chi volesse recarsi al seggio – a non ritirare le schede relative ai quesiti della Cgil sostenuti anche dalla sinistra.

Nella situazione che si è venuta a determinare votare romanticamente No equivarrebbe a votare Sì perché anche un voto negativo o una scheda bianca nell’urna concorrerebbero al raggiungimento del quorum e alla vittoria del Sì; non è in campo, infatti, uno schieramento per il No adeguato a competere con l’offensiva di risorse e mezzi investiti dai sostenitori del Sì.

Non a caso la sinistra è impegnata prioritariamente a fare campagna per il voto. La linea dell’astensione, con l’obiettivo del fallimento del quorum, diventa oggettivamente l’unico modo possibile per difendere l’operato della sinistra riformista al governo.

Entrando nel merito, già dal quesito-bandiera per l’abrogazione del c.d. jobs act (il dlgs n.23/2015 che ha istituito il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti) si manifesta il disegno truffaldino del referendum, perché gli effetti non sarebbero quelli promessi dai promotori.

Lo spiega con chiarezza la sentenza (n.12/2025) con cui la Corte Costituzione ha ammesso il quesito, nel senso che non tornerebbe in vigore la disciplina dell’articolo 18 con gli effetti previsti dallo Statuto del 1970 (ovvero la reintegra in ogni fattispecie di licenziamento illegittimo). La norma applicabile, in caso di vittoria dei Sì, sarebbe l’articolo 18 novellato dalla legge n.92 del 2012, il quale stabilisce che la sanzione ordinaria in caso di licenziamento per motivi oggettivi (economici) ritenuto illegittimo è l’indennità risarcitoria, non più la reintegra.

La Consulta mette, poi, in evidenza ‘’ la circostanza che all’esito dell’approvazione del quesito abrogativo il risultato di un ampliamento delle garanzie per il lavoratore non si verificherebbe nella realtà in tutte le ipotesi di invalidità, perché in alcuni casi particolari si avrebbe, invece, un arretramento di tutela’’. Ecco la truffa che vorrebbe dissimulare l’ obiettivo politico di azzerare la stagione riformista del lavoro.

E’ l’autodafé del populismo di sinistra che annuncia il nuovo corso dell’improbabile Campo Largo Schlein-Conte-Bonelli&Fratoianni, tutti appassionatamente insieme a Maurizio Landini nella sua rivolta sociale. Gli altri quesiti sono particolarmente punitivi per le imprese e di conseguenza per l’occupazione. Quello sui contratti a termine – in caso di vittoria del Sì – finirebbe per intralciare un processo in atto che vede, nel contesto di una tendenza consolidata all’incremento dell’occupazione, un aumento del lavoro stabile rispetto a quello a tempo determinato.

L’introduzione di una causale fin dall’inizio del rapporto di lavoro toglierebbe ogni flessibilità all’istituto e aumenterebbe un contenzioso strumentale. Nel quesito in materia di appalti il Sì imporrebbe all’azienda committente la corresponsabilità solidale (già è prevista in generale) anche nel caso di un rischio estraneo alla sua attività normale.

Il prevalere del Sì nel combinato disposto tra il quesito sul jobs act e quello sulle piccole imprese determinerebbe l’effetto paradossale per cui, in conseguenza dell’abrogazione del tetto dell’indennità da decenni fissato a sei mesi di retribuzione, le imprese di minime dimensioni potrebbero essere condannate a indennizzi senza limiti, mentre si ridurrebbe, ex lege, il limite massimo dell’indennizzo da 36 a 24 mensilità, per le imprese maggiori.

Per questi motivi di ordine politico, tecnico/giuridico e operativo raccomandiamo l’astensione in tutti i quesiti sul lavoro, contro un referendum inutile, dannoso, promosso da una sinistra reazionaria.

