Putin continua a prendere in giro Trump, e intanto la guerra continua (linkiesta.it)

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Circonvenzione di pace

Il dittatore del Cremlino intorta ancora una volta l’americano («strada giusta») ma non concede nulla, e non ferma i missili sull’Ucraina.

Papa Leone, Zelensky e i volenterosi attendono anche questo giro di valzer, cui Meloni si è dovuta aggregare per non restare isolata

Tutti vogliono una tregua. Tutti, tranne uno: il criminale di guerra Vladimir Vladimirovič Putin, l’uomo che non vuole incontrare nessuno, né Donald Trump, né tantomeno Volodymyr Zelensky, che sarebbe prontissimo a negoziati diretti. Un dittatore politicamente braccato che – come ha detto J.D. Vance, per una volta giustamente, è come minimo insicuro: «L’impressione è che il presidente russo non sappia come uscire da questa guerra».

Pressato dalle democrazie europee – in questo senso è il rovesciamento di Monaco 1938 – Trump ha rotto gli indugi e vorrebbe interpretare un ruolo di mediazione, anche se, date le caratteristiche di totale inaffidabilità che lo contraddistinguono, è difficile capire a che gioco giochi.

Fatto sta che, come abbondantemente annunciato, ieri, Trump è stato a lungo al telefono con Putin. Il presidente americano ha scritto sul suo social che «negoziati partiranno subito»: o non ha capito come funziona Putin, o è solo un wishful thinking, perché lo zar non ha preso alcun impegno.

Cosa frulli nel cervello di mad Vlad, non è facile da intuire, anche se è chiarissimo cosa vuole: cancellare la sovranità e l’identità nazionale dell’Ucraina. A quanto hanno riferito le agenzie russe – ovviamente è tutta propaganda – la conversazione con Trump, per Putin, è stata «significativa, franca e molto utile. Siamo sulla strada giusta».

È il solito gioco delle carte in perfetto stile Pcus: prima si fanno gli accordi, poi la tregua, cioè il contrario di quanto propongono l’Ucraina e i suoi alleati politici. Dal Cremlino hanno fatto sapere che ci sono molti dettagli da definire, «un gran numero di sfumature», e che non è in previsione alcun incontro con il presidente americano: l’ennesimo esempio di come buttare la palla in tribuna, così che lo stallo continua.

Ma va davvero evidenziato l’indubbio risultato politico ottenuto dal presidente ucraino, riuscito a passare da una condizione di quasi isolamento – culminata con la vergognosa scazzottata nello Studio ovale ad opera di Trump e Vance – a una posizione politicamente forte, grazie alla sua capacità di fare tre cose: smuovere gli europei, creare un rapporto positivo con il nuovo Pontefice –  tanto che il Vaticano è tornato a offrire la propria disponibilità a ospitare i negoziati – e infine ricostruire una relazione con il presidente americano, che pure lo aveva svillaneggiato davanti a tutto il mondo.

Mentre la Russia continua a bombardare il territorio ucraino, le democrazie occidentali, ivi compresa l’America, pensano a nuove sanzioni.

Quello che è certo è che lo schieramento democratico dei Volenterosi ha preso in mano la situazione, al punto che Giorgia Meloni ha dovuto smettere di fare la gatta sul tetto che scotta e, in extremis, nella notte di domenica ha chiesto per favore di poter partecipare alla telefonata di Emmanuel Macron, Friedrich Merz e Keir Starmer con il presidente degli Stati Uniti.

Ovviamente è stata accontentata, e la telefonata di è ripetuta ieri dopo il colloqui Trump-Putin, perché quelli, a differenza di lei, non mettono il muso. È arrivata pure lei, buon’ultima.

