La sinistra rinasce mettendo insieme tutte le forze europeiste e democratiche (linkiesta.it)

di

Politica

Pubblichiamo l’intervento della vicepresidente del Parlamento europeo Pina Picierno alla prima iniziativa del Circolo Matteotti, a cui hanno partecipato esponenti del Pd, di Azione, di Italia Viva, PiùEuropa e socialisti

Dunque che ci facciamo qui, al Circolo Matteotti? Ci uniscono due cose più di tutte: la consapevolezza che per trovare un senso al nostro impegno non basterà agitare feticci del passato, recuperare qualche vecchio slogan, togliere la polvere da qualche vecchio manifesto, rinfrescare la memoria di qualche vecchio tic identitario; e la consapevolezza di cosa significa essere progressisti oggi: significa proteggere la democrazia, che è il primo perimetro da tutelare per avere un mercato del lavoro più giusto, un ambiente non sventrato dai cambiamenti climatici, la parità di genere e i diritti civili. Insomma è la questione da cui discende tutto il resto.

La democrazia, però, ha bisogno di essere vissuta, non è uno sfondo, è un impegno quotidiano.

E oggi, più che mai, ha bisogno di cittadine e cittadini consapevoli, attivi, critici ma costruttivi, capaci di capire che difendere la democrazia oggi significa dirsi europeisti e vedere nell’Europa non solo un insieme di norme, ma una comunità politica che ha scelto la pace come metodo, la giustizia sociale come orizzonte, la libertà come fondamento.

Ecco perché questo circolo è importante perché è l’invito che rivolgiamo a chi si riconosce in questo perimetro a non cedere al disimpegno, a non rassegnarci all’inevitabilità delle diseguaglianze, a non credere che i diritti possano valere solo per alcuni.

Le conquiste europee non vanno date per scontate. Possono regredire, se non le difendiamo. Possono sfaldarsi, se non le rinnoviamo.

L’Europa è ciò che decidiamo di farne soprattutto in mondo è diventato drammaticamente troppo grande, troppo scomodo, troppo insicuro, troppo diverso da quello che abbiamo desiderato e che ci illudevamo corrispondesse alla realtà.

E invece siamo di fronte a cambiamenti radicali dell’ordine mondiale che sono destinati a rendere incerti quelli che ritenevamo – a torto – diritti scontati naturali.

E cioè la nostra sicurezza, il prevalere di relazioni internazionali pacifiche, la democrazia liberale non esposta a rischi che sono invece in costante crescita.

C’è un nuovo mondo là fuori che ha bisogno di una nuova sinistra, di una nuova democrazia, di una nuova Europa, di un nuovo coraggio, di una nuova responsabilità, di una nuova Italia consapevole del suo ruolo nel mondo in un tempo prepotentemente nuovo.

E sono voluti traumi profondi per realizzare che l’Europa non è immune da questi stravolgimenti. Sono servite le sirene a Kyjiv a svegliarci. A capire che la domanda di sicurezza oggi si impone su quello della convenienza.

A lungo ci siamo illusi di poter essere player europei e globali neutrali, guadagnando un po’ da ciascuna relazione.

Spesso sento, come fosse un incitamento, che dobbiamo sedere al tavolo. Il problema è che il posto non è più riservato.

Quello che andrebbe fatto sta scritto nei rapporti Letta, Draghi, Niinistö, ed è costruire sicurezza nell’autonomia.

Non c’è scritto nulla sulla volontà politica, perché quella non si stabilisce per decreto. Ho preso l’abitudine di guardare al processo di integrazione con equilibrio. Tenere in equilibrio la grande ambizione di un’Europa federale e del superamento degli egoismi nazionali e il lavoro quotidiano, spesso faticoso, qualche volta addirittura frustrante, di riformare miglio per miglio istituzioni, politiche e prassi dell’Unione europea.

Di saper interpretare, assecondare, contribuire a migliorare passi che possono sembrare magari troppo corti, senza mai perdere di vista la tensione all’orizzonte verso cui tendono.