Conte, buco nero Superbonus: quanto continuiamo a pagare

di Antonio Castro

Mister Giuseppi - rispolverato ironicamente da 
Giorgia Meloni proprio nei giorni scorsi - 
continua a costarci un patrimonio. 

O meglio: i provvedimenti attuati dal governo Conte – per tentare di rilanciare l’economia dopo la fase pandemica- come il 110% per sostenere il settore edilizio continuano a pesare (non poco) sui conti pubblici.

Considerando che da quest’anno il contributo di sconti fiscali è stato limato al 65%, già nei primi tre mesi del 2025 gli oneri a carico dello Stato sono lievitati di altri 1,8 miliardi di euro. Tirando le somme – come fanno dal centro studi della Cgia di Mestre- il valore economico complessivo del vantaggio fiscale riconosciuto a coloro che hanno utilizzato l’incentivo per finanziare i lavori di ristrutturazione/efficientamento energetico delle proprie abitazioni è decollato oltre i 126 miliardi.

C’è da augurarsi che il 2025 rappresenti l’ultimo periodo appesantimento dei costi per i contribuenti italiani. A normativa vigente (e quindi escludendo ulteriori correttivi dopo la mitragliata di provvedimenti del governo Draghi), dal 2026, infatti, il Superbonus non sarà più utilizzabile. Stadi fatto che tra gennaio e marzo 2025 le uscite i rubinetti finanziari sono rimasti copiosamente aperti.

Chi politicamente lo ha voluto continua a difendere il provvedimento, sostenendo di contro che non si debba guardare solo alla spesa che lo Stato, ma alzare lo sguardo e bilanciare l’esborso pubblico con il ritorno generato (maggior gettito Irpef, Ires, Iva, etc.).

Senza dimenticare l’effetto leva sull’occupazione, sul Pil, e alla lunga sul maggiore risparmio energetica. Tra fine 2020 e dicembre 2023 i costi di costruzione e materie prime necessarie sarebbero aumentati del 20%. Sono spuntate come funghi società di ristrutturazione e costruzione per effetto proprio dell’appetibile Superbonus. Così come tantissime micro attività stanno chiudendo.

Fdi inchioda Conte: “Per te la festa è finita”

Nelle ultime ore Giuseppe Conte è sempre di più nel mirino di FdI. Il leader dei Cinque Stelle ha infatti …

Tesi affascinante purtroppo (smentita, almeno in parte) da alcuni approfondimenti della dalla Banca d’Italia. I ricercatori di via Nazionale hanno sottolineato che da una indagine che ha interessato i beneficiari de Superbonus, il 25% dei i proprietari li avrebbe realizzati comunque, gravando inutilmente sulle casse dello Stato per almeno 45 miliardi di euro.

Come se non bastasse i tecnici di Palazzo Kock più e più volte hanno sottolineato la «natura regressiva di questa agevolazione fiscale destinata al miglioramento dell’efficienza energetica degli edifici». Gli fa eco anche la Corte di Conti che ha denunciato come le risorse pubbliche impegnate per il Superbonus abbiano interessato, in particolare, le persone più abbienti.

A livello nazionale, l’onere medio per edificio residenziale a carico dello Stato è stato di 252.147 euro. Il picco massimo è stato in Valle d’Aosta (402.014 euro per immobile), seguono Liguria (306.240), Campania (304.692), Basilicata (304.681) e la Lombardia ( 303.757). A guardar bene c’è chi ha approfittato dell’incentivo per rimettere in sesto a spese della collettività la bellezza di 8 castelli.

Secondo il focus realizzato per il Parlamento ogni magione definibile “castello” ha beneficiato di incentivi per la bellezza di 242.212,39 euro. C’è da augurarsi almeno che i legittimi proprietari delle fortezze applichino uno sconto sui biglietti di ingresso. I dati messi in colonna dall’Enea titolare della rendicontazione degli interventi approvati – parlando di un totale di 1.082.833,15 euro.

Per un totale di investimenti certificati pari a 1.937.699,12.