COVID-19, “solo lo 0,3% non aveva altre malattie” (butac.it)

di 

Disinformazione

L’ennesimo articolo che invoca una “resa dei conti” che fomenta i lettori, ma che manca di svariate informazioni necessarie a comprendere la questione di cui parla

Sappiamo che analizzare articoli provenienti da testate come La Verità può sembrare un esercizio poco utile, dato che chi le segue difficilmente cambierà idea. Tuttavia, riteniamo sia sempre importante offrire una lettura dei fatti corretta e il più possibile completa, basata su dati verificabili e fonti autorevoli.

Il 2 febbraio 2025 titola La Verità:

Decessi per Covid gonfiati ancora: solo lo 0,3% non aveva altre malattie

L’articolo è firmato da Patrizia Floder Reitter, e si concentra su un presunto gonfiamento dei dati sui decessi per Covid-19 nel 2022 basando le proprie conclusioni sui dati dell’ISTAT per quell’anno. Floder Reitter afferma che solo lo 0,3% dei pazienti deceduti fosse privo di altre patologie, e che questa sia “l’ennesima evidenza dell’inutilità di lockdown e vaccinazione coatta”.

Cerchiamo di fare chiarezza

L’articolo, facendo leva su questa questione dello 0,3% di decessi senza altre patologie pregresse, non spiega in alcun modo che avere un’altra malattia non significa che il COVID non sia stato la causa principale dei decessi. Molti pazienti che sono poi deceduti avevano condizioni assolutamente sotto controllo o trattabili, e senza il COVID avrebbero potuto tirare avanti molti altri anni: la pandemia e l’infezione da Coronavirus, di fatto, sono state la causa che li ha portati al decesso.

Come funziona la classificazione?

Quando avviene un decesso viene identificata la causa principale che ha portato il soggetto al decesso: se il medico certifica che il fattore determinante è stato COVID-19 allora quel decesso viene registrato come morte per COVID-19, anche se c’erano altre malattie.

Ad esempio una persona che ha il diabete e soffre di ipertensione può vivere una vita serena tenendo sotto controllo le due patologie, ma se contrae COVID-19, sviluppa una polmonite e muore per insufficienza respiratoria è stato COVID-19 la causa della sua morte. Mentre in UK esiste una codifica automatica delle morti per o con, in Italia – come spiegava Scienza In Rete qualche tempo fa:

…L’attribuzione a Covid-19 della causa iniziale richiede un giudizio clinico-patologico dei medici certificatori, come ben descritto nel documento dell’ISS sulle Cause di Morte ed è quindi correlata alla qualità della certificazione. Una qualità che è sempre da migliorare, ma salvaguardando la universalità e le regole internazionali. Negli ospedali (il luogo di morte di circa il 50% delle persone) si concentrano sicuramente le cause di morte meglio definite, come quelle selezionate come respiratorie, che possono avere sia un ricovero ordinario che uno specialistico (pneumologie o terapie intensive). Su questi decessi è possibile avviare studi di maggior dettaglio per definire meglio i casi “per Covid-19” e capire l’impatto della pandemia.

Ma, come spiegato già nel 2022 da Giovanni Rodriquez su Quotidiano Sanità:

Tentare di ridurre gli alti numeri di decessi quotidiani Covid ad una mera questione lessicale di “con” o “per” Covid può risultare fuorviante e non aiuta ad inquadrare il problema. Per la certificazione Istat dei decessi Covid il medico deve compilare una scheda suddivisa in due parti. Nella parte I (quella in alto) vengono segnalate le cause di morte, ossia tutte le condizioni che hanno contribuito a determinare il decesso.

Concludendo

L’articolo di Patrizia Floder Reitter, non spiegando queste cose, manipola la verità, lasciando intendere che chi aveva altre malattie non è morto davvero per colpa di COVID-19. Quando invece un giornalista serio avrebbe chiarito che COVID-19 ha reso letali condizioni che senza la malattia erano sotto controllo e portato al decesso soggetti che, se non avessero contratto il virus, avrebbero potuto vivere altri anni.

