La minaccia dell’atomica e il mondo quasi spacciato (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola Posta

Medvedev assicurava che, in caso di turbamenti della cerimonia del 9 maggio, il 10 Kyiv non esisterà più.

Putin dice che spera non ci sia bisogno dell’atomica. Che dal 24 febbraio 2022 viene masticata come un chewing-gum dalle bocche del Cremlino. E ogni volta le minacce restano senza risposta

Il mondo è quasi spacciato. Quasi: non è poco.

Parlarne come si sarebbe parlato del Titanic prima del varo, invece che dopo l’urto con l’iceberg, è un dolce inganno. Parecchio più di tre anni fa, Vladimir Putin dichiarò che la pratica ucraina sarebbe stata sbrigata in tre giorni. Parecchio più di tre mesi fa, Donald Trump (prima, in realtà, ma da allora coi pieni poteri) dichiarò che avrebbe chiuso la pratica ucraina in 24 ore.

E’ tipico il modo in cui i bulli potenti si compiacciono di giocare col tempo degli ultimatum. Dmitrij Medvedev, replicando a una superflua provocazione di Volodymyr Zelensky, ha assicurato che se il 9 maggio qualcosa turbasse la cerimonia moscovita, il 10 maggio Kyiv non esisterà più.

Domenica Putin ha impreziosito il film sui propri 25 anni di dittatura, con la frase benigna sulla bomba atomica, “della quale non c’era e speriamo che non ci sia bisogno, possiamo ottenere i nostri obiettivi in Ucraina senza usare queste armi”. Dall’invasione del 24 febbraio 2022, la bomba atomica viene masticata come un chewing-gum dalle bocche del Cremlino.

Ci sono, se non opinioni, sentimenti diversi sulla cosiddetta deterrenza. C’è stato un tempo, è stato anche quello della mia generazione, e il mio personale, in cui si è propugnato il disarmo unilaterale. Quanto all’atomica, c’è stata la proliferazione, e insieme qualche passo materiale e soprattutto simbolico verso la riduzione degli arsenali, fra le potenze maggiori.

Qualcosa di assai vicino al miracolo aveva sventato la ripetizione dell’uso delle armi nucleari, intanto diventate enormemente più micidiali, dopo il doppio colpo di Hiroshima e Nagasaki. Poi la tendenza si è invertita, e oggi la guerra all’Ucraina persuade ogni stato della necessità di confidare la propria sicurezza, esterna e interna, al possesso dell’armamento nucleare.

La Corea del Nord, tronfia delle sue testate nucleari, è cobelligerante della Russia in Ucraina. India e Pakistan, sull’orlo di una guerra aperta, sono due potenze nucleari. Israele, potenza nucleare, fronteggia l’Iran, sul punto di divenirlo. 

Ogni volta che Putin e i suoi sottocapi nominano l’atomica – innumerevoli volte, ormai: quando si rompe un tabù è come quando cede una diga – le loro minacce restano senza risposta. Si può attribuirlo a un senso di responsabilità. Negli ultimi tre anni la risposta sottintesa era che dagli alleati dell’Ucraina, cioè dalla Nato, sarebbe venuta una replica proporzionata, anche se non a sua volta nucleare.

Dopo l’avvento di Trump, gli alleati dell’Ucraina, e la Nato, sono nozioni nebulose, se non scadute.

La domanda è: prima che il genere umano concordi sulla follia degli armamenti e li scali progressivamente fino al disarmo universale, sarebbe opportuno o no che chiunque evocasse l’impiego della sua arma atomica fosse avvertito da chiunque altri della certezza di esserne punito?

Resistenza italiana e Resistenza ucraina (butac.it)

I perché di questa analogia

Come ogni 25 aprile, anche quest’anno abbiamo festeggiato la Liberazione, ricordando e celebrando la caduta del fascismo nel nostro Paese.

La ricorrenza è legata all’emanazione dell’ordine di insurrezione generale del CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia), scattato proprio il 25 aprile. Milano e Torino insorsero, mentre a Genova il generale tedesco Gunther Meinhold accolse la proposta dei rappresentanti del CLN, firmando la resa incondizionata: fu l’unico caso in Europa in cui un contingente militare tedesco si arrese ai partigiani senza l’intervento degli Alleati.