Ma se guardiamo al dibattito italiano, soprattutto al dibattito dentro il nostro campo, assistiamo a spirali di radicalizzazione. Io penso che su questa base non si costruiscono alternative, si restringe solo il campo della responsabilità. L’alternativa di governo non nascerà dalla polarizzazione. Non nascerà da questa radicalizzazione.

Noi abbiamo bisogno di costruire una nuova Italia che sappia promuovere le sue enormi capacità frustrate dalla conservazione e dalla rendita di posizione. Che sappia incoraggiare le sue aspirazioni alle libertà democratiche ed economiche. Che sappia coltivare la sua relazione con le spinte innovatrici e di progresso culturale, tecnologico e sociale del continente. Questa è l’alternativa di governo e su questo bisogna costruirla.

E il Circolo Matteotti è questo. Il tentativo di metterci insieme, di mettere insieme nelle differenze una sinistra che ha voglia di futuro.

I conti di Salvini sul costo del ponte sullo Stretto non tornano (pagellapolitica.it)

di Carlo Canepa

Infrastrutture

La maggior parte delle risorse servirà per costruire il ponte e le strutture collegate, ma non altre opere pubbliche, come sostiene il ministro

Per difendere la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina, il leader della Lega Matteo Salvini ripete spesso che i soldi destinati all’opera serviranno anche a realizzare altre infrastrutture, utili agli abitanti di Sicilia e Calabria.
«È un secolo che siciliani e calabresi si sentono dire: “No, non bisogna fare il ponte perché prima bisogna fare altro”. È un secolo che non hanno né il ponte né l’altro. Noi abbiamo l’ambizione di fare sia il ponte che l’altro», ha dichiarato per esempio Salvini lo scorso aprile, durante un evento a Milano. «Dei 13 miliardi, il ponte sono 5 miliardi. Gli 8 miliardi sono per strade, ferrovie, metropolitane, scuole, marine private, palazzetti dei congressi, e quindi diciamo che cambia il volto».Al di là di come la si pensi sul ponte sullo Stretto, questa dichiarazione di Salvini è supportata dai numeri? Abbiamo verificato e ci sono diverse incongruenze nella tesi sostenuta dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti.

I costi del ponte sullo Stretto

Secondo Salvini, chi si oppone al ponte vorrebbe che i soldi previsti per quest’opera venissero impiegati per «altro», come scuole, ferrovie e strade, infrastrutture di cui Sicilia e Calabria sono storicamente carenti. È interessante notare che in passato lo stesso Salvini aveva sostenuto questa posizione. Nel 2016, infatti, il leader della Lega diceva: «Non vorrei spendere qualche miliardo di euro per un ponte in mezzo al mare quando sia in Sicilia che in Calabria i treni non ci sono e vanno a binario unico. Quei soldi usiamoli per sistemare le scuole».
Con il tempo, Salvini ha legittimamente cambiato idea. Ma resta da capire se gli argomenti che oggi porta a sostegno del progetto siano fondati. Per verificarlo, possiamo consultare l’analisi costi-benefici dell’opera realizzata dal Centro di Economia Regionale, dei Trasporti e del Turismo (CERTeT) dell’Università Bocconi, aggiornata a fine dicembre 2023. Si tratta del documento presente sul sito della Società Stretto di Messina, la società ricostituita dal governo Meloni per gestire la realizzazione del ponte.
Secondo questa analisi, i benefici derivanti dal ponte sarebbero superiori ai costi. Altre analisi, però, arrivano a conclusioni opposte. Per esempio secondo Francesco Ramella, direttore esecutivo di Bridges Research (un centro studi specializzato in politiche dei trasporti), i costi superano i benefici, e il bilancio dell’opera sarebbe negativo.Senza entrare nel merito del confronto tra analisi, possiamo prendere come riferimento quella “ufficiale”, che elenca (pag. 27) i costi complessivi del progetto. Secondo il documento, la realizzazione definitiva del ponte costerà 13,5 miliardi di euro: una cifra vicina ai «13 miliardi» citati da Salvini. Ma solo una parte di questi soldi è destinata (pag. 29) al ponte in senso stretto. Circa 4,2 miliardi di euro andranno alla “Sovrastruttura opera di attraversamento”, cioè al ponte sospeso a campata unica (senza piloni in mezzo al mare).