Questo modo di fare informazione andrebbe a nostro avviso sanzionato dall’Ordine dei Giornalisti in quanto non rispetta il codice deontologico della professione, purtroppo raramente vediamo prese di posizione contro questa costante manipolazione dei fatti.

Sovraffollamento in carcere, il grande balzo: 20% in più in 5 anni (ildubbio.news)

di Damiano Aliprandi

Carcere

Gli ultimi dati del Dap sono allarmanti: dal 113,18% del 2020 al 133,52% di oggi. Aumentano i parlamentari, tranne M5S, che aderiscono all’appello di Nessuno Tocchi Caino per l’indulto di un anno

Nei corridoi umidi delle carceri si respira un’aria di tensione che parla più di ogni parola: quante persone stanno lì dentro? E quanti posti ci sarebbero, in teoria? Secondo gli ultimi dati risalenti al 30 aprile 2025 il conteggio è implacabile: 62.456 detenuti a fronte di 46.776 posti realmente utilizzabili, un sovraffollamento del 133,52% secondo l’ultimo report del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.

Un terzo degli spazi che “manca” sotto il profilo logistico. Sulla carta risultano 51.280 posti regolamentari, ma il dato reale scende: restano fuori gioco 4.504 posti, tra camere inagibili e intere sezioni chiuse, e l’ingombro umano non trova sosta.

I dati riportati sul ministero della giustizia sono chiari. Non è un’emergenza isolata: 157 istituti su 188 (l’ 83,5?%) superano la soglia consentita e in 60 di questi – quasi un terzo – l’indice di affollamento varca il 150%. I numeri non lasciano alibi, né margini di ottimismo. Le mappe regionali confermano uno squilibrio profondo. In Puglia un detenuto su due non trova neppure mezzo spazio personale: l’indice tocca il 170,22%. A seguire, Friuli Venezia Giulia 156,33%, Lombardia 153,58%, Molise 149,60%, Veneto 148,54% e Basilicata 147,83%, mentre nel Lazio si arriva al 146,92%. Solo tre regioni restano sotto la linea di galleggiamento: Valle d’Aosta 79,31%, Sardegna 96,24% e Trentino Alto Adige 97,65%.

Le celle si riducono a veri e propri stanzoni polverosi, dove la pressione umana supera ogni codice: a Milano “San Vittore” l’indice tocca il 219,17%, come in un bollettino di guerra; un passo indietro e si trova Foggia al 211,58%, poi Canton Monbello (Brescia) al 200%, Lucca al 197,37%, Varese al 194,34%, Taranto al 194,21%, Como al 190,27%, Udine al 188,30%, Busto Arsizio al 187,89% e infine Roma “Regina Coeli”, un vero e proprio carcere infernale, al 187,24%.

Seguendo l’ultimo report del Garante Nazionale curato da Giovanni Suriano, la tabella sui Provveditorati disegna un’escalation senza sosta. Puglia e Basilicatadal 139,45% del 2020, balzano al 168,23% del 2025, conservando il primato negativo; seguono Lombardia (da 131,49% a 153,58%), il raggruppamento Lazio Abruzzo Molise (da 116,35% a 139,36%), il Triveneto (da 118,07% a 140,77%), la Campania (da 108,83% a 136,1%), Emilia Romagna e Marche (da 115,63% a 135,2%), Toscana Umbria (da 114,16% a 126,66%) e Piemonte Valle d’Aosta Liguria (da 116,98% a 120%). Persino regioni che nel 2020 erano sotto soglia, come Sicilia (da 97,01% a 122,15%) e Calabria (da 92% a 115,04%), registrano ora un balzo drastico. Il dato è senza equivoci di sorta: a livello nazionale si passa dal 113,18% del 2020 al 133,52% del 2025. Un balzo enorme.

Ma non è tutto: il report segnala 14 detenuti allocati in spazi inferiori ai 3metri quadri, contravvenendo ai parametri minimi sindacali della Corte europea dei diritti dell’uomo. Mentre ben 15.643 detenuti vivono in celle comprese tra i 3 e i 4m ². Sono numeri oggettivamente drammatici.