Il 25 aprile è così divenuto un simbolo: esso rappresenta il giorno in cui gli italiani di ogni parte politica, uniti nella lotta contro l’invasore nazista e l’oppressore fascista, hanno determinato la liberazione del Paese dall’autoritarismo, dalla propaganda di partito, dall’irreggimentazione delle masse, dalla repressione politica, dalla censura mediatica, dalla follia delle leggi razziali e dalla retorica della grandezza di fronte al desolante stato delle cose. In una parola: Liberazione.

Ovviamente, come accade a ogni simbolo, esso è stato epurato delle sue spigolature. Ciò che ha permesso la Liberazione è stato l’intervento degli Alleati, con lo sbarco in Sicilia prima e l’avanzata verso le Alpi poi, ma ad essa ha contribuito la Resistenza degli italiani, cioè la guerra partigiana e l’impegno di tanti altri che, senza armi, hanno comunque attivamente contribuito alla lotta al nazi-fascismo.

La sua importanza risiede esattamente nel fatto di non essere stata decisiva per l’esito della guerra: potevano aspettare che gli Alleati finissero il lavoro, scappare o finire tra le fila dei soldati di Salò, ma hanno preferito combattere e morire per liberare il loro Paese. Il significato simbolico più alto della Resistenza è questo.

Il discorso potrebbe essere allargato all’importanza che essa ha avuto per questioni, per così dire, più tangibili: i nostri rapporti con gli Alleati, la possibilità di indire un referendum sulla forma di governo del Paese – monarchia o repubblica – e quella di votare a suffragio universale una Costituente formata dai rappresentanti di tutti i partiti politici della penisola, nonostante la posizione di Paese sconfitto. Nella Costituente era peraltro presente anche il PCI, inviso sia agli inglesi che agli americani, ma che tanto aveva contribuito nella Resistenza.

Sul movimento partigiano sono stati scritti fiumi di inchiostro. Paolo Mossetti ad esempio ripercorre in un articolo su Wired gli eventi, come si è arrivati alla festa nazionale del 25 aprile, e offre una riflessione sul significato che ha oggi; mentre Maurizio Stefanini elencava tempo fa in un articolo su Il Foglio alcune delle questioni che più hanno acceso i dibattiti sul tema: quanti furono effettivamente i partigiani, il loro contributo bellico, il significato di quello che fecero e quanto questo incise sugli eventi del dopoguerra. 

Laura Fasani invece, in un interessante articolo su Il Post racconta le difficoltà nell’insegnare ai ragazzi nelle scuole ciò che fu la Resistenza e interroga proprio degli insegnanti capaci di offrire un metodo d’insegnamento differente e più efficace.

In questo articolo vorrei però soffermarmi su una discussione che non accenna a placarsi, vale a dire quella del parallelo tra l’esperienza italiana e quella ucraina, soprattutto in considerazione del fatto che chi sventolava le bandiere di questo Paese è stato respinto a Torino e che bandiere europee sono state bruciate a Torino Roma in segno di protesta contro il programma di riarmo Readiness 2030, legato a doppio filo alla guerra in Ucraina. Vale la pena tornare, dunque, su questo parallelo, per provare a chiarire alcuni punti fondamentali e provare a fare chiarezza.

Un primo accostamento sembra potersi datare al 24 febbraio 2022, vale a dire all’inizio dell’invasione del Paese, quando l’ANPI si dice contraria all’invio di armamenti all’Ucraina e arrivano all’associazione le prime accuse di ipocrisia.

Dieci giorni dopo, con Zelensky che aveva scelto di rimanere alla guida del Paese invece che fuggire su richiesta statunitense, e con l’esercito ucraino che continuava a combattere i russi alle porte di Kyiv, il 6 marzo la cantante ucraina Khrystyna Soloviy postava su Facebook un video in cui cantava una canzone dedicata «ai nostri eroi, alle forze armate e a tutti coloro che ora stanno combattendo per la loro patria»: il testo era stato riscritto, ma le note erano quelle di Bella ciao. A proposito di questa cantante e della sua vicinanza all’estrema destra ucraina abbiamo ricevuto una segnalazione alla quale abbiamo risposto in questo articolo.