Su questo punto, Salvini sembra avere sostanzialmente ragione, anzi: a differenza di quanto affermato – «5 miliardi» – il costo effettivo del ponte vero e proprio è inferiore di circa 800 milioni. Basta però guardare meglio ai numeri per rendersi conto che il leader della Lega non la racconta giusta.

Altri 5,2 miliardi sono destinati a “lavori relativi alle sottostrutture dell’opera di attraversamento, ai collegamenti stradali e ferroviari”. Si tratta di componenti fondamentali del ponte: torri, fondazioni, ancoraggi, e tratti di raccordo. Dunque non possono essere considerati semplicemente «altro», come sostiene Salvini. Sono indispensabili per rendere accessibile l’opera, che altrimenti non sarebbe collegata né alla rete ferroviaria né a quella stradale. Complessivamente, il progetto prevede la costruzione di circa 20 chilometri di raccordi stradali e 20 chilometri di raccordi ferroviari.

Infine, quasi 3 miliardi sono classificati come “altri costi”, che secondo l’analisi costi-benefici sono comunque «accessori alla realizzazione del progetto».

Nel documento si legge inoltre che il progetto «prevede anche la realizzazione di alcune opere che non sono essenziali al funzionamento dei collegamenti, stradali e ferroviari, né imposti da norme di sicurezza o tutela ambientali». La costruzione di queste opere ha lo scopo di «mitigare e compensare» gli effetti negativi del ponte, ma il suo valore complessivo è inferiore (pag. 47) ai 300 milioni di euro, poco più del 2 per cento del costo totale dell’opera.

Metropolitane, centri congressi…

Un fondo di verità c’è nella parte della dichiarazione in cui Salvini afferma che saranno realizzati «palazzetti dei congressi» e «metropolitane». Sul sito della Società Stretto di Messina si legge infatti che il progetto prevede la costruzione di un Centro direzionale, firmato dall’architetto Daniel Libeskind.

Questa struttura ospiterà le attività di gestione, controllo e manutenzione del ponte, ma non solo. Secondo i render disponibili, l’edificio comprenderà anche un centro commerciale, un hotel e un centro per le conferenze (Immagine 1). È plausibile che Salvini si riferisca a quest’ultimo quando parla di «centri congressi».

Immagine 1. Il render del «centro conferenze» che sarà realizzato nel Centro direzionale del ponte sullo Stretto – Fonte: Strettodimessina.it

(Immagine 1. Il render del «centro conferenze» che sarà realizzato nel Centro direzionale del ponte sullo Stretto – Fonte: Strettodimessina.it)

Per quanto riguarda invece le «metropolitane», il progetto non prevede nuove linee metropolitane nelle città siciliane. È prevista invece la cosiddetta “Metropolitana dello Stretto”, che consiste in tre nuove fermate ferroviarie sotterranee sul versante siciliano, collegate alle stazioni di Villa San Giovanni, Reggio Calabria e Messina. Non si tratta dunque di una metropolitana nel senso comune del termine.

Dalle verifiche di Pagella Politica non risulta infine che con i soldi del ponte saranno costruite «scuole» o «marine private», come ha detto Salvini. Questi interventi non rientrano nemmeno tra le opere di compensazione richieste, per esempio, dal Comune di Messina. È possibile che Salvini volesse parlare di aree marine protette, più che di «marine private»: in effetti, il progetto prevede interventi di mitigazione ambientale nelle zone del cantiere a maggiore impatto.

Ricapitolando: la maggior parte dei 13,5 miliardi di euro è destinata alla costruzione del ponte e delle infrastrutture direttamente collegate, come i raccordi stradali e ferroviari. Solo una quota minore andrà a opere accessorie, come il Centro direzionale o gli interventi di compensazione ambientale. Non sono previsti investimenti in scuole, marine private o metropolitane vere e proprie. Dunque, la suddivisione presentata da Salvini non trova riscontro nei documenti ufficiali.

I bambini rubati all’Ucraina: la guerra nascosta della Russia (valigiablu.it)

Crimini

Dal febbraio 2022, l’invasione su larga scala dell’Ucraina ha avuto conseguenze devastanti per milioni di civili, ma nessun gruppo ha pagato un prezzo così alto come i bambini.