#Ukraina (areadraghi)

di Marco Setaccioli
Guerriglia Antigrullina
Caro @marcotravaglio, qualche sera fa ho assistito alla tua ennesima performance di propaganda ad @OttoemezzoTW cui ha partecipato, in qualità di tuo complice, anche Lucio Caracciolo e continuo a trovare incredibile la naturalezza con la quale, senza vergogna, menti pubblicamente, in violazione delle regole etiche e deontologiche che dovrebbero guidare il tuo lavoro.
Quando sostieni che il mito – o meglio “balla” come l’ha definita @paolomieli – della responsabilità di @BorisJohnson nel naufragio dei colloqui tra Russia e Ucraina nel 2022 a Istanbul sarebbe avvalorata dalle parole del capo negoziatore della delegazione di Kyiv David Arakhamia, mi domando se tu quell’intervista l’abbia mai veramente ascoltata o ti sia invece limitato a fare il copia e incolla delle manipolazioni che ne hanno fatto i principali organi di disinformazione pro Mosca.
Io l’ho fatto. L’intervista è stata rilasciata alla giornalista e autrice ucraina Natalia Moseichuk, ed è andata in onda il 24 novembre 2023 sul canale 1+1. A circa un terzo del lungo confronto si parla proprio dei colloqui a Istanbul, in merito ai quali il funzionario dichiara esattamente il contrario di quello che tu sostieni.
In particolare Arakhamia conferma che il punto centrale delle richieste di Mosca fosse la non adesione alla NATO, ma non dice affatto che era stato raggiunto un accordo. In vari interventi tv ed editoriali tu parli di 18 bozze che le delegazioni si sarebbero scambiati e di una finale persino firmata.
Queste affermazioni erano state fatte da Putin in persona davanti ad una rappresentanza di alcuni leader africani ai quali aveva persino detto che quel documento si chiamasse “Accordo sulla neutralità permanente dell’Ucraina e sulle garanzie di sicurezza”.
Se tu avessi veramente ascoltato l’intervista di Arakhamia, sapresti che quel documento semplicemente non esiste, tanto che l’intervistato fa notare alla giornalista che, se fosse stato reale, Putin non avrebbe esitato a mostrarlo, cosa che invece non ha mai fatto.
La ragione è semplice e ovvia per chiunque sappia come funziona una democrazia: la delegazione non aveva potere di firmare nulla, tanto più un accordo in violazione della costituzione Ucraina (che prevede l’obiettivo dell’adesione alla NATO dal 2019). Un eventuale accordo lo avrebbe semmai potuto firmare il Presidente, per poi sottoporlo al vaglio della Rada, che a differenza di quanto avviene con la Duma in Russia, a Kyiv non è un organismo di mera ratifica.
L’intervistatrice peraltro incalza Arakhamia, chiedendo il perché non avessero accettato quelle condizioni. E lui spiega ciò che tutti tranne te e Caracciolo sanno bene, e cioè che dopo 8 anni di annessioni, scontri e provocazioni l’Ucraina pretendeva garanzie per la propria sicurezza che Mosca non era disposta a dare.
Segue poi una domanda diretta sul ruolo di Johnson e sulle sue presunte ingerenze, alla quale il consigliere risponde chiaramente che si tratta di menzogne dette da chi vuole interferire politicamente e che quella di non firmare fosse appunto, invece, una scelta della parte Ucraina, a causa delle condizioni poste dalla Russia, oltre che per i vincoli giuridici e costituzionali.
Johnson visitò effettivamente Kyiv, ma, come spiega Arakhamia, quel viaggio era avvenuto dopo il rientro della delegazione da Istanbul. Lo stesso intervistato precisa anche che l’Ucraina non aveva ricevuto alcuna pressione dai partner occidentali, i quali avevano accesso alle bozze di accordo, ma che non erano nemmeno al corrente di tutti i dettagli dei colloqui.
Di fatto quindi quella dell’intervento di Johnson resta una balla colossale, come sostenuto anche da Foreign Affairs e New York Times, mentre le tue presunte prove sono menzogne di disinformazione, incredibilmente identiche a quelle diffuse dal Cremlino e che tu ripeti da bravo e obbediente propagandista, anziché verificarle come invece dovrebbe fare un giornalista.
Dimostrami che sono io che mento, se ci riesci. Qui o di persona. Io ci sto.
Potrebbe essere un'immagine raffigurante 6 persone, televisione, redazione e il seguente testo "Οπο EMEZZO TRUMP, PUTIN E ZELENSKY: QUANDO LA SVOLTA? attd lia CORRADO FO PIAZZA ALL TO EMEZZO u TRUMP, PUTIN E ZELENSKY: QUANDO LA SVOLTA? CORRADO W FORMI N PIAZZAPUL ALLE"

La guerra diplomatica tra Ungheria e Ucraina: un nuovo fronte di destabilizzazione in Europa (valigiablu.it)

Viktor Orban al microfono, parla al Parlamento Europeo

La recente espulsione reciproca di diplomatici tra Ungheria e Ucraina è solo l’ultimo atto di una crisi che affonda le radici in una rete intricata di sospetti, interessi nazionali, tensioni etniche e strategie geopolitiche.

