L’enorme bufala di Donald Trump sui tatuaggi di Abrego Garcia, l’uomo deportato per errore a El Salvador. Poi contesta il fact-check del giornalista con un’argomentazione surreale (open.online)

di David Puente

Trump non ha ancora capito che l’immagine da lui mostrata nello Studio Ovale era stata “alterata” con Photoshop

«Aveva la scritta MS-13 sul tatuaggio sulle nocche» dichiara Donald Trump durante un’intervista rilasciata ad ABC per sostenere che Abrego Garcia, l’uomo che senza alcuna prova e processo è stato incarcerato e deportato per errore a El Salvador, facesse parte della banda criminale nota come Mara Salvatrucha (MS-13).

Smentito dall’intervistatore, Terry Moran, il Presidente americano non l’ha presa molto bene, pretendendo di avere ragione avendo lui stesso mostrato una foto dei tatuaggi presenti nella mano dell’uomo durante un suo passato intervento presso lo Studio Ovale.

Nella fotografia, fornita dal suo staff, si vedono delle figure tatuate e le scritte MS-13, ma queste erano state palesemente aggiunte con un programma di fotoritocco solo per fornire l’interpretazione infondata dei veri tatuaggi di Abrego Garcia.

Terry Moran, affrontando ancora la vicenda, spiega al presidente americano che Abrego Garcia «non faceva parte di una gang» e che c’era una disputa riguardo l’interpretazione dei suoi tatuaggi. A quel punto, Trump inizia a infastidirsi, sostenendo che le scritte sulla mano fossero reali: «Aspetta un attimo, aspetta un attimo.

Aveva la scritta MS-13 sul tatuaggio sulle nocche». Moran tenta di chiarire che quelle scritte erano state aggiunte “con Photoshop”, ma Trump lo interrompe con un’argomentazione surreale, lasciando intendere che l’intervistatore dovrebbe solo ringraziarlo per l’occasione ricevuta e senza contraddirlo: «Aspetta un attimo, Terry, Terry, Terry… Terry, non puoi farlo. Ehi, ti stanno dando la grande occasione della vita. Sai, stai facendo l’intervista. Ti ho scelto perché, sinceramente, non ti avevo mai sentito nominare, ma va bene. Ti ho scelto, Terry, ma non sei molto gentile. Aveva tatuata la sigla MS-13».

Nonostante i toni, l’assurda argomentazione e le accuse di “fake news”, Moran non demorde e spiega a Trump che le foto di Abrego Garcia scattate a El Salvador non mostravano affatto le scritte da lui indicate. Niente da fare, perché il presidente americano, evidentemente seccato, prosegue con la sua narrazione: «Guarda la fotografia. Ci sono ora, giusto? Ha l’MS-13 sulle nocche».

La foto “alterata” mostrata nello Studio Ovale

Donald Trump aveva diffuso su Truth la foto dei tatuaggi nelle nocche di Abrego Garcia, come prova della sua appartenenza alla banda criminale. Nell’immagine leggiamo MS13, ma le scritte risultano aggiunte con un programma di fotoritocco.

Le scritte sono troppo precise, a partire dal colore, e non seguono correttamente le forme delle nocche.

Confrontando le foto reali di Abrego Garcia, risultano presenti i tatuaggi sottostanti ma senza le scritte MS13.

Nelle foto scattate durante l’incontro a El Salvador tra Abrego Garcia e il senatore americano Van Hollen (DEM), le mani non presentano affatto le scritte.

Il tatuaggio con le scritte obbligatorio della banda criminale

Come riportato dal New York Post, l’agenzia federale Immigration and Customs Enforcement (ICE) ritiene che un tatuaggio con la scritta MS-13 sia obbligatorio per i membri della banda: «Una fonte dell’ICE ha detto al Post che un tatuaggio con il numero “13” sarebbe stato obbligatorio per Abrego Garcia se fosse entrato a far parte della famigerata gang mentre viveva negli Stati Uniti».

Di fatto, nessuno ha mai riscontrato simili scritte tatuate sul corpo di Abrego Garcia. Di seguito, uno scatto del fotografo Adam Hinton che mostra come i membri della banda si tatuino le scritte sul corpo.

