Dazi (areadraghi)

“Trump non è un presidente che ama le marce 
indietro, perlomeno quelle ufficiali, e il 
mea culpa, però è chiaro che qualcosa non 
ha funzionato. 
La reazione delle borse e dei titoli di Stato è stata molto violenta e abbiamo visto già alcuni effetti paradossali.
Le esportazioni verso l’#America sono cresciute tantissimo a marzo e hanno contribuito anche al calo del #PIL americano, perché tutti quelli che potevano mandavano le merci a marzo in modo da evitare i #dazi.
Ma, secondo me, quello che #Trump ha sottovalutato, più di ogni cosa, al di là di quella formula assurda, sconclusionata suggeritagli da #Navarro per calcolare i dazi, è quello che si sarebbe generato con le sue mosse. Non ha generato solo una prospettiva di rallentamento economico e di aumento dei prezzi, a partire dagli #USA, perché è chiaro che se tu hai un dazio la merce ti costa di più.
Quello che ha generato, e dove siamo immersi ora, è una situazione di totale #incertezza. Guardate, l’incertezza è peggio, in #Economia, del dazio. È meglio avere un #rischio, sapere che c’è e muoversi per proteggersi dallo stesso, che non stare e galleggiare in questo limbo in cui sono immerse le imprese, che non sanno cosa capiterà alla fine dei 90gg., se arriverà un accordo con l’#Europa o no e, soprattutto, e qui temo che il danno non possa essere semplicemente superato da un accordo, Trump si è dimostrato inaffidabile.
Inaffidabile sia per il modo in cui ha posto i dazi, sia per come li ha sospesi, sia per quello che farà in futuro. I segnali che sono arrivati parrebbero andare nella direzione di una nuova trattativa, anche perché l’#UEha messo un pacchetto di cui su 100mld 88 sono beni industriali. L’accordo fatto tra USA e #GB va in quella direzione. Faccio notare, però, che non esiste uno squilibrio così forte tra USA e GB come esiste con l’area €.
È vero che c’è un avanzo commerciale dell’Europa di 147mld di cui 47 sono di pertinenza italiana. È vero se vai a guardare i manufatti, i #beni. Ma se vai a guardare i #servizi, c’è un #avanzocommerciale degli USA di 100mld. Se sommi a questo anche 20-30mld di importazioni di #energia, di #gas, principalmente, dagli USA, beh, tutto questo grande disavanzo si riduce a 30-40mld.
Su un interscambio di quasi 800mld, non mi sembra una cosa drammatica. E poi, sotto traccia, c’è un assunto che non sta né in cielo né in terra. Tu non è che non esporti beni americani perché noi abbiamo dei dazi. Tu non esporti quei beni perché non sono competitivi. La mozzarella del Wyoming, io non me la compro. Con tutto il bene che voglio al Wyoming.”

Ultranazionalisti, chi sono e cosa vogliono (corriere.it)

di Francesco Battistini e Milena Gabanelli

Dall’Ungheria alla Slovacchia. 

Chi sono gli ultranazionalisti. Emersi dal nulla e finanziati da Mosca in Romania e Georgia. Filorussi in Moldova e Serbia.

Sono contro l’Unione europea. Domenica si vota in Polonia per le presidenziali e l’astro nascente è il populista Slawomir Mentzen, il politico più seguito su TikTok.

Il nazionalismo sovranista è la bussola di chi comanda in Ungheria (Viktor Orbán), in Slovacchia (Robert Fico), in Serbia (Aleksandar Vucic), e in Georgia (Mikheil Kavelashvili). Per circa un decennio, ha dominato la scena della Polonia, della Repubblica Ceca e della Bulgaria. Domenica scorsa ha fatto volare al primo turno (40%) il sovranista George Simion, candidato alla presidenza della Romania, fra qualche giorno potrebbe sfondare di nuovo in Polonia e a settembre in Moldova.

Ma da dove arrivano questi politici? Chi sono? E soprattutto: fino a che punto possono spingersi?

