
di Sergio Tomat
«Senza che nessuno all’estero ci avesse fatto molto caso, l’Ucraina è diventata l’unico Paese postsovietico – con l’ovvia eccezione degli Stati Baltici, ormai da decenni nell’UE – ad aver vissuto una regolare e reale alternanza elettorale senza ricorso alla violenza.
Nelle ex Repubbliche dell’Asia Centrale (con la parziale eccezione del Kyrgyzstan, che ha vissuto perfino un mini-Maidan e ha cacciato il presidente) e nell’Azerbaigian il potere è rimasto in mano ai leader dell’epoca comunista, che poi lo hanno trasferito più o meno serenamente a figli o delfini designati, mentre in Georgia e in Armenia ci sono stati passaggi di potere oscurati da guerre civili e brogli elettorali.
Con Volodymyr Zelensky, l’Ucraina è arrivata al sesto presidente, alternandosi tra personaggi estremamente diversi quando non opposti, portatori di idee, interessi, esperienze, lingue, generazioni e religioni differenti: un ex direttore della fabbrica che produceva gli Ss-20, un comico ebreo, un ex segretario per l’ideologia del Partito comunista, un oligarca del cioccolato, un economista di Leopoli e un ex criminale del Donbas.
Una varietà che potrebbe testimoniare gli scossoni di una nazione in formazione, emersa sulla scena internazionale nel 1991 senza una classe politica strutturata e catene di comando collaudate. Ma anche segno di una vivacità notevole, in un ambiente politico litigioso a livelli quasi italiani: l’Ucraina poteva soffrire in forme acute della povertà, dell’arretratezza, della corruzione e di tutti gli altri mali postsovietici, ma non aveva ereditato dall’impero dal quale si era staccata il concetto monolitico della vlast’, del potere come casta inamovibile, da difendere a qualunque costo.
L’Ucraina non è Russia, avvertiva il titolo del libro che Kuchma scrisse già nel 2003. Un presidente che veniva dalla nomenclatura sovietica e si trovava più a suo agio con il russo, aveva ritenuto necessario spiegare al «fratello maggiore» che la parentela era molto meno stretta di quello che credeva.
Il mondo politico e intellettuale moscovita si risentì, ironizzando velenosamente sull’esperimento letterario di Kuchma, accusandolo di concentrarsi più sulle differenze che sulle somiglianze tra russi e ucraini. Di cui la principale, secondo Kuchma, era l’abitudine dei russi a seguire i ponyatia – le regole della comunità criminale, più in generale un codice informale non scritto – invece della legge.
Il professore dell’Università cattolica di Leopoli Yaroslav Hrytsak, uno degli storici più stimati dell’Ucraina, nota che quasi tutto il territorio odierno del suo Paese era soggetto nel Medioevo al diritto di Magdeburgo, che stabiliva l’autonomia delle città e definiva i diritti dei suoi ceti (incluse le comunità ebraiche). La città più a est dove vigeva il diritto germanico era Poltava, che dista circa centosessanta chilometri dall’attuale confine della Federazione Russa: più o meno qui, dal 1654, passava il confine dell’impero russo che aveva inglobato lo Stato cosacco di Bohdan Khmelnytsky.
Nel 1783, Caterina II si annette un altro pezzo dell’attuale Ucraina, la Malorossia (piccola Russia), rimasto fino ad allora sotto la Polonia. La tradizione polacca dei sovrani eleggibili, ereditata dai cosacchi, viene sostituita dalla «verticale di potere» degli zar, e per premiare gli oligarchi dell’epoca – e l’élite locale, che continuava a rivendicare un qualche grado di autonomia da Pietroburgo – l’imperatrice osannata come illuminata dai filosofi parigini fece esattamente quello che poco più di due secoli dopo avrebbe fatto Putin: espande la servitù della gleba a tutte le sue nuove terre, regalando a generali e cortigiani decine di migliaia di «anime» di contadini ucraini, incatenati a coltivare per conto dei possidenti una delle terre più fertili del mondo.
La servitù della gleba sarebbe stata abolita nell’impero russo soltanto nel 1861, settantotto anni dopo, lasciando gli antenati degli ucraini di oggi con un’esperienza di schiavitù molto più breve rispetto a quella della Russia centrale.
Quando, nelle intercettazioni delle comunicazioni radio nella primavera del 2022, i soldati russi reclutati nelle regioni più remote e povere della Federazione si stupivano per il benessere e la pulizia nelle case della campagna intorno a Kyiv (inviando immediatamente a casa furgoni pieni di beni saccheggiati, dalla biancheria agli elettrodomestici), rilevavano a propria insaputa le conseguenze anche di quella diversità storica.