Il caso, esploso pubblicamente il 9 maggio 2025, ha segnato un probabile punto di non ritorno nelle già delicate relazioni tra Budapest e Kyiv.

A innescare la crisi è stata la scoperta, da parte dei servizi di sicurezza ucraini (SBU), di una presunta rete di spionaggio riconducibile all’intelligence militare ungherese. Secondo l’SBU, due ex militari ucraini sarebbero stati reclutati da agenti di Budapest per ottenere informazioni sensibili su sistemi di difesa aerea e infrastrutture militari nel cuore della regione transcarpatica, dove c’è un’alta presenza di ungheresi etnici.

Nell’ambito dell’operazione, l’SBU ha arrestato due veterani dell’esercito ucraino, pubblicando un video dell’interrogatorio di uno dei due, con il volto sfocato. L’SBU ha dichiarato che uno dei detenuti era stato reclutato nel 2021 come agente dormiente, salvo poi venire “attivato” nel 2024. L’uomo avrebbe ricevuto una somma in contanti durante un incontro in Ungheria: un pagamento per le informazioni fornite e per aver aiutato a reclutare altre persone nella rete di informatori.

In risposta alla presunta attività di intelligence, Kyiv ha immediatamente espulso due diplomatici ungheresi. “Agiamo nel rispetto del principio di reciprocità e nell’interesse della sicurezza nazionale”, ha dichiarato su X il ministro degli Esteri ucraino Andrii Sybiha. La reazione ungherese non si è fatta attendere. Il ministro degli Esteri Péter Szijjártó ha definito le accuse “propaganda ucraina” e ha annunciato l’espulsione di due funzionari dell’ambasciata ucraina a Budapest, ritenuti “spie sotto copertura diplomatica”.

L’episodio è arrivato proprio quando le due nazioni stavano tentando un difficile riavvicinamento. Era previsto un incontro bilaterale il 12 maggio per discutere i diritti delle minoranze, ma è stato annullato all’ultimo minuto da parte ungherese.

“In questo clima non può esserci un confronto costruttivo”, ha dichiarato il vice ministro degli Esteri Levente Magyar. In una conferenza stampa, il ministro degli Esteri Peter Szijjarto ha bollato la mossa di Kyiv come “propaganda”, annunciando a propria volta l’espulsione dal paese di due diplomatici ucraini.

Il Primo Ministro Viktor Orbán ha dichiarato che l’arresto delle due presunte spie ungheresi rappresenta un “attacco dell’intelligence ucraina lanciata dall’Ucraina”. Secondo Orbán, il partito di opposizione Tisza avrebbe collaborato all’operazione. La narrazione in atto è chiara: ricorrere al complotto e cercare di far passare il leader dell’opposizione Peter Magyar per un agente straniero.

La propaganda anti-Ucraina di Orbán

Questa nuova fase nelle relazioni dei due paesi chiama in causa divergenze storiche e culturali mai sanate, in particolare sul tema della minoranza ungherese in Ucraina. In Ucraina, nell’oblast’ della Transcarpazia, vivono circa 150 mila ungheresi etnici. Negli ultimi anni, le leggi ucraine sulla lingua e sull’istruzione, che impongono una quota minima di utilizzo dell’ucraino nell’istruzione pubblica, sono state viste da Budapest come un affronto ai diritti delle minoranze.

Kyiv ha ribattuto sostenendo che la misura serve a garantire l’integrazione e l’unità nazionale in un paese martoriato dalla guerra, e denuncia da tempo l’uso ungherese di una retorica molto simile a quella usata dalla Russia per giustificare prima l’occupazione della Crimea e poi l’invasione del 2022.