Il giorno dopo viene pubblicato il video anche su Youtube e l’8 marzo ne danno notizia OpenIl Fatto Quotidiano e Repubblica. Proprio su quest’ultima, lo stesso giorno Luigi Manconi pubblicava un articolo dal sottotitolo piuttosto esplicito:

Dalla lezione dei partigiani all’articolo 11 della Costituzione, tutte le ragioni per non considerare un errore irreparabile l’invio di mezzi militari agli ucraini per contrastare l’invasione russa

Si arriva così all’11 marzo, quando su Il Manifesto appare quella che sarebbe dovuta essere una risposta a Manconi. Nell’articolo si scriveva che il paragone reggerebbe solamente se:

1. pensiamo di essere già in guerra con la Russia;

2. pensiamo di vincerla militarmente;

3. pensiamo che l’invio di armi abbrevierà il conflitto anziché prolungarlo, incaricando gli ucraini di fare la guerra con le nostre armi per nostro conto.

Uno dei primi personaggi pubblici a pronunciarsi contro tale analogia è poi Tomaso Montanari, che il 18 marzo concede un’intervista a Left:

Qui non si tratta di sminuire la Resistenza degli ucraini o di celebrare quella italiana. Il punto è che se non fossero arrivati gli alleati, se non fossero sbarcati in Sicilia, se non avessero cominciato la controffensiva proprio dall’Italia, sarebbero stato impossibile per la Resistenza italiana avere successo. Probabilmente sarebbe stata organizzata in altro modo, non avrebbe assunto le forme che ha assunto. La guerra di Liberazione ha avuto un significato morale profondissimo, ci ha meritato un dopoguerra diverso da quello tedesco e ha portato alla nostra Costituzione. Ma dal punto di vista militare, senza l’intervento degli alleati, avrebbe avuto scarse chance di farcela di fronte all’esercito nazista seppur in ritirata. Spingere l’Ucraina alla guerriglia come in Afghanistan [grassetto nostro ndr] significherebbe costringerla ad essere teatro di guerra per anni o per decenni. Mi sembra una prospettiva mostruosa. Ma c’è anche un’altra cosa da dire: la Resistenza al nazifascismo non fu nazionalista. L’invasore di cui parla “Bella ciao” è l’invasore nazista, ma è anche quello fascista. La Resistenza fu anche la guerra contro lo Statuto albertino, per una società più giusta. Quei ragazzi non andavano a morire per  tornare al re, alla corona e all’Italia oligarchica, fascista, ma lottavano per un cambiamento radicale. Il risultato fu la Costituzione italiana, che sarebbe rivoluzionaria se attuata, come diceva l’azionista Calamandrei.

Ebbene, a ben guardare, sembra che sia il Manifesto che Montanari – e molti altri con loro – abbiano frainteso quanto detto da Manconi qualche giorno prima. Per chi non riuscisse a leggere l’articolo di Repubblica sopra linkato può trovare un suo intervento su Facebook. In breve, le due resistenze non sono perfettamente sovrapponibili e questo è stato chiarito – e chiaro – fin da subito.

Quello che intende fare chi propone tale accostamento – sia esso Manconi o meno – non è infatti tentare una perfetta sovrapposizione di due eventi che rimangono distinti per tanti aspetti, ma mettere in evidenza come gli ideali di fondo che ispirano la guerra combattuta dagli ucraini oggi sono gli stessi che hanno ispirato la guerra partigiana ottanta anni fa.

I tre punti presi dal Manifesto, in particolare il punto 3, riprendono una retorica affermatasi fin da subito nel 2022, una retorica già affrontata fino alla nausea e sulla quale reputo sia solo uno spreco di tempo soffermarsi. Quanto detto da Montanari, invece, merita una riflessione, perché per lui: 1) l’Ucraina veniva in quei giorni spinta alla guerriglia; 2) la Resistenza non fu nazionalista; 3) i partigiani andavano a morire per un cambiamento radicale.

Ebbene, anzitutto dire che l’Ucraina sia stata spinta alla guerriglia – o alla guerra – quando al suo presidente è stata offerta la fuga in elicottero risulta alquanto problematico, anche e soprattutto perché la popolazione civile ucraina ha scelto di sua spontanea volontà di prendere parte alla difesa della patria fin dal primo istante. Come ha scritto Al Jazeera in quei giorni:

I numeri di coloro che volevano arruolarsi per difendere l’Ucraina erano così elevati che in molti hanno detto ad Al Jazeera di essere stati respinti perché le unità erano al completo. Alcuni sono rimasti in lista d’attesa.

