Omeopatia, ecco cosa c’è che non va nei “280 studi” che la sostengono. Enrico Bucci: «Dati deboli, fonti male interpretate, esperienze personali sovrapposte ai fatti» (open.online)

di  Juanne Pili

L’omeopatia non è efficace nemmeno come integrazione o supporto alle terapie convenzionali, ecco perché

Il fatto che i medici italiani possano anche esercitare il ruolo di omeopati, prescrivendo i relativi preparati che fino a oggi non hanno mai dimostrato alcuna efficacia, accende continue polemiche e dibattiti. Ricordiamo infatti che stiamo parlando di diluizioni estreme di un principio attivo nelle quali – come riportato in questa guida pubblicata dal CICAP -, arrivati a un certo punto non sarebbe possibile trovare alcuna traccia delle sue molecole.

Stando alle leggi della chimica e della fisica l’idea che l’acqua conservi memoria delle sostanze in cui entra a contatto, alla base dell’omeopatia, ha più a che fare con la “magia” che con la scienza. Trovate maggiori approfondimenti su questa medicina alternativa nelle nostre analisi precedenti (per esempio qui qui).

Di recente il virologo Roberto Burioni ha sollevato la questione, spingendo il dottor Bruno Galeazzi, presidente della Federazione Italiana delle Associazioni e Medici Omeopati (FIAMO), a rispondere in una intervista su La Stampa.

Galeazzi ha affermato che le evidenze scientifiche sulla validità dell’omeopatia esisterebbero già: «285 studi clinici randomizzati e controllati, quindi in doppio cieco, che coprono 152 diverse condizioni cliniche. […]. Tutti nel loro insieme ci danno un’evidenza molto chiara del fatto che il preparato omeopatico contiene informazioni specifiche che hanno attività su modelli viventi molto semplici di laboratorio e che mostrano una validità anche in ambito clinico, sia in medicina umana che veterinaria».

Quali sarebbero questi “280 studi”?

Non esiste una revisione sistematica o una meta-analisi basata su oltre 280 studi corrispondente. Tuttavia, facendo una ricerca per parole chiave è possibile risalire a un articolo pubblicato sul sito Web del Homeopathy Research Institute (HRI). Secondo l’Istituto, alla fine del 2023 sarebbero stati pubblicati 286 studi randomizzati e controllati sui trattamenti omeopatici, relativi a 152 condizioni mediche, su riviste peer-reviewed.

Di questi però solo 166 erano anche in doppio cieco e con placebo, relativi a 100 diverse condizioni mediche. Secondo l’analisi dell’HRI, il 42% di questi studi (70 in tutto) ha mostrato risultati positivi, il 3% risultati negativi e il 55% risultati non conclusivi.

L’ex medico Rossana Garavaglia, specializzata in psichiatria e master in patologia genetico molecolare, aveva criticato il resoconto dell’HRI il mese scorso, constatando che persino le revisioni sistematiche e meta-analisi citate a supporto dell’omeopatia, come quelle di Robert Mathie (spesso associate all’HRI), concludono che la qualità degli studi risulterebbe bassa o non chiara e che sarebbero necessari studi più rigorosi e meglio disegnati per ottenere stime affidabili degli effetti.

«La qualità delle evidenze è scarsa. Una meta-analisi di tutti i dati estraibili porta al rifiuto della nostra ipotesi nulla, ma l’analisi di un piccolo sottogruppo di evidenze affidabili non supporta tale rifiuto. Le meta-analisi specifiche per ciascuna condizione mancano di evidenze affidabili, il che preclude conclusioni pertinenti. Sono necessari RCT meglio progettati e più rigorosi per sviluppare una base di evidenze in grado di fornire in modo decisivo stime affidabili dell’effetto di un trattamento omeopatico non individualizzato» (Mathie et al., 2017).