Apparsi dal nulla

In Romania lo scorso novembre si presenta alle elezioni Calin Georgescu: da perfetto sconosciuto in poche settimane accumula 3,4 milioni di follower e passa il primo turno con il 22,4% dei voti. Elezioni poi annullate dalla Corte Costituzionale, e Georgescu escluso dalla corsa elettorale per il sospetto di finanziamenti illeciti ricevuti dalla Russia e per l’uso manipolatorio di bot e d’account falsi su TikTok.

Insorgono al grido di «minaccia alla democrazia» il vicepresidente Usa J.D. Vance, Elon Musk, Vladimir Putin, il presidente turco Erdogan, i Conservatori europei e Matteo Salvini che ha parlato di «euro-golpe in stile sovietico». Al posto di Georgescu corre l’ultranazionalista Simion, che il 4 maggio passa il primo turno con il 41%, ed è il grande favorito al ballottaggio.

Polonia al bivio

Domenica prossima in Polonia si vota per le presidenziali, e l’astro nascente è il populista Slawomir Mentzen, il politico più seguito su TikTok. Vuole liberalizzare le criptovalute, mettere fine agli aiuti all’Ucraina e nel 2019 s’era posto come obiettivo il bando agli ebrei, agli omosessuali, alle tasse e all’Ue. Era arrivato a chiedere l’arresto per le donne che abortiscono e l’impunità per chi infligge punizioni corporali ai bambini.

Oggi Mentzen, al secondo posto nei sondaggi e alleato dei tedeschi di AfD all’Europarlamento, ha rivisto un po’ le sue posizioni: quel che basta a evitargli la messa al bando e, forse, a garantirgli la vittoria.

«Slovacchia first» è la linea che guida Robert Fico, il sovranista che fa a gara con l’ungherese Viktor Orbán nel compiacere la Russia. Comunista ai tempi dell’Urss, oggi legato all’estrema destra e contrario alla Nato, è fra i pochissimi membri Ue ben accolti al Cremlino.

Gli aspiranti all’Ue

L’onda nazionalista bagna anche i Paesi che aspirano a entrare nell’Ue. Tra questi c’è la Moldova, dove il 25 marzo è stata arrestata l’esponente dell’opposizione Evghenia Gutul, contraria all’ingresso del Paese nella Ue e nella Nato. Avrebbe comprato voti e ricevuto finanziamenti illeciti da un oligarca filorusso ricercato dalla giustizia internazionale per il fallimento di tre banche e per un buco da un miliardo di dollari.

Il governo di Chisinau l’ha pertanto esclusa dal posto nel governo che, in base alla Costituzione, le spetterebbe. A favore della Gutul sono insorti sia Putin che Erdogan — proprio loro — accusando i moldavi di «minare la democrazia».

Il nuovo leader della Georgia è l’ex giocatore del Manchester City, Mikheil Kavelashvili, che in dicembre è spuntato quasi dal nulla ed è riuscito a diventare capo dello Stato. Era l’unico candidato, e l’ha eletto un Parlamento boicottato dalle opposizioni, perché votato secondo una legge elettorale ritenuta ingannevole.

A Kavelashvili non era mai riuscito di fare nemmeno il presidente della Federcalcio nazionale, perché la legge lo proibisce a chi, come lui, ha solo la terza media. Ma con le sue posizioni filorusse e una propaganda battente su TikTok, ce l’ha fatta a prendere il posto della leader europeista Salomé Zourabichvili.

Anche in Serbia è al potere da undici anni, prima come premier e poi capo dello Stato, il nazionalista Aleksandar Vucic. Da giovane inneggiava al massacro di Srebrenica e censurava i giornalisti per conto di Slobodan Milosevic, l’artefice delle pulizie etniche in Croazia, Bosnia e Kosovo. La Serbia aspira a entrare nell’Ue, ma intanto s’oppone alle sanzioni contro Putin, compra armi dalla Cina e fa affari immobiliari con il figlio di Trump, Donald Jr.