Peraltro, ancora oggi nei territori occupati dai russi sono in molti ad effettuare costanti azioni di sabotaggio. Ecco, la scelta del popolo ucraino di non arrendersi, ma continuare a combattere, sembra essere una notevole somiglianza con quanto accaduto durante la Resistenza italiana.

Al punto due, invece, Montanari opera una forzatura, perché dà per scontato che la lotta ucraina sia nazionalista, ma per darne una tale definizione non è sufficiente che i soldati e i civili ucraini lottino per il proprio Paese. Anche i partigiani combatterono per l’Italia e tra di loro si chiamavano però patrioti. Suppongo quindi che l’accusa di nazionalismo venga mossa a partire dalla solita retorica che coinvolge il battaglione Azov e altre questioni già affrontate qui su BUTAC. Non vale davvero la pena spenderci qui altre righe.

Infine il terzo punto: è vero, gli ucraini non combattono per porre fine al regime fascista del loro Paese, perché il loro paese non è fascista. Essi, piuttosto, combattono perché un regime simile non venga loro imposto dai russi.

L’Ucraina indipendente ha visto un totale di sette elezioni presidenziali che hanno a loro volta portato alla presidenza sei presidenti differenti, anche di più parti politiche, mentre la Russia è guidata da un presidente entrato per la prima volta in carica nel 2000 e che, con una parentesi di quattro anni dal 2008 al 2012 in qualità di Primo Ministro – seconda carica del Paese – è giunto oggi al suo quinto mandato presidenziale.

Non solo il vincolo dei due mandati è stato di fatto modificato appositamente per permettere il reinsediamento della stessa persona, ma la durata della carica è stata prolungata da quattro a sei anni. Infine, tutte le elezioni sono state vinte con percentuali bulgare che vengono spavaldamente riproposte persino nelle aree attualmente occupate dell’Ucraina.

Gli ucraini combattono perché questo non sia il futuro che li attende.

Il Freedom of Press Index realizzato ogni anno da Reporter Senza Frontiere è un utilissimo strumento per avere una panoramica sulla libertà di informazione nel mondo, poiché a ogni Paese corrisponde un punteggio che permette poi di posizionarlo in una classifica mondiale.

Tale punteggio deriva da quelli ottenuti in cinque principali aree tematiche, di cui una è la sicurezza dei giornalisti nell’esercizio della professione: consultando il sito è possibile entrare più nel dettaglio e vedere come sia la guerra a condizionare enormemente questo singolo indicatore che va poi ad incidere negativamente sulla complessiva libertà del giornalismo in Ucraina.

Due cose però fanno più impressione di ogni altra: da un lato il fatto che, se eliminiamo dal paragone l’indicatore “sicurezza”, l’Ucraina si posiziona sopra l’Italia; dall’altro la condizione della Russia.

Invito ad approfondire il sito di RSF, perché è anche per evitare che la loro stampa piombi in questa condizione che gli ucraini combattono.

Non solo il giornalismo, ma anche le manifestazioni in Russia vengono brutalmente represse. Vale la pena ricordare le grandi manifestazioni in Russia dal 2011 al 2013, quando centinaia di migliaia di cittadini sono scesi in piazza a protestare contro i brogli elettorali e il ritorno di Putin alla presidenza.

Scriveva Human Rights Watch:

Vladimir Putin ha supervisionato la rapida inversione di tendenza dei pochi e timidi progressi dell’ex presidente Dmitrij Medvedev in materia di libertà politiche e ha scatenato una repressione senza precedenti contro l’attivismo civico. Nuove leggi del 2012 limitano le organizzazioni non governative e la libertà di riunione e di espressione. Nuove leggi locali discriminano le persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender (LGBT).

Tutti ricorderemo invece le più recenti manifestazioni pacifiche contro la guerra che hanno avuto luogo a San Pietroburgo subito dopo l’inizio dell’invasione e sono andate avanti per giorni: esse sono state represse con la forza e in migliaia sono stati arrestati. Intanto, nelle trasmissioni televisive va in onda il video di un possibile bombardamento nucleare di Londra e si fanno affermazioni come:

La Polonia ci è già passata, si può separare in due, tre o sei parti molto bene.

La Polonia è stata comodamente divisa tre volte, potrebbe esserlo una quarta.

E chi non parla sorride compiaciuto.

Gli ucraini hanno combattuto e combattono perché tutto questo non accada nel e al loro Paese.