Secondo Garavaglia, anche la meta-analisi di Aijing Shang del 2005 concluse che l’evidenza di un effetto specifico dei rimedi omeopatici era debole, mentre forte per gli interventi convenzionali, suggerendo che gli effetti osservati per l’omeopatia fossero compatibili con quelli del placebo. La stessa pubblicazione analizzata da Garavaglia, pur affermando un effetto statisticamente significativo in una revisione di meta-analisi del 2023, ammette la necessità di ulteriore ricerca.

«Sia gli studi clinici controllati con placebo sull’omeopatia che quelli sulla medicina convenzionale presentano bias. Tenendo conto di questi bias nell’analisi, si è riscontrata una debole evidenza di un effetto specifico dei rimedi omeopatici, ma una forte evidenza di effetti specifici degli interventi convenzionali. Questo risultato è compatibile con l’idea che gli effetti clinici dell’omeopatia siano effetti placebo» (Shang et al. 2005).

Cosa dimostrerebbero

Il professor Enrico Bucci, esperto nella revisione degli studi scientifici, ha analizzato gli unici 70 paper con esito «positivo» secondo l’HRI, dei 166 con doppio cieco e placebo, che a loro volta vanno sottratti dal totale che Galeazzi cita.

Ma il dato più significativo, come sottolinea Bucci, è che questi 70 studi positivi riguardano 60 condizioni cliniche differenti (molte meno delle 152 menzionate dal Presidente di FIAMO), e nella quasi totalità dei casi, i risultati sono isolati e mai replicati. Nella pratica della medicina basata sulle prove, un effetto osservato una sola volta e senza conferma indipendente non possiede valore probante. L’efficacia clinica richiede la replicazione coerente dei risultati da parte di gruppi di ricerca diversi e in contesti molteplici. Cosa che non accade per l’omeopatia.

Questi 70 paper presentano profonde criticità. Nel mucchio troviamo per esempio «uno studio ritrattato formalmente dalla rivista PLOS ONE nel 2016 – continua Bucci – per carenze metodologiche e mancanza di trasparenza nei dati». Un altro articolo si ritrova con «due correzioni e una note of concern da parte della rivista Oncologist per problemi di affidabilità, con estesa discussione critica pubblica».

C’è anche una ricerca che assume come “significativo” un valore di p = 0.097, «ben oltre la soglia convenzionale di significatività statistica (p < 0.05)», spiega Bucci, che definisce la pubblicazione «metodologicamente scorretta» nell’interpretare i risultati.

Il Professore segnala inoltre altri studi che interpretano come statisticamente significativo un valore al di fuori della soglia convenzionale e lavori che utilizzano trattamenti “individualizzati”, i quali confondono la possibilità di trarre conclusioni su rimedi specifici. Secondo l’analisi di Bucci, il numero reale di lavori solidi, indipendenti e favorevoli all’omeopatia tende rapidamente a zero esaminando i dettagli e la replicazione degli studi.

Omeopatia per affiancare e integrare le terapie convenzionali?

Riguardo all’uso clinico, Galeazzi suggerisce che l’omeopatia possa «affiancare» o «integrare» le terapie convenzionali. Bucci critica questa posizione, definendola l’affiancamento di un placebo alla terapia reale. Non si tratterebbe infatti di un atto neutro, in quanto occupa spazio mentale, rinforza credenze infondate e comporta il rischio che il paziente, in futuro, possa rifiutare terapie efficaci.

Sul caso del bimbo morto di otite a seguito di una terapia esclusivamente a base di rimedi omeopatici, che sarebbe probabilmente sopravvissuto se il medico gli avesse prescritto subito l’antibiotico, Galeazzi chiarisce nell’intervista a La Stampa che «se un paziente arriva con sintomi importanti, la terapia antibiotica è necessaria […], semmai l’omeopatia si affianca».

Bucci utilizza l’esempio del Presidente di FIAMO sull’otite per evidenziare l’errore logico del «post hoc ergo propter hoc», poiché le otiti lievi spesso si risolvono spontaneamente, e somministrando un placebo si attribuisce erroneamente la guarigione a esso. Infine, Galeazzi ha suggerito che paesi come la Francia avrebbero ottenuto risparmi integrando l’omeopatia.

