di Guia Soncini
L’avvelenata
Ad Atlanta, una donna è morta ma non poteva morire perché era incinta di nove settimane e la legge della Georgia dice che il feto lo puoi sopprimere solo se mette in pericolo la vita della madre, che però è già morta.
Questo strazio durerà altri tre mesi, ma chissà chi pagherà le cifre assurde della sanità americana
Questa non è la storia della mia saturazione – anche, ma non solo. Questa non è la storia di quell’infinito pasticcio che è la mediazione tra il non poter costringere qualcuna a essere incinta contro la sua volontà, e l’etica di quelli per cui l’aborto è un omicidio – anche, ma non solo. Questa è la storia d’un mondo in cui non si capisce più niente.
Qualche giorno fa un tg locale della Nbc intervista April Newkirk, una signora che racconta che alla figlia è successo quello che è l’incubo di tutti noi: è andata in ospedale con un mal di testa devastante, l’hanno rimandata a casa probabilmente con un Tylenol (la Tachipirina americana), era un’emorragia cerebrale, è morta.
Solo che il nostro comune incubo ha, nel caso di Adriana Smith, uno strato di incubo in più. Solo che Adriana era morta ma non poteva morire, perché era incinta di nove settimane, e la legge della Georgia – il tutto succede ad Atlanta – dice che dopo le sei settimane di gestazione il feto lo puoi sopprimere solo se mette in pericolo la vita della madre. E la madre è già morta, quindi il feto che male può farle.
Era febbraio. In genere dubito di queste vicende che sembrano fatte apposta per la propaganda contro l’abolizione di Roe v. Wade (il precedente che rendeva possibile l’aborto negli Stati Uniti, non esistendo una legge federale che lo tuteli), ma qui c’è una signora che parla a un tg, non una storia riportata da chissà chi e successa a chissà chi. Dice la Associated Press che Adriana è attaccata alle macchine da tre mesi e dovrà restarci altri tre, ma nel frattempo c’è un altro problema.
All’altro problema arrivo tra poco, perché prima voglio dirvi che, se fossi un’americana, farei meno campagna su quest’andazzo di farti restare incinta a forza citando “Il racconto dell’ancella”, e invece parlerei di più dell’unico tema che capisce chiunque, qualunque sia la sua etica rispetto all’inizio della vita: i soldi.
Non molto tempo fa, mi sono svegliata in una sala operatoria italiana mentre un’anestesista dal tono preoccupato mi chiedeva perché avessi la saturazione bassa. Non ricordo se ho dato la risposta logica – «E io che ne so, i medici siete voi» – ma so che per i giorni successivi venivano continuamente a misurarmela, erano sempre più preoccupati e determinati a invertire l’onere della competenza («Ma di solito come ce l’ha?» «Ma secondo lei io di solito mi misuro la saturazione?»), e soprattutto mi hanno attaccata a una boccia di ossigeno che me lo sparava nel naso (senza che il valore crescesse abbastanza da rassicurare le anestesiste e le infermiere).
Ogni tanto qualcuno pubblica conti di ospedali americani, e fa molto ridere che facciano pagare qualunque voce, e cifre assurde. Il Tylenol – lo so perché è il mio più fedele compagno di vita – da Walgreens costa sedici dollari e 99 nel boccione generico da cinquecento pastiglie, diciotto e 99 in quello di marca da duecentoventicinque. Nei conti degli ospedali vedi come niente addebitati ottanta dollari perché t’hanno dato due pastiglie. A noialtri italiani, abituati a percepire le cure ospedaliere come gratuite, fa abbastanza impressione.
La volta della saturazione bassa, quando i medici mi hanno dimessa dall’ospedale, ho pensato al Tylenol. Non c’erano infermiere a portata della mia ricerca, e quindi mi sono sfilata dal naso l’ossigeno ma quello ha continuato a sfiatare perché non sapevo come chiudere la valvola.