La retorica nazionalista di Orbán è infatti infarcita di inviti all’unità di “tutti gli ungheresi” e chiama in causa il mito “Grande Ungheria”, di cui farebbe parte anche la Transcarpazia. All’opposto, l’Ucraina è spesso definita “terra di nessuno” o “zona chiamata Ucraina”. Oppure è descritta come un paese corrotto in mano alle mafie.

Come riferisce Deutsche Welle, il governo sta inoltre veicolando sentimenti anti-ucraini nel paese anche come strategia per contenere la crescente opposizione nel paese, guidata da Péter Magyar, il leader di Tisza.

La campagna punta a ricompattare il paese in chiave patriottica e contro Bruxelles e a sabotare qualunque processo di adesione dell’Ucraina all’Unione Europea. Su questo punto, è prevista una consultazione nazionale per il 20 giugno in cui i cittadini ungheresi dovranno esprimersi sull’eventuale adesione dell’Ucraina all’Unione Europea. “Bruxelles sta scherzando col fuoco”, dice uno dei video della campagna, “se l’Ucraina entrasse nell’Unione europea, la mafia ucraina entrerà in Ungheria senza incontrare ostacoli”.

La scoperta di una rete di spie denunciata dall’SBU si inserisce poi nel contesto dei rapporti del presidente ungherese Viktor Orbán con il Cremlino. Budapest è di fatto l’unico paese dell’UE ad aver mantenuto i rapporti con Mosca. In più occasioni, dall’inizio dell’invasione su larga scala, l’Ungheria ha inoltre bloccato al Consiglio europeo l’invio di aiuti all’Ucraina, imponendo un estenuante braccio di ferro per farli sbloccare.

Nel luglio 2024, la Commissione europea aveva deciso di boicottare il semestre di presidenza ungherese del Consiglio dell’UE, dopo la decisione di Orbán di recarsi a Mosca e Pechino per incontrare rispettivamente Vladimir Putin e Xi Jinping. A marzo c’è stata una nuova visita a Mosca, stavolta da parte del ministro degli esteri ungherese.

La “fase zero della strada che porta alla guerra”?

La guerra diplomatica tra Kyiv e Budapest è scoppiata a margine di un episodio che vede protagonista proprio Péter Magyar. Il giorno prima dell’espulsione dei due diplomatici ungheresi, Magyar ha diffuso un leak audio che risalirebbe all’aprile 2023, e che secondo il leader dell’opposizione sconfessa apertamente le bugie dette finora dal governo sulla “pace”.

Nella registrazione, il ministro della Difesa Kristóf Szalay-Bobrovniczky afferma che il governo Orbán sta trasformando l’esercito per abbandonare la “mentalità pacifista” e avviare la “fase zero del percorso verso la guerra”. A guidare questa trasformazione è il tenente generale Böröndi Gábor, oggi capo di stato maggiore.

Nello stesso discorso, Szalay-Bobrovniczky ammette che ciò che è stato presentato al pubblico come “ringiovanimento” delle forze armate è in realtà un’epurazione sistematica degli ufficiali NATO, per sostituirli con nuovi quadri fedeli alla linea governativa. In un thread su Bluesky, il giornalista investigativo ungherese Szabolcs Panyi ha detto che l’audio “dovrebbe far preoccupare gli alleati NATO dell’Ungheria”, benché allo stato attuale non si possa andare al di là delle ipotesi. Il paese ha incrementato la capacità militare soprattutto con veicoli di fanteria, carri armati e armi da fuoco.

Se ciò è avvenuto in preparazione di una possibile guerra, dice Panyi, “è sicuramente per condurre attacchi via terra, o per schierare forze corazzate e di fanteria da qualche parte vicino all’Ungheria”.

Guerra ibrida, sabotaggi ed espulsioni

C’è infine da considerare come in queste settimane anche in altri paesi europei si siano registrate analoghe crisi diplomatiche, arresti e persino accuse di sabotaggi, in quadro di vera e propria guerra ibrida che vede chiamata in causa la Russia. Solo l’anno scorso, secondo un rapporto Center for Strategic and International Studies, il numero di sabotaggi in Europa riconducibili alla Russia è quasi triplicato, passando dai 12 del 2023 a 34.