Il Professore contesta questa informazione, spiegando che Parigi, al contrario, ha eliminato il rimborso dei preparati omeopatici a partire dal 2021, dopo che un’autorità sanitaria ha concluso che non esisteva sufficiente prova scientifica di efficacia. I risparmi sono derivati proprio dal taglio del finanziamento pubblico a trattamenti considerati inefficaci.

Conclusioni

In sintesi, le analisi critiche condotte dalla dottoressa Garavaglia e dal professor Bucci sui dati e le affermazioni a supporto dell’omeopatia portano a conclusioni coerenti coi report di importanti autorità sanitarie internazionali: non esistono prove affidabili derivanti da ricerche sull’uomo che dimostrino che l’omeopatia sia efficace nel trattare alcuna condizione di salute.

Tanto per citare una di queste fonti istituzionali, ricordiamo che nel 2015 venne pubblicato un report sull’omeopatia per conto del National Health and Medical Reseach Council, l’Istituto nazionale australiano di ricerca medica. Si trattava di un’ampia revisione sistematica dei 225 migliori studi sulla presunta efficacia dell’omeopatia.

I ricercatori ne trassero conclusioni per niente incoraggianti. Concludono più precisamente che l’omeopatia «non dovrebbe essere utilizzata per trattare condizioni croniche e serie (o che potrebbero diventarlo)».

Non vi sono condizioni di salute per le quali esista una prova affidabile che l’omeopatia sia efficace. I report concludono che le evidenze esistenti sono insufficienti e di bassa qualità, e che sono necessari studi ben progettati per confermare eventuali benefici osservati, che potrebbero altrimenti essere dovuti al caso o all’effetto placebo.

Gender e diritti, le questioni politiche e sociali non si “curano” con le sentenze (ildubbio.news)

di Gilberto Corbellini

L’intervento

Il genere è un tema a contenuto sanitario che polarizza forse più dei vaccini: ai fatti e alle prove si ricorre solo selettivamente

La sentenza della Corte Suprema del Regno Unito riguarda una questione abbastanza circoscritta, cioè se i termini “donna” e “sesso” nell’Equality Act (2010) si riferiscono solo a una donna biologica e al sesso biologico, escludendo le donne transgender. Messo così, e considerando che quello britannico è un sistema di common law per cui la giurisprudenza si fa dal basso e non dall’alto, la risposta non poteva essere che quella data.

Di fatto, la decisione supera interpretazioni precedenti che includevano le persone transgender con Certificato di Riconoscimento di Genere (GRC) all’interno di queste definizioni. La Corte ha chiarito che, sebbene il Gender Recognition Act del 2004 legalizzi il cambio di sesso, ciò non modifica la definizione di sesso ai fini dell’Equality Act.

Nell’Equality Act era chiaro che le disposizioni riguardavano il sesso biologico alla nascita, e non il genere acquisito da una persona, indipendentemente dal possesso o meno di un Certificato di Riconoscimento di Genere. Se il governo britannico vuole cambiare le cose, faccia un’altra legge. Questo non la farà. Il fatto che siano occorse 88 pagine per scrivere una ovvietà, quasi pattinando sul ghiaccio, la dice lunga sul clima politico culturale che circonda la discussione su sesso e genere.

La sentenza avrà implicazioni sul piano della restrizione di alcuni servizi per transgender o l’accesso agli spazi riservati alle donne. Le organizzazioni avranno basi legali per canalizzare l’accesso a spazi per donne, reparti ospedalieri e squadre sportive in base al sesso biologico. Le esclusioni non sono obbligatorie.

Istituzioni come il Sistema Sanitario Nazionale (NHS) e la Commissione per l’Uguaglianza e i Diritti Umani (EHRC) stanno rivalutando le loro politiche per conformarsi all’interpretazione.