Un’altra foto, pubblicata dal repubblicano Riley M. Moore, dimostra come i membri della banda tatuino vistosamente le scritte sul proprio corpo.

Nonostante tutte le evidenze e l’intervento della Corte Suprema, riguardo all’errata deportazione di Abrego Garcia, Donald Trump prosegue a sostenere la sua narrazione e la sua intenzione di non far tornare negli Stati Uniti l’uomo. Di fatto, crede a un’immagine “photoshoppata” come prova della colpevolezza dell’uomo.

“BUG – Bufale USA e getta” è la rubrica di Open Fact-checking dedicata alle falsità e le notizie fuorvianti provenienti dagli Stati Uniti. Il nome richiama il “bug di sistema” informatico, metafora per le distorsioni e le stranezze dell’infosfera americana.

Sionista, e altre parole imprecise in bocca a interlocutori sempre più scarsi (linkiesta.it)

di

L’avvelenata

Ottusi chic

Nessuno sa più esprimere un concetto in modo chiaro, né Vongola75 né i ristoratori né gli intellettuali. Figuriamoci l’intelligenza artificiale

E se quelli la cui idea di insulto definitivo, di parola che chiude la conversazione, di delegittimazione dell’interlocutore è dire «sionista», se quelli lì fossero uguali identici spiccicati a quelli che teoricamente sono distantissimi da loro, quelli la cui idea di insulto definitivo eccetera è dire «antisemita»?

Se la ristoratrice che ritiene di doverti educare, istruire, convertire alle sue idee sulla Palestina o su altro, e il – da lei teoricamente distantissimo – Met Ball, la serata di gala newyorkese che ha il tema dei dandy neri e quindi ecco certo non bisognerebbe fare la passerella mondana con tutte le cose brutte che succedono nel mondo ma mica puoi annullare il tappeto rosso proprio l’anno che abbiamo il tema afroamericano, se questi due tentativi di infarcire di ricatto culturale un abito da sera o una fettuccina fossero non certo distanti ma invece uguali identici precisi?

Se non ci fosse nessuna differenza, ma proprio nessuna, tra la ristoratrice che i clienti che non la pensano come lei nel suo ristorante non ce li vuole, e tutti quelli – li conosco io, li conoscete voi, li conosciamo tutti – che da anni si vantano di non voler più parlare con quel loro familiare che osa non ritenere che Trump sia il Male Assoluto, o che lo sia Salvini, o che lo sia la Meloni?

Se dire «antisemita» avesse ormai la valenza che aveva «comunisti» detto da Berlusconi, che parlava di insegnanti di lettere moderatissimi pittandoli come fossero stati degli stalinisti intenti a pianificare la fine della proprietà privata, o che ha «radical chic» detto da Vongola75, che in genere si rivolge a quegli stessi insegnanti di lettere di prima, quelli col mutuo per un bilocale neppure in centro, ignara, povera Vongola, che per essere radical chic si debba essere innanzitutto plutocrati, poi anche estremisti di sinistra, sì, ma prima ricchi, e non ricchi nell’accezione per cui è ricco chiunque guadagni tremila euro al mese, ricchi veri – se i due utilizzi sciatti di lemmi imprecisi non fossero poi così dissimili?

Mi pare che l’unica differenza, rispetto a prima, sia che gli automatismi lessicali sono diventati patrimonio anche degli intellettuali, e non solo delle vongole. Che ormai, sarà il PhD di cittadinanza o il fatto che se non appartieni a nessuna curva nessuno ti mette like e fatichi a percepirti vivo, non ci sia più nessuno che vive di precise parole.

Anche perché quelli che vorrebbero essere un po’ più accurati brancolano in un buio informativo fatto di risultati di Google imprecisi, voci di Wikipedia abborracciate, tantissimo rumore di fondo, e quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così che abbiamo noi quando in cima ai risultati di Google ora ci troviamo l’intelligenza artificiale, la quale ha lo stesso problema che hanno sempre avuto gli interlocutori scarsi.

Gli interlocutori scarsi, lo sappiamo perché o ne abbiamo almeno uno o siamo uno di essi, non sanno di essere interlocutori scarsi. Come tutti gli scarsi si sentono equipaggiatissimi, e quindi tendono a voler finire le frasi dell’interlocutore.