Come se non bastasse, lo stesso Putin ha affermato che l’Ucraina attuale non è altro che una creazione artificiale di Lenin e riconduce ucraini e russi, assieme ai bielorussi, a un unico popolo abitante della “nazione trina russa”.

Tutto questo è contenuto in un libro – mi rifiuto di definirlo “saggio”, non me ne vogliate – intitolato “Sull’unità storica di russi e ucraini” e datato 12 luglio 2021. L’articolo Che cosa dovrebbe fare la Russia con l’Ucraina chiarisce alcune questioni, affermando che l’”ucrainità” è una “costruzione antirussa”, un elemento “subordinato ad una civiltà straniera [l’Occidente, ndr] e contro natura”.

Questo veniva pubblicato il 3 aprile 2022 dall’agenzia di stampa statale russa RIA Novosti, proprio in concomitanza con lo scandalo internazionale suscitato dalle prime immagini del massacro di Bucha, di cui avevo scritto in questo articolo.

In breve: uomo forte al governo, struttura verticistica del potere, elezioni truccate, repressione della libertà di stampa e di manifestazione, propaganda di partito che si fa propaganda di Stato.

Tutti questi elementi si ritrovano nella definizione di fascismo, per cui non è forse un caso se lo storico britannico Timothy Garton Ash, esperto di storia contemporanea dell’Europa dell’Est, in un articolo pubblicato sul Financial Times ha scritto le seguenti righe dedicate alla Russia di Putin:

In essa si possono ritrovare molti dei tratti storici del fascismo. Il culto di un singolo leader, organizzato dallo Stato. La coltivazione di un profondo senso di risentimento storico. L’indottrinamento dei giovani e la demonizzazione del nemico. La propaganda della grande menzogna – nel caso di Putin, che gli ucraini siano fascisti. Un’ideologia di dominio di un Volk sugli altri: per Putin, gli ucraini non esistono realmente, sono solo una variante dei russi. Un’estetica di machismo marziale e di eroico massacro – si pensi all’elogio del presidente russo alla brigata responsabile delle atrocità di Bucha. Soprattutto, la pratica di una feroce repressione in patria e di violenza genocida all’estero.

Per molti anni ho condiviso la riluttanza di altri studiosi e analisti a usare il termine fascismo al presente. […] Gridare “fascista!” suggeriva un’equazione superficiale con Adolf Hitler […] L’estrema sinistra ha ulteriormente svalutato il termine, abusandone per denunciare chiunque, dai padroni capitalisti agli insegnanti moderatamente disciplinari.

Il putinismo ha una dimensione post-sovietica nuova, mentre elementi storicamente caratteristici come la mobilitazione attiva delle masse sono in gran parte assenti nella Russia odierna. Ma nessun fenomeno storico si ripete esattamente nella stessa forma. Perdiamo qualcosa di importante nella comprensione della vasta gamma della politica di destra contemporanea se ci proibiamo di parlare di fascismo, come faremmo se rinunciassimo a qualsiasi riferimento al comunismo quando discutiamo di politica di sinistra. Con tutte le dovute avvertenze, possiamo parlare di fascismo russo.

E se il fascismo non si presenterà più nelle stesse forme, come d’altronde ha già scritto anche un nostro illustre connazionale, allora nemmeno la Resistenza lo farà.

PS: Per chi volesse approfondire suggerisco la conferenza Italia e Ucraina: Resistenze gemelle, dedicata proprio al tema trattato in questo articolo, e dove Pierfrancesco Zazo richiama le parole di Garton Ash sopra riportate.

RC

«Le democrazie arretrano. Non sono d’accordo con lui ma Padellaro resta un amico» (corriere.it)

di Roberto Gressi

Lerner: ha ragione solo sulla retorica che 
banalizza la Resistenza

L’intervista

Padellaro, nel suo libro, mette alla berlina gli «antifascisti immaginari», e dice che tu che lo critichi, Gad Lerner, o non lo hai letto o non lo hai capito.

«Antonio resta un amico, ci siamo già sentiti e, come chiede lui, ci confronteremo guardandoci negli occhi. Ma il dissenso è netto: già due anni fa lui chiedeva agli antifascisti di prendersi un alka seltzer, un antiacido».

Di che cosa lo accusi?