Il caso AfD

In Germania il governo e la Corte costituzionale dovranno affrontare una missione impossibile: la messa al bando di AfD. Il partito Alternative für Deutschland dichiaratamente omofobo, islamofobo e negazionista dell’Olocausto, classificato dai servizi d’intelligence dopo tre anni d’indagini come formazione d’estrema destra; mentre l’Ufficio federale per la Protezione della Costituzione l’ha definito «un’organizzazione non compatibile con l’ordine democratico», perché «ignora la dignità umana».

Sarà complicato mettere al bando un partito scelto dal 20% dei tedeschi, ma la pronuncia dell’Ufficio federale era inevitabile, poiché in Germania (come nel resto d’Europa) i partiti devono rispettare i principi fondamentali sanciti dai primi cinque articoli della Costituzione: il rispetto delle minoranze, l’antisemitismo, i diritti inviolabili della persona, lo Stato di diritto.

Contro il rapporto degli 007 si sono schierati Matteo Salvini («gravissimo»), Orbán («l’AfD può contare su di noi»), Elon Musk, il segretario di Stato americano Mark Rubio e il vicepresidente Usa, J. D. Vance: «Questa è tirannia».

Silenzio per i nemici

I nazionalisti gridano al complotto, quand’è messa in discussione la libertà degli amici. Ma tacciono, se tocca ai loro nemici. Il 23 marzo scorso il presidente turco Erdogan ha fatto arrestare il suo principale avversario politico, Ekrem Imamoglu, sindaco di Istanbul e candidato alle presidenziali del 2028. È accusato di corruzione, riciclaggio, turbativa d’asta e terrorismo.

Un capo d’imputazione riguarda perfino l’irregolarità nella registrazione della sua laurea. Sul sindaco pendono sette processi, considerati pretestuosi da Amnesty International, dal Comitato di Helsinki, da Human Rights Watch e da altre otto ong internazionali. Il 29 aprile Erdogan è venuto in Italia e s’è incontrato con Giorgia Meloni, che non ha trovato nemmeno un minuto per ricordargli il caso. Sul «golpe turco» non è stata spesa nemmeno una parola da Salvini, Orbán, Musk, Vance e Rubio.

I vantaggi dalla Ue

Una cosa accomuna tutti i nazionalisti: l’odio per l’Ue. Eppure vengono votati in Paesi che hanno ricevuto enormi benefici dall’ingresso in Europa. La Polonia, entrata nel 2004, è il Paese che più utilizza i fondi strutturali comunitari assegnati ogni 7 anni e oggi è diventata la sesta economia del Continente.

La Romania ha avuto dal 2007, data dell’adesione all’Ue, una crescita media del 2-3% annuo, con punte del 4,8% prima della guerra in Ucraina.

L’Ungheria è entrata nell’Ue nel 2004: da allora i contributi europei hanno favorito una crescita media del 4%.

Gli strumenti per arginare

I governi nazionalisti hanno scatenato due guerre mondiali, e da allora le democrazie occidentali hanno fissato paletti vincolanti. Le istituzioni europee, con il Trattato di Lisbona, la Carta dei diritti di Nizza, i criteri di Copenaghen, definiscono le norme che tutti i Paesi membri, e gli aspiranti tali, devono rispettare: dallo Stato di diritto, alle competizioni elettorali trasparenti e leali.

Chi le infrange ne paga le conseguenze.

Certo, diventa molto complesso punire un Paese dove la maggioranza, o una larga fetta della popolazione sceglie un partito eversivo. Al tempo stesso le democrazie hanno non solo il diritto, ma il dovere di difendersi da chi ne mette in pericolo le fondamenta.

Lo strumento è quello delle sanzioni, come nel caso dell’Ungheria a cui sono stati sospesi i fondi europei, oppure, se le sanzioni non bastano, togliendo il diritto di voto (e quindi di veto). Decisione possibile, ma solo con il superamento del vincolo dell’unanimità.

L’incompatibilità di Meloni con la nuova alleanza democratica europea (linkiesta.it)

di

Tirana a campare

Mentre Macron, Starmer, Merz, Tusk e Zelensky rafforzano la coalizione politica dei volenterosi, la presidente del Consiglio resta ai margini, accontentandosi di far comunella con piccoli leader populisti

Siparietto in Albania, Edi Rama si inginocchia davanti a Giorgia Meloni all’ingresso del vertice

Forse offesa, certo umiliata. Giorgia Meloni è ancora una volta out, fuori. Espulsa come un giocatore falloso, indegno di stare in campo. Anzi, in campo non è entrata proprio.