Lunedì, come riportato dal Guardian, sono stati incarcerati sei bulgari accusati di spionaggio per conto della Russia. Orlin Roussev, a capo dell’organizzazione, si è dichiarato colpevole ed è stato condannato a 10 anni e 8 mesi. Il suo gruppo ha compiuto sei operazioni che “hanno messo a rischio la sicurezza nazionale e l’incolumità dei cittadini”, conducendo operazioni di intelligence tra il 2020 e il 2023 che hanno avuto come bersaglio giornalisti e dissidenti russi. Gli altri imputati sono stati condannati per pene che vanno dai sei ai 10 anni.

Nella stessa giornata, sono arrivate le accuse di sabotaggio mosse dalla Polonia nei confronti della Russia. Secondo il ministro degli Esteri polacco Radek Sikorski, il suo paese avrebbe infatti le prove che la Russia ha reclutato tramite Telegram dei sabotatori che nel maggio 2024 hanno provocato l’incendio nel centro commerciale di Varsavia.

Il centro ospitava circa 1400 tra negozi e punti di servizio, ed è andato completamente distrutto nell’incendio. Sikorski ha definito “inaccettabili” le azioni di Mosca e ha annunciato la chiusura di un secondo consolato russo in Polonia. Il Cremlino ha tuttavia negato ogni responsabilità, e il portavoce  Dmitry Peskov ha accusato la Polonia di “russofoba”. Lo scorso marzo le autorità lituane avevano accusato la Russia di un incendio che aveva colpito un centro Ikea nella capitale di Vilnius, sempre nel 2024.

I servizi segreti di Grecia e Lituania avrebbero invece scoperto una rete di spie collegate alla Russia operativa in Grecia, Cipro, Bulgaria, Montenegro e Lituania. Al centro del caso due cittadini georgiani di origini greche. Come riferito dal quotidiano Ī Kathīmerinī, un primo sospettato è stato arrestato a marzo in Lituania con l’accusa di aver organizzato l’uccisione di un dissidente russo.

Il secondo è stato invece arrestato in Grecia la scorsa settimana con l’accusa di spionaggio. Sempre in Grecia, nel 2024, era stata scoperta un’attività di dell’intelligence militare russa attiva nel nord del paese. Per gli inquirenti potrebbe essere collegata al recente arresto.

Ieri è arrivata la notizia del fermo di un diplomatico svedese da parte della Säpo, un ramo dei servizi di intelligence del paese. Il diplomatico è sospettato di attività di spionaggio e ha lavorato in diverse ambasciate nel mondo. La Säpo sta inoltre indagando su possibili collegamenti tra l’attività del sospettato e le dimissioni di Tobias Thyberg.

Ex ambasciatore in Ucraina e Afghanistan, Thyberg si è dimesso da consigliere per la sicurezza nazionale lo scorso giovedì, appena poche ore dopo la nomina, a causa di alcune sue foto intime prese dall’app di incontri Grindr e inviate al governo. Lo scorso marzo la Säpo aveva lanciato l’allarme su possibili operazioni ibride nel paese da parte di potenze straniere che mirano a destabilizzare il paese e l’Europa.

Nel quadro della stessa strategia destabilizzante, tre cittadini ucraini sono stati arrestati in Germania e Svizzera con l’accusa di pianificare attentati con pacchi bomba per conto della Russia. Secondo la procura federale tedesca, gli arrestati – identificati solo come Vladyslav T., Daniil B. e Yevhen B. – avrebbero organizzato, almeno da marzo 2025, un piano di sabotaggio volto a colpire il trasporto merci tedesco. I pacchi, destinati all’Ucraina, avrebbero dovuto esplodere durante il tragitto.

Le autorità hanno parlato di “attività da agente segreto finalizzata al sabotaggio”, all’interno di una più ampia “minaccia ibrida” sostenuta da Mosca. Già nel 2024 pacchi esplosivi spediti da una rete analoga avevano causato incendi a Birmingham, Lipsia e vicino Varsavia. Secondo le autorità tedesche, i dispositivi erano stati camuffati da oggetti comuni e sarebbero potuti esplodere in volo, provocando potenzialmente la caduta di un aereo.