L’EHRC ha deciso che i servizi monosesso devono ora basarsi sul sesso biologico. I certificati di riconoscimento di genere mantengono valore legale in ambiti come matrimonio e pensioni, ma il loro peso nel conferire diritti basati sul sesso secondo l’Equality Act, viene limitato.

Le persone trangender sono comunque tutelate contro discriminazioni e molestie, e rimangono protette sotto l’Equality Act per quanto riguarda la caratteristica della “riassegnazione di genere”. Insomma, la sentenza non implica che le persone in transizione o transitate vengano abbandonate a sé stesse.

Sia chi vi ha letto un riconoscimento dei diritti delle donne e un rafforzamento della tutela basata sul sesso, sia chi ha espresso preoccupazione per un aumento di ostracismo, discriminazioni e aggressioni contro le persone transgender, carica di connotati politici una decisione che lascia intatte le questioni sociali e sanitarie collegate all’aumento nei paesi occidentali delle persone, in particolare giovani, che affermano di non riconoscersi nel sesso assegnato alla nascita.

Non aveva senso aspettarsi che la Corte Suprema affrontasse questo problema e una diversa interpretazione dell’Equalità Act non solo sarebbe stata sbagliata in punta di fatto e di diritto, ma non avrebbe aiutato (anzi!) a gestire meglio un problema sociale e politico che è sempre più oggetto di polarizzazione pseudo-ideologica.

Dovremmo aver capito da tempo che i pregiudizi sociali, in questo caso contro chi è transgender, non si curano facendo leggi o sentenze sbagliate. Karl Popper sosteneva che le società aperte, quelle che nella storia hanno prodotto più libertà e benessere, sono piene di difetti, che tuttavia non ne compromettono il funzionamento; ma queste società liberali non sopravvivrebbero mai alla credenza comune che non esistono fatti oggettivi.

La sentenza dell’Alta Corte britannica fa capire che una comunità deve usare dei punti di riferimento più o meno controllabili per canalizzare in modo giusto i diritti. Da quei punti di riferimento si possono costruire percorsi sensati per capire la natura delle sfide, come le sofferenze e i rischi delle persone che sentono di non appartenere al sesso genetico, senza inseguire fantasie relativiste.

La nostra indole umana, la nostra natura, ci porta a pensare che basti mollare i lacci del buon senso empirico (che non è senso comune) per affrontare situazioni che non riusciamo a spiegare. Però il sesso sappiamo cosa è, incluse le forme cosiddette intersessuali e i disturbi dello sviluppo sessuale, mentre il genere è un’idea abbastanza indefinita. Sulla quale è rischioso costruire diritti a piacere, solo perché si “sente” che farebbe stare meglio.

La Corte Suprema è dovuta intervenire perché c’era troppa indeterminatezza nella politica agganciata al genere. In una fase in cui il genere e la possibilità di cambiarlo medicalmente, anche quando si è minorenni, sono argomenti ideologicamente infiammabili. È un tema a contenuto sanitario. Che polarizza forse più dei vaccini. Chiunque ha un’opinione. Di norma forte, acritica e alimentata da pregiudizi.

Malgrado si dica che viviamo nell’era dell’evidence based medicine (medicina basata sulle prove di efficacia), ai fatti e alle prove si ricorre selettivamente, usando solo quelli che confermano il preconcetto di partenza. Magari sono fatti, ma di certo non prove. Si tratta di questioni che hanno anche una maledetta natura etica.

Per cui sarà anche più difficile risolverle per il meglio, e uscirne fuori.

La Corte Suprema di Londra si pronuncia su estensione dell\\'Equality Act , APN (La Corte Suprema di Londra si pronuncia su estensione dell’Equality Act
APN)

La visione demoniaca di Papa Leone XIII (butac.it)

di 

Una "leggenda consolidata" che circola da 
circa un secolo...