Nel frattempo, sulle tracce di quei numeri e di quelle celle affollate, a Roma Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino ha deciso di mettere in gioco il suo corpo: dallo scoccare della mezzanotte del 23aprile è in sciopero della fame. Il suo gesto vuole dare vigore all’Appello rivolto ai parlamentari per concedere a tutti i detenuti un anno di riduzione di pena, in memoria di Papa Francesco e di Marco Pannella.

L’appello richiama le parole del precedente Pontefice all’interno del Giubileo e del Giovedì Santo, esasperate dal dramma quotidiano del carcere: chiede ai parlamentari, al di là di calcoli organizzativi o numerici, un gesto di carità cristiana. In nome del messaggio di redenzione — quello rivolto al ladrone in Croce e incarnato dalla trasformazione simbolica del carcere in Basilica — si sollecita l’inserimento, nel primo provvedimento utile, di un emendamento trasversale che riconosca per ciascun detenuto un anno di riduzione di pena, sia sotto forma di indulto sia come liberazione anticipata speciale.

Un atto di clemenza capace di trasformare l’anno giubilare in un “anno di grazia, perdono e redenzione”, così come auspicato dal Santo Padre fino all’ultimo respiro.

All’appello hanno aderito, individualmente, esponenti di quasi tutte le forze politiche, tranne il Movimento Cinque Stelle, segno che la questione varca gli schieramenti.

Tra i firmatari figurano Roberto Giachetti (Italia Viva), Fabrizio Benzoni  Azione), Mauro Berruto e Paolo Ciani (Pd), Maria Elena Boschi e Maria Chiara Gadda (Italia Viva), Ilaria Cucchi e Giuseppe De Cristofaro (Misto– Sinistra Italiana), Benedetto Della Vedova e Riccardo Magi (Misto + Europa), Eleonora Evi e Silvia Roggiani (Pd), Domenico Furgiuele (Lega), Gian Antonio Girelli (Pd), Valentina Grippo (Azione), Maurizio Lupi (Noi Moderati), Maria Stefania Marino (Pd), Giorgio Mulè e Paolo Emilio Russo (Forza Italia), Emanuele Pozzolo (Fratelli d’Italia), Debora Serracchiani (Pd) e Luana Zanella (AVS).

Un coro trasversale che chiede alla politica di fare un passo avanti. Ma già i giornali come Il Fatto Quotidiano, espressione pentastellata, comincia a stigmatizzare l’idea dell’indulto.

Ma questa non è una novità.

Leone XIV e i segnali dai fronti (corriere.it)

di Paolo Mieli

I toni cambiati

Sicuramente si è trattato di una coincidenza.

Ma i media del mondo intero hanno notato come, subito dopo la rapidissima elezione di papa Leone XIV, la parata moscovita dell’altro ieri per gli ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale si è svolta in tono minore.

Mentre la cerimonia che si è tenuta ieri a Kiev per la stessa ricorrenza ha avuto maggiore vivacità di quel che ci si poteva attendere. Come se i convenuti si sentissero rinfrancati. Senza che, ripetiamo tra i tre eventi, quantomeno il primo (l’elezione del Papa) e gli altri due, ci sia alcun nesso percepibile.

Eppure, in Russia erano radunati tutti gli autocrati dati per vincenti in questa fase del conflitto, anzi dei conflitti che insanguinano l’orbe terracqueo. Mentre in Ucraina c’era poco da festeggiare per quei leader occidentali — presenti neanche al gran completo — che ancora sostengono la causa di Volodymyr Zelensky.

Ma dal palco dei capi di Stato al Cremlino non si è vista sfilare l’annunciata manifestazione di un milione di ex combattenti o loro congiunti, il discorso di Vladimir Putin è stato sorprendentemente breve e generico, Xi Jinping si è pronunciato contro il «bullismo egemonico» di qualcuno il cui nome non è stato pronunciato. Difficile non ritenere, però, che si riferisse a quel Donald Trump che, a pensarci bene, data la sua manifesta disponibilità nei confronti delle «ragioni» di Putin, avrebbe avuto tutti i titoli per stare lì al loro fianco.