Ci sono quelli che si sognano rivoluzionari, ma sono riluttanti a riconoscere una rivoluzione (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola Posta

Ho partecipato a un incontro della terza edizione del festival “Verona Èuropa” sul Maidan 2014. Una piazza di rivoluzione, anche se molti faticano ad ammetterlo. Anche per Budapest nel ’56, quasi nessuno andò oltre la dicitura “I fatti di Ungheria”. I fatti trovano spesso i loro impostori

Ieri sono venuto a Verona. Venivo da Milano, in pieno giorno, e il breve viaggio in treno offre la vista, e ancor più l’immaginazione, del lago di Garda. Ero scalzo in albergo da tre quarti d’ora quando una mail di Trenitalia mi ha comunicato che il mio treno Frecciarossa ecc. era in ritardo di 9 minuti, cordiali saluti.

Non era utile, ma come le cose superflue, Mozart per esempio, aveva qualcosa di energico. Sono venuto a Verona per la terza edizione di un festival intitolato “Verona Èuropa” – naturalmente la E con l’accento non è lì per sbaglio. Il tema mio e dei miei brillanti ospiti, Olivia Guaraldo e Giacomo Mormino, era l’Europa vista da Maidan 2014.

Maidan, ormai lo sappiamo, vuol dire piazza. Quella piazza di Kyiv lo è diventata per antonomasia: la piazza di una rivoluzione. L’occasione, la traduzione italiana del libro di Marci Shore, “La notte ucraina. Storia da una rivoluzione” (nell’originale, uscito nel 2017, “An intimate history of revolution”, che forse si poteva tenere, la storia intima), per Castelvecchi.

C’è sempre parecchia gente, compresi alcuni che si sognano rivoluzionari, riluttante, o capricciosamente contraria, a riconoscere le rivoluzioni, quando succedono davvero. Specialmente all’insaputa. L’Ungheria del ’56, per esempio, non riuscì quasi mai ad andare oltre la dicitura di “I fatti di Ungheria”. I fatti trovano spesso i loro impostori.

L’incontro era uno del programma patrocinato creativamente, per il comune veronese, dalla sua responsabile culturale, Francesca Rossi.  Mi piacerebbe scrivere che il ritardo ingente col quale il libro esce da noi, nella traduzione di Guaraldo e per la cura sua e di Mormino, sembra riscattato dalla coincidenza con una vera apertura di negoziato sulla fine della guerra. Solo che non ci credo. Magari.

Dunque aspettiamo. Aspettando, vi racconto, dal libro, l’antica barzelletta sull’ebreo che arriva in un nuovo paese. Se ha il violino, è un violinista. Se non ha il violino, è un pianista. Nostalgia delle vecchie barzellette. E poi il libro prosegue sul rapporto fra il Creatore e la musica.

“Dio suona l’uomo, e l’uomo suona il mandolino”. Il giorno prima, a Milano, in un incontro promosso dal quotidiano Domani, avevo avuto il piacere di rivedere e riascoltare il mio amato Mauro Pagani, intervistato sulla musica da Angelo Carotenuto.

Il quale gli ha chiesto se Dio faccia musica. “Penso proprio di sì”. E che strumento suona? “Be’, l’arpa, direi”. Poi Mauro ci ha pensato, e ha completato: “Ma qualche volta anche il trombone”.

(LaPresse)

Merz salva Meloni dall’isolamento. Ma il vero scoglio sarà la difesa comune (ildubbio.news)

di Paolo Delgado

Dopo le sberle di Macron alla premier italiana, 
per la Germania Roma «è partner irrinunciabile»

Non le è andata bene ma poteva andarle peggio. I dieci giorni più lunghi per Giorgia Meloni non sono finiti come sperava ma neppure come aveva tutte le ragioni per temere.

A Tirana aveva toccato con mano quanto l’Italia fosse ormai isolata e circondata da sospetti e diffidenze in Europa, esperienza ben poco gradevole attraverso la quale il suo ministro degli Esteri era già passato qualche giorno prima a Londra e la brutta esperienza aveva lasciato il segno.