Guardavo Marco Travaglio dal podcaster più di successo (e quindi più scarso) d’Italia. L’intervistato raccontava d’aver perso una causa perché c’era stato un errore di persona (aveva attribuito a Tizio Caio non so che malefatte compiute da un suo omonimo).

Lo zelante intervistatore si affrettava a completare la frase, dicendo qualcosa come: e quindi ha fatto causa a te invece che a quell’altro che si chiamava uguale. L’interlocutore scarso, oltre a non avere lessico né informazioni, non ha neanche logica, e quindi non arriva da solo a intuire che un errore di persona significa che hai sbagliato tu l’attribuzione dei fatti, no che hanno sbagliato loro la querela (per carità, può accadere anche questo, ma arrivo a sperare che in quel caso non ti condannino).

L’intelligenza artificiale è uguale: non capisce mai cosa ti serve, ma è convinta di sì. È convinta di sapere che, se io cerco su Google “Carrère 2021”, non stia cercando soccorso perché sono così rimbambita che non mi ricordo il titolo di “Yoga”, ma voglia sapere in che ordine vadano letti i libri di Carrère, e prontamente mi rassicura che certo, sarebbe meglio cominciare da “Limonov”, ma posso leggerli nell’ordine che desidero (grazie, intellige’, meno male che m’hai dato il permesso, comunque se te lo chiedono davvero suggerisco di farli cominciare da “L’avversario”).

In un vecchio libro-intervista in cui conversava con Antonio Gnoli, “Passo d’uomo”, Francesco De Gregori raccontava un episodio forse mai avvenuto (non sto dandogli del mitomane: è lui stesso, in quel dialogo, a dire che chissà se era successo davvero, lui non se ne ricordava, gliel’aveva detto Lucio Dalla che, come tutti quelli che non hanno bisogno di cercarlo su Google sanno, aveva un rapporto piuttosto disinvolto con la verità).

Riferiva De Gregori che, nella versione di Dalla, una sera in cui si erano ritrovati a cena con Enrico Berlinguer, quello aveva chiesto a De Gregori la differenza tra una chitarra acustica e una elettrica, e lui – lui De Gregori – si era ammutolito invece di rispondere. A De Gregori pare plausibile, come reazione: «È una differenza che sai o non sai, e poi spiegarla al segretario del Pci sarebbe stato comico».

Se Berlinguer oggi chiedesse a Google, quello gli spiattellerebbe lì innanzitutto l’intelligenza artificiale che dice che «La chitarra acustica ha un corpo in legno che amplifica il suono in modo naturale, mentre la chitarra elettrica utilizza pickup magnetici per convertire le vibrazioni delle corde in segnali elettrici che vengono poi amplificati». Praticamente: la chitarra acustica è acustica, la chitarra elettrica è elettrica.

Sembra un’ovvietà, come quando Max Catalano diceva che è meglio essere ricchi e infelici che poveri e infelici, ma pure la definizione di «ovvietà» cambia nel tempo, e non lo dico solo perché oggi di certo s’indignerebbe qualcuno per il classismo di Catalano. Lo dico perché ho rivisto su RaiPlay un po’ di “Quelli della notte” (la settimana scorsa erano quarant’anni dalla prima puntata), trovandolo persino più noioso di quanto mi sembrasse a dodici anni.

La differenza è che allora pensavo fosse una cosa per grandi, adesso l’idea che i miei genitori quarantacinquenni si scompisciassero mi imbarazza parecchio. Oddio, mio padre rideva tantissimo anche del «ce l’ho qui la brioche» di “Drive In”, quindi forse quest’idea che una volta gli adulti fossero intelligenti devo riconsiderarla.

Comunque, che sia un’ovvietà il fatto che la chitarra acustica sia acustica è per ora vero, ma ricordiamoci di controllare se sarà ancora ovvio tra quarant’anni: alla prima puntata di “Quelli della notte”, Max Catalano diceva che se nasci maschio sei uomo e se nasci femmina sei donna, e chi glielo doveva dire che là, dove lui pascolava l’ovvietà come stilema comico, quarant’anni dopo ci sarebbero state le guerre culturali.