Chi lo paga, l’ossigeno sprecato? Le mie tasse, quindi io ma in modo astratto, senza un conto da fotografare e mettere sui social. E il gastroprotettore che mi hanno dato anche se non prendevo il paracetamolo o altri antidolorifici perché non si sa mai? E quelle tremende fette biscottate del mattino, che costo avranno per la fiscalità generale?
La famiglia di Adriana Smith dice ai giornalisti che non ha potere decisionale sulla vita della figlia, e che è preoccupata di dover crescere un nipote probabilmente non sano: l’altro problema, non minore, è che il feto ha del liquido nel cervello, e non è detto che nasca vivo, non è detto che non nasca cieco, non è detto che non nasca paralitico – non ho capito se dipenda o no dalle condizioni non ideali dell’essere gestato da una morta.
C’è anche un dettaglio se possibile più agghiacciante, cioè che il figlio cinquenne della Smith va a trovarla in ospedale. Non oso ipotizzare cosa rispondano i grandi agli inevitabili «Ma la mamma poi si sveglia?».
La Georgia, leggo, non è del tutto legalmente giustificata: non è tra gli Stati che hanno uno specifico codicillo che vieta esplicitamente di staccare dalle macchine una donna cerebralmente morta ma incinta. Quindi ci sono, in altri Stati, legislatori che hanno preso in considerazione quest’eventualità fantascientifica.
Cioè, che a me sembra fantascientifica, ma che secondo l’Associated Press ha almeno trentacinque precedenti. Trentacinque cadaveri che hanno continuato a covare, perlopiù meno a lungo di Adriana giacché in genere dopo un po’ alla morta attaccata alle macchine viene un’infezione o altro.
Non sarà questo il giorno in cui vi ribadirò la mia incomprensione per qualunque donna che nell’evo contemporaneo, con tutte le possibilità di evitarlo, si metta a fare figli, ponendosi in balìa di mille orrori, complicazioni, difficoltà, disagi, fatiche – e questo nell’ipotesi in cui tutto vada bene. Ognuna fa quello che vuole – lo preciso perché uno degli analfabetismi contemporanei è scambiare un’opinione per un disegno di legge e rispondere ai pareri contrari con stolidi «io ho il diritto di» – e ognuna giudica grossomodo inspiegabile chi non vive come lei.
La vita è fatta innanzitutto di capacità di raccontarsela, e le donne senza figli si raccontano che i figli sono un inferno, e le donne con figli si raccontano che le sterili siano delle povere disperate. Adriana era una di quelle che avevano scelto d’avere figli, conosceva il posto in cui viveva e le sue regolamentazioni sanitarie – faceva l’infermiera – ma nessuno si aspetta l’inquisizione spagnola e neanche la morte cerebrale, e ora siamo messi così. Un cadavere che gesta.
E certo, è un dilemma etico e “Il racconto dell’ancella” e tutte cose, ma: chi paga? Quanto costa portare a termine questa gravidanza? Qual è il prezzo del far nascere questo bambino, e chi lo paga? Dall’AP sembrerebbe la famiglia di lei (si parla di «conti ospedalieri», nella lista delle sfighe, ma non si approfondisce), ma io vorrei i dettagli.
Se una gravidanza è forzata, nel paese in cui non esiste la sanità pubblica e ogni Tylenol ospedaliero è sovrapprezzato, il conto lo paga il governo? Lo paga la Corte Suprema che ha abolito il valore di precedente di Roe v. Wade? Lo paga l’ospedale che si rifiuta di staccarla dalle macchine? Lo paga l’assicurazione stipulata da una che però nel frattempo è morta e sospetto che burocraticamente ciò invalidi la polizza?
E la cifra smisurata che sarà costata a qualcuno la gestazione di questo bambino, siamo sicuri che poi il bambino la varrà? Se diventa un Nobel per la Medicina e scopre qualche cura pazzesca, certo, ne sarà valsa la pena, ma non si può sapere prima. Magari diventa uno di noi.
Un cretino qualunque la cui nascita è costata in dollari più d’un appartamento, e in filosofia taluni insanabili dilemmi etici. E il conto dello psicanalista, poi, chi glielo paga?