C’è una leggenda urbana che circola da tempo e che ultimamente ha cominciato a diventare virale anche in rete. Il tutto anche grazie a siti come Il Giornale d’Italia che l’hanno riproposta ultimamente.

Vi riportiamo il testo della leggenda per come proposto da Il Giornale d’Italia:

Era il 13 ottobre 1884. Papa Leone XIII, al termine della celebrazione della Santa Messa nella sua cappella privata, fu colto da una visione terribile. Improvvisamente pallido e scosso, si bloccò ai piedi dell’altare, come assente dal mondo circostante. I cardinali presenti lo osservarono con crescente preoccupazione. Ripresosi, il Pontefice si ritirò nel suo studio, lasciando dietro di sé un senso di sgomento e mistero.

Poco dopo, con voce ancora tremante, rivelò ciò che aveva vissuto: “Ho visto i demoni e ho sentito i loro bisbigli, le loro bestemmie, le loro denigrazioni”. Il racconto di Leone XIII lasciò attoniti i suoi collaboratori: Satana, in quella visione, avrebbe sfidato Dio, chiedendo 100 anni di potere per tentare di distruggere la Chiesa e portare il mondo alla perdizione.

In quello stesso giorno, il Papa vide anche San Michele Arcangelo, il celeste difensore, emergere in tutta la sua gloria per ricacciare Satana nell’abisso. Un segno chiaro che la battaglia spirituale, seppur reale e feroce, avrebbe avuto un esito già scritto nella vittoria divina.

Profondamente scosso ma ispirato, Leone XIII convocò subito il segretario della Congregazione dei Riti e dettò una preghiera destinata a divenire celebre: la Preghiera a San Michele Arcangelo, che da allora fu recitata dopo ogni Santa Messa fino al Concilio Vaticano II.

“San Michele Arcangelo, difendici nella battaglia…” – così iniziava la supplica che il Pontefice volle fosse affidata all’intera Chiesa per fronteggiare le forze dell’oscurità che egli aveva veduto e udito con i propri sensi.

Si tratta di quella che potremmo definire una “leggenda consolidata”, visto che circola da circa un centinaio di anni. Non esiste alcun riscontro ufficiale del racconto ed è questo che fa capire che si tratta di una leggenda: già nell’Ottocento, infatti, era assolutamente normale archiviare ogni cosa che il Papa facesse durante il suo mandato.

Ma di questa vicenda non si trova traccia né nei documenti vaticani ufficiali né nelle biografie contemporanee del Papa. Solo tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento la storia ha cominciato a circolare in forma scritta e orale. Ma di tutto il racconto l’unica cosa reale e documentata è la questione della preghiera a San Michele Arcangelo, che fu realmente scritta da Leone XIII e voluta da recitare alla fine di ogni Messa, ma nel 1886, non nel 1884.

La leggenda ha avuto la funzione per la Chiesa di rafforzare la devozione a San Michele Arcangelo e sottolineare ancora una volta la “lotta spirituale” tra bene e male, tutti ingredienti cari alla religione cattolica. la cosa che intristisce è vedere riportato il racconto anche nella Wikipedia italiana, senza che vi sia però una singola fonte.

A dimostrazione che anche Wikipedia, se compilata da mani sbagliate, può essere uno strumento di disinformazione. Ma se andate a leggere i tanti resoconti della leggenda vi accorgerete che sono tutti identici a sé stessi, senza che vi sia mai una singola fonte autorevole dell’epoca.

Concludendo

Siamo di fronte a una bella favola a effetto, costruita a posteriori e ripetuta fino a trasformarla in fatto conclamato (al punto che viene citata non solo su Wikipedia, ma anche sui siti di tantissime parrocchie). Ma la storia non si fa con i copia e incolla, e anche la fede, perlomeno su fatti come questi, dovrebbe basarsi su resoconti verificati e verificabili.

Ma io continuo a pensare a quella teiera in orbita con cui prima o poi vorrei farmi una bella tisana, magari insieme a Bertrand Russel.