Quindi, il breve elenco di parole divenute imprecise che questo articolo sfiora include: sionista, antisemita, comunista, radical chic, omonimo, chitarra acustica, chitarra elettrica, uomo, donna. Quindi, aveva ragione il De Gregori del 2016, a lamentare «l’impressione, sgradevole, di essere spesso meno ignorante di quelli che mi chiedono il voto».

Alla quale, nove anni dopo, si aggiunge l’impressione, non rassicurante, che, per quanto gli intellettuali che bisticciano con le curve avversarie siano imprecisi, ci sia ancora margine di peggioramento.

Possiamo diventare più imprecisi, più ottusi, più tassonomici e più incapaci di capire i toni e più pieni di automatismi. Possiamo perfezionare queste nostre tendenze e somigliare ancora di più ai cervelloni elettronici cui ci affidiamo. Intravedo un luminoso futuro per ogni forma di stupidità, naturale e artificiale.

Meloni sbaglia sul Columbus Day “ripristinato” da Trump (pagellapolitica.it)

di Carlo Canepa

Stati Uniti
In realtà la festa dedicata a Cristoforo Colombo non è mai stata cancellata, nonostante l’annuncio del presidente degli Stati Uniti
Il 2 maggio, intervistata da Adnkronos, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ringraziato – «a nome degli italiani» – l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump per aver annunciato di voler «ripristinare il Columbus Day».

Secondo Meloni, questa festa «tanto cara alla comunità italoamericana» avrebbe «subìto un vergognoso attacco ideologico nel nome della cancel culture». Il suo presunto ripristino sarebbe, secondo la presidente, il «frutto» delle «buone relazioni» tra Italia e Stati Uniti, che il governo italiano vuole coltivare «con lealtà ma senza subalternità».

Al di là di quello che si pensi sulla figura di Cristoforo Colombo, non è vero che Trump ha «ripristinato» la giornata di festa che celebra l’arrivo del navigatore nelle Americhe. Questa festa, infatti, non è mai stata cancellata, a differenza di quanto lascia intendere Meloni.

Il messaggio di Trump

Il 27 aprile Trump ha annunciato su Truth Social – il social network che lui stesso ha lanciato nel 2022 come alternativa a Twitter – di voler far rinascere «dalle ceneri» il Columbus Day.

«I Democratici hanno fatto tutto il possibile per distruggere Cristoforo Colombo, la sua reputazione e tutti gli italiani che lo amano così tanto. Hanno abbattuto le sue statue e le hanno sostituite solo con il “WOKE” o, ancora peggio, con il nulla! Ebbene, sarete felici di sapere che Cristoforo sta per fare un grande ritorno. Con la presente, reintegro il Columbus Day secondo le stesse regole, date e luoghi che ha avuto per tutti i decenni passati!», si legge nel post di Trump.

Che cos’è il Columbus Day

Il Columbus Day è una delle undici feste federali degli Stati Uniti: si festeggia ogni anno dal 1934 e dal 1971 cade il secondo lunedì di ottobre (prima era il primo lunedì), per celebrare lo sbarco di Cristoforo Colombo, il 12 ottobre 1492, su una delle isole oggi appartenenti alle Bahamas, nel Mar dei Caraibi.

Le feste federali sono giornate ufficialmente riconosciute dal governo statunitense in cui gli uffici federali o servizi come gli uffici postali sono chiusi e i dipendenti pubblici hanno diritto al riposo. Tra queste giornate rientrano, per esempio, il Giorno del Ringraziamento, il Natale e il Giorno dell’Indipendenza.

Come si può verificare sul sito dell’Office of Personnel Management – l’agenzia del governo federale degli Stati Uniti che si occupa della gestione del personale civile – il Columbus Day non è mai stato cancellato dalle feste federali degli Stati Uniti durante la presidenza di Joe Biden (Partito Democratico). Negli ultimi anni, infatti, la giornata dedicata a Cristoforo Colombo è sempre presente nella lista ufficiale delle feste federali.

Durante la sua presidenza, durata dal 20 gennaio 2021 al 20 gennaio 2025, lo stesso Biden ha firmato ogni anno le proclamazioni per annunciare la celebrazione del Columbus Day. Le proclamazioni sono uno degli atti ufficiali che possono essere adottati dal presidente degli Stati Uniti e, nel caso delle feste federali, hanno un valore simbolico e cerimoniale.