«Di non vedere quanto sia facile piegarsi a nuove forme di autoritarismo. Gli italiani si abituarono al fascismo e il regime durò vent’anni. Li apra, gli occhi. In Wisconsin una giudice viene arrestata per aver protetto un immigrato. Netanyahu caccia il direttore dello Shin Bet, scatenando la protesta popolare. In Turchia Erdogan incarcera il sindaco di Istanbul, per impedirgli di vincere le elezioni. Orban vieta le manifestazioni Lgbtq+. Putin poi… Paesi una volta democratici arretrano, il fascismo chiedeva il giuramento ai professori, ora Trump attacca le università non omologate alla linea del governo e le priva dei finanziamenti».

Ma l’attacco è al piagnisteo delle dolenti «facce da Ventotene».

«Me li immagino Padellaro e Travaglio che ne parlano tra loro, si danno di gomito e sghignazzano. Mario Monti ha scritto sul Corriere: “Quel che avviene in America oggi, se non prendiamo le distanze, può essere più pericoloso di quel che è avvenuto in Italia fra il 1922 e il 1943”. Il suo è un allarme reale o è anche lui una faccia da Ventotene?».

E gli «al lupo, al lupo» che rievocano lo spettro della marcia su Roma?

«Le democrazie scricchiolano, non si risponde a questo pericolo con una goliardia da tarda età. Antonio ha ragione, esiste anche una retorica che banalizza la Resistenza, ma non si affronta con lo sberleffo del suo pamphlet. E tanto meno con la denigrazione della democrazia, con la quale la destra è cresciuta e che a destra declinano con “non ha vinto la Resistenza ma gli alleati”, oppure con “ci furono atrocità da tutte e due le parti”. È una mistificazione della storia. Antonio, tu ci sei stato a via Tasso, hai visto che cosa vuol dire essere torturati e la barbarie della rappresaglia, e ti sei commosso».

Nel mirino del libro però ci sono i «professionisti» dell’antifascismo.

«Mi ha colpito un passaggio della prefazione di Travaglio al libro di Antonio. Cito: “Oggi l’uomo forte non indossa più l’orbace o la camicia nera: veste la grisaglia del tecnico”. E indica i due “Supermario”, Monti e Draghi. Ma davvero? Ma dai! Certo, poi è importante l’autorevolezza con la quale si chiama la necessità della memoria. Sergio Mattarella non si stanca mai di esserne un esempio».

Di che cosa lo accuso? Di non vedere quanto sia facile piegarsi a nuove forme di autoritarismo. Le tesi mi sembrano dedicate al nostro piccolo cortile, quello artefatto dei talk show. Freddezza a sinistra sulla commemorazione delle Foibe. «Chino il capo di fronte a quella tragedia. Ma non mi sfugge che la destra abbia voluto quella celebrazione, anche come collocazione temporale, per paragonarla strumentalmente alla Shoah».

C’è una frangia dell’antifascismo che sfocia nell’antisemitismo.

«Credo sia un errore importare il conflitto del Medio Oriente ai cortei del 25 aprile. Ma la storia ci dice ben altro sul fascismo. Mesi prima che la Brigata ebraica sbarcasse a Taranto, c’erano già 800 ebrei italiani che combattevano il nazifascismo, a cominciare dai fratelli Rosselli».

Non salvi nulla del libro di Padellaro?

«È vero che pretendere da Meloni di dichiararsi antifascista equivarrebbe a chiederle di mentire. Per il resto il suo libro mi sembra dedicato al nostro piccolo cortile, quello artefatto dei talk show. Mentre fuori ci sono i tuoni, i fulmini, gli allarmi, le bufere».

Provocazione o rivendicazione che fosse, quella di Giorgia Meloni sul manifesto di Ventotene, la reazione della sinistra non è stata un po’ goffa?

«Altra banalizzazione. Io ricordo bene la reazione in Aula di Federico Fornaro, dura, indignata e poi commossa fino alle lacrime. Ha detto “Meloni si inginocchi davanti alla memoria di chi ha scritto il manifesto di Ventotene”. Fu su quell’isola che Spinelli, Rossi e Colorni, confinati lì dal fascismo, gettarono le basi per un’Europa federale, contro i nazionalismi che avevano prodotto due guerre mondiali».

Fuori dai denti, perché hai lasciato il Fatto?

«Ci sono stato cinque anni. Riconosco a quel giornale grande indipendenza, dà notizie scomode, mai mi ha censurato. Ma trovavo non più sopportabile l’indulgenza verso Trump, Putin e le destre nazionaliste. Mi sentivo un pesce fuor d’acqua».