Già all’epoca sovietica, il passaggio del confine – allora puramente formale – tra Russia e Ucraina segnava un visibile cambiamento nel paesaggio rurale, che man mano cominciava a ricordare sempre più i villaggi sventurati delle Anime morte, così diversi dalla solare campagna di Poltava descritta nei suoi primi racconti da Gogol, un autore che il pantheon della «grande letteratura russa» oggi più che mai fatica a riconoscere come un ucraino – e che sua madre chiamava Nykola, un incrocio tra l’ucraino Mykola e il russo Nikolay.
La ricchezza prevalentemente agricola sarà un altro dei fattori per cui la verticalità del potere russo non attecchirà nell’Ucraina postsovietica, rimproverata oggi dal portale di Storia del Politecnico di Pietroburgo per un «errato concetto di libertà e liberalità che ha prodotto instabilità».
Nella serie televisiva Servo del popolo, inventata e interpretata dal 2015 al 2019 da Volodymyr Zelensky, il giovane presidente per caso Vasily Petrovich Holoborodko deve affrontare un trio di potenti oligarchi, che nel tempo libero giocano a un gigantesco Monopoli a forma di Ucraina, contendendosi porti, raffinerie e fabbriche. La satira è pungente, gli oligarchi molto riconoscibili al pubblico ucraino, e la metafora è stata spesso tristemente vera. Con una clausola importante: in Ucraina, il passaggio dal «potere dei soldi» al «potere del potere» non si è mai consumato.
Perfino nel 2014, quando un oligarca – Petro Poroshenko, re del cioccolato e magnate televisivo – è stato eletto presidente, proprio mentre gli infiltrati russi invadevano il Donbas, gli altri giocatori della partita hanno proseguito le loro faide. In assenza di petrolio e gas – la «maledizione» della Russia e di tanti altri autoritarismi nel mondo, grazie alla possibilità di estrarre una rendita enorme concentrando le risorse in poche mani – gli oligarchi ucraini «diversificano» tra agricoltura e banche, chimica e televisioni, siderurgia e commercio.
Nessuno era troppo potente per soverchiare gli altri e privatizzare lo Stato, e Vasyl Filipchuk, diplomatico e uno dei fondatori del primo think tank dell’Ucraina indipendente, l’International Centre for Policy Studies, riconosce il danno economico, politico e morale che i novelli capitalisti hanno arrecato nella prima fase della formazione del Paese. Ma nello stesso tempo riconosce che, senza gli oligarchi, «saremmo diventati come la Belarus di Lukashenko», dove l’unico oligarca vero è l’insostituibile dittatore eterno.
Quando Zelensky diventa presidente nel 2019, con un programma di lotta alla corruzione e all’oligarcato (oltre che di pace con la Russia), i grandi magnati ucraini sono già in buona parte un anacronismo, e non più un contropotere che, in uno scontro permanente, garantisce – senza ovviamente prefiggerselo come obiettivo consapevole – lo strano equilibrio di un sistema dal baricentro mobile, nel quale nessuno possiede il monopolio dei media, della giustizia, delle risorse e del governo.
L’anarchia assembleare della nobiltà polacca e dei cosacchi, semibriganti e semicavalieri, sovrapposta a un territorio estremamente eterogeneo dal punto di vista economico, linguistico, storico, demografico e politico, diventerà una paradossale valvola di sicurezza.
E impedirà al neonato Stato, che riscriverà per anni la Costituzione per potenziare più l’esecutivo oppure il Parlamento, di scadere in un presidenzialismo di matrice russa, cercando di evitare fin dove possibile la violenza: perfino un personaggio rude come Yanukovich ha proseguito fino all’ultimo un negoziato con i leader del Maidan, e non sapremo mai se sarebbe fallito anche senza le pressioni da Mosca.
Ma a dare il colpo finale all’oligarcato ucraino sarà l’invasione russa: in un Paese in guerra, che vive la dura realtà della legge marziale, della mobilitazione, del coprifuoco e degli allarmi aerei che ululano tutte le notti, è inevitabilmente lo Stato, insieme all’esercito, a prendere in mano la situazione.
Tutti i potenti ucraini indossano vestiti di foggia militare color verde Zelensky, e il ritorno alla normalità – che non può non passare dallo smantellamento del monopolio statale e militare sulla vita pubblica – dipenderà da quando, e soprattutto come, finirà la guerra».
Da
Anna Zafesova,
“Russia L’impero che non sa morire”. Estratto pubblicato su La Stampa del 13 maggio 2025