Le feste federali, infatti, sono istituite per legge. Qui sono disponibili i testi delle proclamazioni del Columbus Day firmate da Biden nel 202120222023 2024. Per esempio, nell’ultima proclamazione – firmata l’11 ottobre 2024 – Biden ha celebrato il contributo degli italoamericani alla storia e all’identità degli Stati Uniti.

La proclamazione dell’Indigenous Peoples’ Day

Biden, però, è stato il primo presidente degli Stati Uniti a commemorare ufficialmente l’Indigenous Peoples’ Day (traducibile in italiano con “Giornata dei popoli indigeni”), una ricorrenza istituita per celebrare la storia, la cultura e la resilienza dei popoli indigeni.

Nel 2021, il presidente del Partito Democratico ha firmato una proclamazione per festeggiare l’11 ottobre di quell’anno, appunto, l’Indigenous Peoples’ Day, in concomitanza con il Columbus Day. «I contributi offerti dai popoli indigeni nel corso della storia – nel servizio pubblico, nell’imprenditoria, nella ricerca, nelle arti e in innumerevoli altri ambiti – sono parte integrante della nostra Nazione, della nostra cultura e della nostra società», si legge in un passaggio della proclamazione di Biden.

La scelta di Biden è stata accolta positivamente da chi pensa che Cristoforo Colombo sia una figura controversa, dato che il suo arrivo nelle Americhe ha segnato l’inizio della colonizzazione europea, portando allo sfruttamento, allo sterminio e alla perdita di terre per molte popolazioni indigene. Per questo motivo, negli anni molte persone hanno visto nel Columbus Day una celebrazione della conquista e non della scoperta.

Quando parla di «attacco ideologico nel nome della cancel culture», è probabile che Meloni faccia riferimento a gesti come l’abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo, gesti che si sono diffusi in varie città degli Stati Uniti con le proteste dopo l’uccisione di George Floyd, avvenuta a maggio 2020.

A differenza del Columbus Day, però, l’Indigenous Peoples’ Day non è una festa federale e non prevede, tra le altre cose, la chiusura degli uffici federali. Per diventare una festa federale, il Congresso degli Stati Uniti – l’equivalente del Parlamento italiano – deve approvare una legge. Nel 2021 e nel 2023 sono state presentate due proposte al Congresso per eliminare il Columbus Day e sostituirlo con l’Indigenous Peoples’ Day, senza successo.

A livello dei singoli Stati – e quindi non federale – le cose funzionano in modo diverso. Secondo un conteggio fatto a ottobre 2024 dal sito statunitense di notizie Axios, alcuni Stati continuano a celebrare il Columbus Day con questo nome, altri lo hanno sostituito o affiancato con l’Indigenous Peoples’ Day (ma si tratta di decisioni locali, che non incidono sullo status della festività a livello federale).

Attualmente, 17 Stati mantengono la dicitura Columbus Day, mentre in altri – come New Mexico, Maine, Vermont e Washington D.C. – la giornata è ufficialmente dedicata ai popoli indigeni. In Nebraska, Pennsylvania e Rhode Island le due ricorrenze convivono.
ANSA (ANSA)

«Nessuna preghiera per i bimbi in moschea per loro è stato solo un momento di gioco» (corriere.it)

di Alice D’Este

La gita in moschea e il post sui social

La foto dei bimbi e il progetto Centrodestra all’attacco La difesa e il dibattito

Caso Susegana, la nota dell’imam. E Guerfi, Ucoi: «Nel nostro centro mille studenti in visita ogni anno»

Susegana (Treviso) «Durante la visita nel nostro centro culturale la scolaresca ha esplorato diversi spazi, l’imam ha illustrato alcuni principi fondamentali dell’Islam, tra cui la preghiera rituale, mostrandone i gesti. Alcuni alunni, di fede islamica, riconoscendo quei movimenti, li hanno spontaneamente imitati. Come spesso accade tra bambini, anche il resto della classe si è unito per gioco, in un momento vissuto con leggerezza e spirito di aggregazione, privo di connotazioni religiose e spirituali».