Proprio in questi ultimi due giorni gli stessi media hanno reso omaggio al nuovo grande americano salito inaspettatamente sul proscenio mondiale. Un ex ragazzo di Chicago, con ascendenze europee, cresciuto in modo sano nel particolarissimo universo del cattolicesimo statunitense, ottimi studi, coltissimo, amore per lo sport, amici che sono rimasti tali fino ad oggi che è sulle soglie dei settant’anni.

Ma appartenente anche ad un’altra America, quella del Sud. Quando aveva trent’anni, nel 1985, Robert Francis Prevost fu mandato nella missione agostiniana del Perù, Paese diventato per lui una seconda patria, tant’è che dieci anni fa gli ha fatto dono della cittadinanza. E dove tra il 2014 e il 2023 ha guidato la diocesi di Chiclayo. Senza che questo — secondo testimonianze unanimi — cambiasse il suo modo d’essere: un missionario vicino alla povera gente.

Sia nella stagione in cui i fedeli alla Chiesa di Roma dovettero subire i postumi delle violenze degli estremisti rivoluzionari di Sendero Luminoso, sia successivamente quando il suo gregge fu sottoposto alle ancor più terribili angherie degli squadroni della morte agli ordini del dittatore Alberto Fujimori.

Già leggendo tra le righe di questi brevi cenni alla sua vita passata possiamo renderci conto del fatto che Leone XIV è stato, è e continuerà ad essere un americano assai diverso da Trump. Potremmo dire ai suoi antipodi. Anche se immaginiamo non abbia alcuna intenzione di presentarsi al mondo come il campione politico dell’antitrumpismo.

Gli sarà sufficiente per farsi riconoscere come un «americano diverso» restare (come resterà) nel solco tracciato da papa Francesco. E dedicarsi semmai ad un più approfondito esame degli aspetti dottrinali della propria missione.

Lasciandosi alle spalle gradualmente — o, forse, in tempi rapidi — l’esposizione mediatica che aveva via via sempre più contraddistinto il pontificato di papa Francesco. In questo modo non costringerà più i suoi collaboratori (che — a quel che dicono gli esperti — continueranno ad essere, in buona parte, quelli di prima) ad un’estenuante opera di messa a punto o di rettifica.

Saranno, i suoi, spostamenti millimetrici. E per mesi, forse per anni, assisteremo a interpretazioni di una sua modifica d’abitudine o di un cambiamento d’abito come segnali di scostamento o di prosecuzione lungo la via indicatagli dal suo predecessore.

Speculazioni inevitabili ma probabilmente del tutto inutili. Ogni osservatore cercherà di trovare negli atti del nuovo Papa conferma a ciò che lui stesso pensava prima che Prevost fosse elevato al soglio pontificio. Qui da noi funziona così.

Per parte nostra, in virtù del rispetto che gli è dovuto, ci impegniamo fin d’ora a non partecipare a questo gioco. A prender nota di ogni suo cambiamento, sia esso comportamentale o lessicale, senza trarne indebite conclusioni. Ed è per questo che — ribadiamolo ancora una volta — consideriamo una pura casualità il fatto che, dopo l’elezione di Leone XIV, l’atmosfera delle celebrazioni a Mosca e a Kiev dell’anniversario della vittoria sul nazismo nel 1945, è stata diversa da quella annunciata.

Cento, studenti inneggiano a Hitler e Mussolini durante la lezione (lanuovaferrara.it)

di Davide Bonesi

Interrogazione del senatore Balboni: «Tolto il 
cellulare a uno studente». 

Replica della dirigente scolastica: «La nota di classe era inevitabile»

Un’accusa grave con l’annuncio di un’interrogazione ministeriale da una parte. Dall’altra una insegnante, e in suo appoggio una dirigente scolastica, che rispondono con una nota a un’intera classe per frasi irrispettose, gesti e urla durante l’orario di lezione.

La vicenda si è svolta ieri mattina all’Isit “Bassi Burgatti” di Cento, in quella che sembrava dovesse essere una normale giornata di scuola, a poche settimane dalla chiusura. A denunciare l’episodio inizialmente è una nota di Alberto Balboni, senatore della Repubblica ed esponente di spicco di Fratelli d’Italia nella nostra provincia.