Lo sganassone di Monsieur Macron, in quella cornice, suonava come il colpo di grazia e avrebbe potuto esserlo. Ma Giorgia è una combattente. Ha reagito con prontezza, ha chiesto e ottenuto il soccorso dell’alleato su cui conta da sempre in Europa, il Ppe, ed è riuscita a rompere l’assedio.

Oggi mattina presto, in orario davvero inconsueto, palazzo Chigi ha comunicato che nella telefonata di gruppo con Trump nella notte Meloni c’era. Con Merz, Macron e Starmer. Senza il polacco Tusk. Quasi una telefonata riparatrice, perché proprio la presenza della Polonia ma non dell’Italia nella precedente riunione con il presidente Usa al telefono, quella di Tirana, aveva dato il segno di quanto Roma fosse ormai marginale.

Subito prima c’era stata la notizia, sino a quel momento riservata, di una precedente telefonata fra la premier e il presidente americano, subito dopo lo sgarbo di Tirana e ancora prima l’incontro orchestrato dal capo del governo italiano tra JD Vance, il numero due della Casa Bianca, e Ursula von der Leyen, la Signora di palazzo Berlaymont. Un colloquio senza esiti tangibili, significativo quasi solo sul piano simbolico ma utile alla premier salutata dall’Hillbilly di Washington come “Ponte tra Usa e Ue”.

La vera svolta però c’era già stata, nel colloquio e poi nella lunga conferenza stampa di sabato con il cancelliere tedesco. Il Popolare Merz, sul piano del ruolo internazionale, ha concesso all’italiana moltissimo: la ha confermata «partner strategico irrinunciabile» della Germania, ha quasi fatto capire di avere con l’Italia un rapporto più intimo che con gli altri pur fondamentale alleati europei, ha escluso, alla faccia di decine di dichiarazioni precedenti di Starmer e Macron, che sia sul tavolo qualche ipotesi di invio di truppe in Ucraina, aprendo così una porta che permette alla premier di rientrare nel gruppo di testa europeo, le aveva anzi praticamente chiesto di rientrare di corsa in quel gruppo.

La Germania è la Germania. Il suo peso in Europa resta indiscusso. Merz, cioè il Ppe, ha salvato Giorgia dall’umiliazione e dall’essere relegata ai margini. Ma il prezzo della salvezza non è economico. Nel lungo bilaterale Merz e Meloni non hanno certo parlato solo di Ucraina.

Su tutto quel che attiene agli sviluppi interni all’Unione europea, dall’accordo di libero scambio che l’Italia esita a firmare ai «movimenti secondari» degli immigrati irregolari sino agli strumenti di finanziamento del Piano di Riarmo, il cancelliere è stato, a detta delle stesse voci da palazzo Chigi, «molto rigido».

L’appoggio della Germania è prezioso ma costerà caro. Nella settimana di passione poi, e anzi soprattutto, si è bruciata ogni chimera di equidistanza italiana fra Usa e Ue. Anche qui Merz, come prima di lui la Ppe von der Leyen, ha dato una mano a Giorgia, esprimendo pieno apprezzamento per la sua missione a Washington. Non mentiva. Nessuno in Europa vuole arrivare alla rottura con gli Usa. Qualsiasi appiglio per una soluzione negoziata della guerra dei dazi, al momento solo congelata, è davvero ben accolto.

Ma una cosa sono i dazi, capitolo fondamentale, e un’altra l’Ucraina. Ancora oggi, come sempre negli ultimi anni, l’elemento che sovraordina tutti gli altri è l’Ucraina. L’Europa si sente, e in realtà è davvero, in guerra: nessuna rottura del fronte può essere accettata.

Grazie all’Ucraina la leader della destra italiana è stata accolta in tempi brevissimi nel novero dei leader affidabili, quello da cui sono esclusi tutti gli Orbàn, i Simion, le Marine Le Pen w i Salvini d’Europa. Lì nessun passo indietro, neppure se limitato ai toni, può essere accettato. Lì neppure il larghissimo ombrello del Ppe mette al riparo. Ora Giorgia lo sa.

E’ rientrata nel gruppo di testa europeo. Ma a sovranità limitata.

Associated Press/LaPresse , APN (Associated Press/LaPresse APN)