Né nella Basilica di San Pietro il giorno dei funerali di Francesco, né sul treno che portava i leader democratici a Kyjiv. E nemmeno ieri a Tirana, al vertice della Comunità Politica Europea, dove a farle i salamelecchi è stato solo un patetico Edi Rama – giacca, cravatta e scarpe da ginnastica – ad accoglierla in ginocchio. Una scena da Terzo Mondo.

Poi lei ha imbastito una chiacchiera a più voci con Volodymyr Zelensky, dopo aver allertato il Tg1 per immortalare una scena che non passerà alla storia; quindi ha fatto dei bilaterali, non tutti esattamente decisivi (certo Erdogan, ma anche Svizzera e Cipro).

A vertice finito è cominciata la politica ed è finita lei, ormai incompatibile con le grandi democrazie europee guidate da Emmanuel Macron, Friedrich Merz e Keir Starmer, con il polacco Donald Tusk, e naturalmente Zelensky. Cioè il formato della riunione del 10 maggio nella capitale ucraina. E anche ieri, come quel giorno, il gruppo dei volenterosi ha chiamato Donald Trump mentre trasvolava sull’Europa, dopo aver chiuso affari miliardari in Arabia Saudita – il decisionista più indeciso che si sia mai visto, uno che non sa come prendere in mano il dossier russo-ucraino.

Macron, che non dà oggi appare il più energico di tutti, ha poi spiegato che i democratici europei gli hanno chiesto di muoversi – do something – a cominciare dal minacciare nuove sanzioni al coniglio del Cremlino, che sta scappando di fronte alla proposta di un cessate il fuoco di trenta giorni e perde tempo in una finta mediazione a Istanbul.

Mentre l’Europa, cioè gli adulti europei, stava spiegando al duro di Washington cosa bisogna fare, lei, Giorgia, non era proprio presa in considerazione. Ma chi è causa del suo mal pianga se stesso. Se non avesse fatto la sostenuta, come si dice alla Garbatella – per esempio ostentando fastidio alla primissima riunione dei Volenterosi, arrivando apposta in ritardo all’Eliseo – forse Macron ci parlerebbe ancora, con lei, e lo stesso dicasi per Starmer, anche lui snobbato quando si tenne un’analoga riunione londinese.

La presidente invece spiega che non partecipa a questo formato perché l’Italia dice no all’invio di soldati italiani in Ucraina per il dopoguerra: è una bufala, perché anche la Polonia di Tusk non intende inviare truppe, e tuttavia è nel formato dei paesi democratici, giacché i volenterosi sono ormai un’alleanza politica generale a sostegno di Kyjiv e, più in generale, a difesa degli interessi e del ruolo dell’Europa minacciati dal tycoon americano. Che è esattamente ciò che a lei fa orrore, come del resto a tutti i trumpiani europei.

Il Quirinale, da cui ovviamente nulla trapela, non può non essere seriamente preoccupato, perché ha chiaro che il problema non è solo e tanto di antipatie personali. La questione è che la leader post-missina fatica a trovare un minimo di sintonia con i grandi paesi democratici. D’altra parte, nella sua formazione giovanile, la Francia sarà stata come il diavolo, e in una come lei, così attaccata al suo vissuto, queste tracce restano. Meloni preferisce altro.

L’altro giorno – la notizia è passata inosservata – Giorgia Meloni ha riunito a via della Scrofa, sede di FdI, un gruppo di reazionari europei di prima grandezza. Leggiamo sul Secolo che «attorno al tavolo, accanto alla premier italiana, il presidente di Ecr Party Mateusz Morawiecki, i vicepresidenti George Simion, Marion Maréchal, Carlo Fidanza e il segretario generale Antonio Giordano».