«Presenterò un’interrogazione urgente al ministro dell’Istruzione (Giuseppe Valditara, ndr) per denunciare un fatto gravissimo verificatosi oggi all’Istituto “Bassi Burgatti” di Cento – spiega Balboni -. Una professoressa ha trattenuto il telefono di uno studente alla fine dell’ora di lezione, perché sullo stesso ha notato l’adesivo di Azione Studentesca, l’organizzazione giovanile di Fratelli d’Italia. La professoressa si è sentita in dovere di spiegare al giovane studente che quello era un simbolo “fascista” e che lui non si rendeva conto di cosa esso significasse. Come non bastasse la professoressa non ha voluto restituire il telefono allo studente, obbligandolo ad attendere l’insegnante dell’ora successiva per riaverlo».

La nota del senatore di FdI continua: «Un episodio inaccettabile da parte di chi evidentemente scambia la cattedra per il palco di un comizio. Chi ha la responsabilità dell’educazione dei nostri giovani ha il dovere di insegnare il rispetto per le idee politiche di tutti, non può permettersi di denigrare le idee che non gli piacciono umiliando un ragazzo di 16 anni davanti a tutti i suoi compagni di classe. Ho chiesto quindi al ministro di far luce con urgenza sull’episodio e di valutare se il comportamento di questa insegnante è compatibile con i principi di democrazia e pluralismo che devono contraddistinguere la scuola pubblica».

Questa l’accusa, pesante, da parte di Balboni, alla quale inizialmente la preside dell’istituto superiore centese, Annamaria Barone Freddo risponde con incredulità, non essendo stata informata di un episodio del genere nella scuola che dirige. Dopo i doverosi accertamenti, però, emerge un quadro della vicenda ben più complesso e, soprattutto, più grave, che riguarda non un solo studente, bensì un’intera classe alla quale l’insegnante accusata dal senatore ha assegnato una nota di classe per il comportamento tenuto.

L’insegnante, una supplente, è entrata in classe (si tratta di una seconda superiore, quindi ragazzi di 15 e 16 anni) per fare lezione e si sarebbe trovata di fronte una situazione grave, con tutti gli alunni a urlare, mimare gesti e lamenti sessuali, fino ad arrivare a pronunciare frasi inneggianti Hitler, il Duce (Mussolini) e una ancora più terribile come “Riapriamo i forni crematori”.

Chiaramente, a quel punto l’insegnante è stata costretta a prendere provvedimenti, appunto affibbiando una nota all’intera classe, poi approvata dalla dirigente. Peraltro, una precisazione va fatta anche sul fronte cellulare, perché gli studenti all’ingresso in aula sono costretti a lasciarlo in un cestino, dal quale lo possono riprendere al termine della lezione.

Chiaro, però, che spesso accade di avere ragazzi con due telefonini, quindi questo non esclude sia avvenuto quanto oggetto della nota del senatore Balboni.

Di certo, non è morbida la risposta della dirigente dell’Isit “Bassi Burgatti” dopo aver verificato l’accaduto con il proprio staff e con l’insegnante. «Al netto che trovo sbagliato portare la politica all’interno di una scuola – commenta Barone Freddo -, ho potuto accertare che le cose non sono andate come scritto dal senatore Balboni nel suo documento. Io stamattina avevo firmato la nota data alla classe, ma non l’ho subito associato a quanto riferito dal senatore».

E veniamo ai fatti. «L’insegnante è arrivata all’interno di un’aula dove regnava una confusione generale, tra rumori assimilabili all’atto sessuale a urla fino alla frase “Riapriamo i forni crematori”. L’insegnante a quel punto non poteva non prendere provvedimenti, tanto è vero che è stata costretta a chiamare un altro docente per cercare di placare gli animi.

Ora – prosegue la dirigente dell’istituto superiore centese – ho chiesto una relazione scritta completa sull’accaduto. Di certo, da quanto mi è stato raccontato la questione non è legata a un simbolo presente sul cellulare, il problema è ben più grave ed è a monte. Il compito di una scuola, di tutto il personale e degli insegnanti, è quello di educare i giovani, per cui di fronte a episodi di questa gravità non è possibile non intervenire»