Inizia così la nota di Avnija Nurcheski, presidente e imam del centro islamico Emanet. Nota che va dritta al punto: un gesto, apparentemente di preghiera, documentato in una foto pubblicata sui social della scuola e successivamente al centro di accese polemiche.

Il centro culturale non si sottrae e chiarisce: «Crediamo che il miglior modo di promuovere l’inclusione tra persone di culture e religioni diverse sia favorire l’incontro. La visita si inserisce in un percorso di dialogo e apertura che portiamo avanti da tanto tempo, basti ricordare l’evento interreligioso quando l’allora vescovo Monsignor Corrado Pizziolo ha visitato il centro.

Siamo sinceramente dispiaciuti che tale episodio sia stato frainteso o percepito come una forma di proselitismo». Chiarita la situazione, Nurcheski punta però a smorzare le polemiche. «Ora crediamo che sia il momento di abbassare le luci, nel rispetto dei bambini che frequentano la scuola e delle insegnanti».

Intanto, proprio le insegnanti della scuola materna di Ponte della Priula, che hanno accompagnato in uscita didattica i suoi alunni di quattro e cinque anni al Centro islamico Emanet, hanno già inviato all’Ufficio scolastico regionale una relazione di sei pagine, in cui la direttrice e il parroco, rappresentante legale della scuola, spiegano, punto per punto, come si è svolta la visita culturale dei bambini.

Un chiarimento approfondito, tant’è che l’indagine avviata dall’Ufficio scolastico regionale e richiesta dal ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara potrebbe chiudersi a breve. L’ispezione nella scuola materna di Susegana, insomma, non ci sarà. E potrebbero non essere necessari nemmeno ulteriori approfondimenti.

«La relazione ci è stata suggerita dalla presidente della Fism Treviso, Simonetta Rubinato, che l’ha proposta alla dirigente dell’Ufficio scolastico di Treviso, Barbara Sardella, per fare chiarezza a fronte delle troppe strumentalizzazioni di questi giorni» spiegano il parroco don Andrea Sech e la direttrice Stefania Bazzo.

Nel documento, che ha valore ufficiale, si chiariscono alcuni punti fondamentali che in questi giorni sono stati confusi nel dibattito. «I genitori erano stati informati della visita – dice il testo – e non c’è stata alcuna preghiera da parte dei bambini inginocchiati».

La tensione politica intanto non accenna a rallentare. Anche ieri è intervenuto sulla questione il deputato trevigiano della Lega Gianangelo Bof: «Tutto questo avviene in un comune dove, a sedere in consiglio comunale, è proprio il nipote dell’Imam – ha detto – i più maliziosi potrebbero pensare che si usi la scusa dell’educare alla diversità per indottrinare futuri elettori».

Su questo aspetto però sia la Fism (Federazione italiana scuole materne) che l’Ucoii (Unione comunità islamiche d’Italia) non ci stanno. «Le nostre scuole, forti della loro identità cristiana, non hanno paura del confronto – dice Rubinato – e come Fism vogliamo dare alle docenti una formazione sempre più adeguata per promuovere un’educazione che, sin da piccoli, favorisca la conoscenza e il rispetto reciproco, pur nella consapevolezza delle rispettive identità religiose».

«Un proverbio arabo dice: l’essere umano è nemico di quello che ignora. – dice anche Mohamed Guerfi della comunità islamica di Verona e membro del direttivo nazionale Ucoii -. Sono anni che questo tipo di incontri si fanno. Nel nostro centro ad esempio riceviamo circa mille studenti ogni anno, nell’ambito del progetto “I ragazzi alla scoperta di Verona” che coinvolge moschee, chiese, sinagoghe. Quando la politica sfrutta queste cose per far propaganda fa male alle nuove generazioni. Perché di questo si tratta. Non di persone venute qui a lavorare, ma dei loro figli, nati qui. Che, lo dico con una battuta, tra la pasta e il cous cous scelgono la pasta».

E conclude: «Se i bambini musulmani, durante una visita didattica si fossero messi in ginocchio sulle panche di legno credo che nessuno si sarebbe inquietato per questo. Almeno nessuno di chi, come noi, lavora per l’integrazione».