Tutti reazionari puri. D’altronde l’eurogruppo Ecr, inventato da Meloni, è ideologicamente indistinguibile dai fascistoidi veri che siedono nel gruppo dei Patrioti (Marine Le Pen, Viktor Orbán, Matteo Salvini): dire che quelli di Ecr sono “conservatori” è un insulto a Margaret Thatcher e Charles de Gaulle.

Caso emblematico è il rumeno Simion che domenica dovrebbe diventare il nuovo presidente rumeno. Guida l’Alleanza per l’unità dei romeni (Aur), un partito nato nel 2019 con posizioni ultranazionaliste, contrarie all’immigrazione, euroscettiche e favorevoli all’unificazione tra Romania e Moldavia.

Solo negli ultimi giorni di campagna elettorale Simion si è dato una ripulita, ma tutto il mondo sa che è il figlioccio politico di Călin Georgescu, ammiratore del fascista e antisemita degli anni Trenta Corneliu Zelea Codreanu. Simion ha detto che, se vincerà, Georgescu diventerà primo ministro.

Questi sono gli alleati di Meloni. Tra Simion e Macron, preferisce Simion. Tra Marion Maréchal, sorella di Marine Le Pen, e Ursula von der Leyen, preferisce Marion. Ideologicamente, verrebbe da dire, preferisce Matteo Salvini ad Antonio Tajani. Il quale si sta infastidendo, specie dopo l’assenza di Giorgia alla riunione di Kyjiv: «Perché non c’era? Chiedete a lei».

Ora, è evidente che il prezzo della nuova figuraccia tiranese di Meloni lo paga l’Italia, Paese leader con Mario Draghi e oggi ultima ruota del carro. Ed è solo colpa sua, di una presidente del Consiglio che sta dalla parte sbagliata della storia.

Immigrati: dall’Italia 8,3 miliardi di euro ai paesi di origine (nigrizia.it)

Le rimesse che dal nostro paese sostengono 
“casa loro”. 

Egitto: boom di denaro in ingresso da chi emigra

8,3 miliardi di euro. Questo è il volume delle rimesse che le persone immigrate inviano alle famiglie d’origine dall’Italia. Un dato diffuso dalla Fondazione Leone Moressa, che dà il segno di quanto ammontino le risorse che arrivano nelle patrie di chi, straniera o straniero, ha scelto di vivere nel nostro paese.

Secondo i dati forniti dalla Banca d’Italia questa cifra è poi in realtà sottostimata. Se si aggiunge infatti il flusso cosiddetto invisibile, cioè quello non tracciabile attraverso banche o money transfer, compreso tra i 1,2 e i 3,7 miliardi di euro, il volume delle rimesse potrebbe oscillare tra i 9,5 e i 12 miliardi. Una risposta secca, questa dei risparmi inviati a “casa loro”, a chi ripete con un refrain insensato la solita formula “aiutiamoli a casa loro”.

Nel 2024 la maggior parte delle rimesse partite dall’Italia ha raggiunto Bangladesh e Pakistan. Il Bangladesh si conferma in testa alla classifica con 1,4 miliardi di euro, pari al 16,9% del totale dei soldi inviati. Il Pakistan invece si ferma a 600 milioni, con appena dietro il Marocco, con 574 milioni di euro. Se si va a guardare quanto ciascun cittadino o cittadina immigrata invia in patria, si vede che il valore pro-capite si attesta sui 131 euro al mese.

Stando sempre sulle rimesse, ma questa volta spostandosi verso l’Africa, un dato senza precedenti lo registra la Banca centrale d’Egitto (Cbe). La Cbe parla di un incremento storico: sarebbe infatti di quasi 13,7 miliardi di dollari in dodici mesi l’ammontare del denaro inviato dalle persone egiziane che vivono all’estero nel proprio paese d’origine. Un incremento del 72,4% tra marzo 2024 e febbraio 2025.

L’impennata, secondo la Banca centrale d’Egitto, si spiega con le misure di riforma economica adottate del paese lo scorso anno, a marzo per l’appunto. Misure che hanno fatto registrare un crescendo continuo di entrate, per quella voce che rappresenta una delle principali fonti di valuta estera per l’Egitto.

Una fonte non secondaria per la stabilità economica dello stato nordafricano.