Tra i crimini documentati c’è la deportazione sistematica e forzata di minori ucraini nei territori occupati, in Russia e in Bielorussia. Crimini per cui la Corte Penale Internazionale ha emesso un mandato d’arresto per Vladimir Putin e per  Maria Lvova-Belova, Commissaria russa per i diritti dei minori.

Secondo il governo ucraino, oltre 19500 bambini sono stati identificati come vittime di trasferimenti illegali. Come riporta il Kyiv Independent, solo 1300 sono riusciti finora a tornare a casa. Le stime parlano invece di numeri molto più alti: le stesse autorità russe, nell’agosto 2023, dichiaravano di aver “accolto” oltre 700 mila minori ucraini. Dietro questa incertezza sull’entità delle deportazioni e dei trasferimenti forzati ci sono storie di identità cancellate, famiglie spezzate e un’intera generazione messa a rischio.

Un piano sistematico di russificazione

I bambini ucraini portati in Russia spesso finiscono in famiglie adottive, istituti o campi estivi sotto il controllo delle autorità russe. In molti casi, vengono sottoposti a programmi di indottrinamento patriottico e militare, finalizzati a cancellare le loro radici ucraine.

Alcuni hanno raccontato di essere stati puniti per aver parlato in ucraino e di essere stati convinti che il loro paese d’origine li avesse abbandonati. Un’inchiesta del Telegraph del luglio 2023 ha documentato l’esistenza di almeno 4 campi di rieducazione in territorio bielorusso.

Come riferito al Kyiv Independent da Daria Zarivna, responsabile dell’iniziativa presidenziale Bring Kids Back UA, si tratta di una “strategia calcolata” per rompere definitivamente il legame tra questi bambini e l’Ucraina. Il Centro Regionale per i Diritti Umani ha documentato come i bambini deportati ricevano nuovi nomi, documenti falsi e cittadinanza russa, rendendo quasi impossibile rintracciarli senza test del DNA.

Emblematico è il caso della piccola Marharyta Prokopenko, rapita da un orfanotrofio a Kherson, adottata da un parlamentare russo e registrata come “Marina Mironova”, nata in Russia.

Il destino di questi bambini non si limita all’assimilazione culturale: vengono arruolati in programmi paramilitari come lo Yunarmiya (“Giovane Armata”), dove imparano a maneggiare armi e a giurare fedeltà al Cremlino. La creazione di centri di addestramento militare per minori – come il Warrior Center aperto recentemente a Mariupol – evidenzia l’intento di trasformare gli orfani di guerra in soldati del futuro.

Mykola Kuleba, ex Commissario per i Diritti dell’Infanzia ucraino e ora a capo della ONG Save Ukraine, lancia l’allarme: “Se non li riportiamo indietro, tra pochi anni combatteranno contro di noi”. Secondo le sue stime, nel giro di cinque anni, la Russia potrebbe contare su un esercito di tre milioni di giovani indottrinati.

Il ritorno impossibile: diplomazia, ostacoli e promesse

Nonostante la condanna internazionale e i due mandati d’arresto emessi dalla Corte Penale Internazionale, la strada per il rimpatrio è piena di ostacoli. Le autorità ucraine non hanno accesso diretto ai bambini deportati, spesso dispersi in regioni remote della Russia.

Le informazioni sono scarse, e i tentativi di localizzarli si scontrano con la reticenza e l’ostilità delle autorità russe. L’OSCE, che nel maggio 2023 aveva stilato un rapporto sulle deportazioni e i trasferimenti forzati di minori ucraini, riferiva nello stesso di non aver ricevuto alcuna risposta dopo aver contattato le autorità russe per richiedere cooperazione.

Gli sforzi di mediazione diplomatica coinvolgono non solo governi europei, ma anche gli Stati Uniti. Durante i colloqui svoltisi a marzo in Arabia Saudita, la questione dei bambini è stata riconosciuta come “elemento cruciale” anche da parte degli USA, nonostante i segnali ambigui della nuova amministrazione Trump, il cui impegno al fianco di Kyiv è stato spesso messo in dubbio.

Fonti anonime vicino al governo ucraino hanno riferito che Trump vorrebbe ottenere una vittoria simbolica nei primi 100 giorni del suo mandato, che potrebbe includere il ritorno di alcuni minori.

Ma al momento, nessun risultato concreto è stato raggiunto. Lo scorso marzo, in un’intervista concessa a Eurovision News, il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha dichiarato che riportare a casa i bambini “rapiti” dalla Russia è la “priorità numero uno”.

Intanto, iniziative come Save Ukraine riescono a ottenere risultati attraverso operazioni complesse e pericolose, spesso con il supporto di reti di volontari e ONG internazionali. L’organizzazione è stata fondata nel 2014: già allora, infatti, nei territori occupati dai russi si sono verificati veri e propri rapimenti di minori ucraini.

Un’intera generazione sotto attacco

I bambini deportati rappresentano solo la punta dell’iceberg. Secondo l’UNICEF, la guerra ha causato un trauma collettivo tra i più giovani. Più di 2520 minori sono stati uccisi o feriti, ma il bilancio reale è probabilmente molto più alto. Quasi 4 milioni di persone sono sfollate internamente e altre 6,8 milioni vivono all’estero: molte di queste fanno parte di famiglie con bambini. Il tasso di natalità in Ucraina è diminuito del 35 per cento dal 2021: circa un terzo dei bambini ha lasciato il paese negli ultimi 3 anni.

Le conseguenze della guerra vanno ben oltre i danni fisici. Migliaia di scuole e ospedali sono stati distrutti, privando i bambini dell’accesso all’istruzione, alla sanità e al supporto psicologico. “Quando sento una sirena aerea, mi prende l’ansia e divento triste”, racconta Nika, un’adolescente che ha vissuto gran parte della guerra nascosta in rifugi sotterranei. Le sue parole riflettono la crisi di salute mentale che sta colpendo duramente i ragazzi ucraini, specialmente le adolescenti, spesso isolate, spaventate e senza punti di riferimento.

Molti bambini non sono più tornati a scuola. Alcuni frequentano lezioni di recupero nei sotterranei degli edifici scolastici rimasti in piedi. Ihor, 12 anni, partecipa a corsi di ucraino e matematica in un rifugio a Kharkiv: “Qui studio, mi sento al sicuro. Potrei anche viverci”.

Nelle nazioni che ospitano rifugiati, l’UNICEF lavora per integrare i bambini ucraini nei sistemi educativi e sanitari locali. Ma senza un ritorno stabile e sicuro, questi sforzi restano una risposta emergenziale, non una soluzione duratura.

Una bambina ucraina con abiti invernali, alla sua destra si vedono persone adulte, una delle quali sta consultando uno smartphone

Quando la storia si coniuga al presente (corriere.it)

di Aldo Grasso

Padiglione Italia

Solo la storia decide ciò che è storia. Invece siamo portati a proclamare «storico» il presente, ricorrendo più all’autocertificazione che alla memoria critica: «storico subito!».

Ci sono occasioni in cui la forza di un evento o di un’immagine è tale da manifestare all’istante il crisma dell’atemporalità, ma gli attestati di «momento storico» sono rilasciati con troppa fretta. Non c’è governante che non affermi di «lavorare per la storia».

Siamo sicuri che la foto che ritrae a colloquio in Vaticano i presidenti Trump e Zelensky sia così «storica» come è stata definita? Non sappiamo nemmeno cosa si sono detti. Il tempo dell’istante della comunicazione contemporanea, oltre a essere privo di contesto, è privo anche di una sequenza logico-temporale entro la quale inserirlo: solo il destino futuro dell’Ucraina darà un senso a quell’immagine.

Anche la storia respira l’aria annebbiata della beffa. Appena pubblicata, la foto dei due era già meme, parodia. Nulla è più ciò che dichiara di essere, persino Trump si proclama Papa. Tutto è sarcasmo nel momento stesso in cui appare, i simulacri si danno il cambio come pulviscolo egualitario.

In «Alice nel Paese delle meraviglie», la protagonista chiede: «Per quanto tempo è per sempre?». Bianconiglio le risponde: «A volte, solo un secondo». Ma ci vogliono anni per certificare quel secondo.