Le cittadinanze di Mussolini (corriere.it)

di Marco Marozzi

Il duce cittadino

Politica e storia

Benito Mussolini da un giorno non è più cittadino onorario del Comune di Riccione, dove andava in vacanza con la famiglia e da dove partiva sul moscone del bagnino Lorenzo Corazza per andare a Rimini ad amoreggiare con Claretta Petacci.

In compenso è ancora cittadino ad honorem di Bologna, dove il 21 novembre 1920 esordirono le squadracce fasciste in piazza Maggiore con la strage di Palazzo d’Accursio, appena conquistato dai socialisti. Non lo è più a Salò, della sua sanguinaria Repubblica sociale, lo è nella nativa Predappio. È complessa e attorcigliata la storia dell’antifascismo 80 anni dopo.

L’ex sindaco Virginio Merola, ora deputato e presidente dell’Istituto per la Resistenza Parri, ricorda che nel 2014 cercò di fare revocare la cittadinanza al duce, ma il consiglio comunale non ci stette. Nel 2014 la sinistra era in qualche modo il primo partito in Italia e poteva sognare di permettersi la manica larga. Giorgio Gori, allora sindaco di Bergamo e ora europarlamentare Pd, si oppose alla cancellazione onorifica di Mussolini e nel 2019 quando il Comune la approvò lui si astenne.

Ora la sinistra è all’opposizione e la memoria fa i conti con il passato. Svelando qualche dubbio che riguarda tutti: Mussolini non merita onori, ma perché non si è pensato alle sue onorificenze prima? La storia lo avrebbe preteso, ben oltre la «macelleria messicana» (Ferruccio Parri) di Piazzale Loreto, come risposta alla fucilazione di partigiani milanesi. Nella Napoli delle Quattro Giornate l’annullamento fu uno dei primi atti del Comune.

Altri in tempi più recenti, a cavallo degli anni 2000, come Firenze (1999). Poi Torino (2014), Rho (2018), Mantova (2018), Bergamo, Locorotondo e Troina (2023). A Ustica il Consiglio comunale, a guida centrodestra, pur di non depennare solo Mussolini e altri gerarchi fascisti, tra cui Roberto Farinacci, ha deciso di togliere la cittadinanza a tutti i personaggi ai quali era stata concessa e che sono passati a miglior vita.

E così bye bye a Mike Buongiorno, Lucio Messina, Walt Disney, Jacques-Yves Cousteau, Folco Quilici, Enzo Maiorca. Mussolini è uscito dall’albo di Modena, Vignola, Adria, Alfonsine, San Miniato, Pontedera, Termoli, Empoli, Ravenna. Si intitola «Bennywise» la call di Resistenze in Cirenaica per dar vita a una mappa collettiva delle città «infestate».

Sono 7.904 i Comuni italiani. Centinaia sono per dimenticanza o volontà ancora «mussoliniani». Fra cui Bologna, Trieste, Perugia, Gorizia, Oristano. Asti ha come cittadino onorario il duce e Liliana Segre, ebrea deportata. Ora è scattata la corsa alle cancellazioni, con la destra che protesta. Sarebbe importante la comunanza, la capacità di storicizzare una «guerra civile in cui i valori in campo fra fascismo e antifascismo non erano paragonabili».

La cittadinanza onoraria è un atto autonomo dei Comuni, pare non esistano elenchi. Sarebbe stato importante che il Mussolini onorato fosse stato cancellato 80 anni fa. Ma fra amnistia di Togliatti, sfasciarsi del CLN, elezioni del 1948, vittoria Dc, si pensò ad altro. Anche nel 1953 con la Legge Scelba contro la rinascita dei movimenti fascisti.

C’è una memoria rimossa per decenni e riscoperta. L’importante sarebbe però che il neo antifascismo, certo legato al governare della destra, sapesse su quale storia si muove. Riccione ha la Villa Mussolini tramutata in galleria d’arte, dopo essere stata per decenni una pizzeria. Il duce è stato un testimonial per invenzioni di vario tipo, anche se un intellettuale del luogo, Rodolfo Francesconi, ha scritto un libro sulle disgrazie dei «vicini ebrei» di Mussolini.

E nel 2022 i vertici riminesi del Pd ignoravano che Riccione fosse stato promosso Comune nel 1922, anno della Marcia su Roma. Rino Molari, unico martire antifascista della cittadina, democristiano fucilato a Fossoli, nonno del rettore di Unibo, è una stradina ignota. Non vale solo per la Riviera. La politica senza storia è misera.

Terre rare, terre pericolose (ilmondo-rivista.it)

di Marianna Mancini

I materiali strategici, più o meno critici, 
hanno innescato un gioco di potere da cui 
dipende l’intera economia mondiale. 

Che cosa sono le terre rare e perché ne sentiremo sempre più parlare

Se il 2022, complice lo scoppio della guerra in Ucraina, è stato l’anno dell’approvvigionamento energetico e della diversificazione delle fonti, oggi a scuotere l’economia e la politica mondiale sono le cosiddette terre rare, più rare e contese che mai. Perché questi materiali stanno diventando il nuovo perno della geopolitica?

Il 16 aprile sono diventate operative le restrizioni imposte dalla Cina sull’esportazione di alcuni metalli appartenenti alla famiglia delle cosiddette terre rare: nello specifico, sarà necessario richiedere e ottenere licenze speciali per il commercio di 7 metalli appartenenti al gruppo delle terre rare (nello specifico samario, gadolinio, terbio, disprosio, lutezio, scandio e ittrio).

La notizia ha dunque scombussolato i mercati ma soprattutto la geopolitica, poiché il ricatto di Pechino spinge inevitabilmente i Paesi verso la disperata ricerca di un’alternativa. Cerchiamo di fare chiarezza sulla natura di questi metalli partendo dalla distinzione essenziale tra materie prime critiche e terre rare, da non confondere.

Materie prime critiche e terre rare: la differenza

Le materie prime critiche sono elementi fondamentali per l’economia, data la natura dei loro impieghi, ma considerati “ad alto rischio di interruzione delle forniture”. Pensiamo al tungsteno, essenziale per consentire ai nostri telefoni di vibrare, o al boro con cui si costruiscono le turbine eoliche.

In Europa l’elenco delle materie prime critiche è soggetto a revisione periodica da parte della Commissione europea, in ragione dell’European Raw Materials Alliance. L’UE ha individuato un gruppo di 34 materie prime critiche, di cui 17 materie prime “strategiche”, ossia materiali “di cui si prevede una crescita esponenziale in termini di approvvigionamento, che hanno esigenze di produzione complesse e sono quindi esposte a un rischio più elevato di problemi di approvvigionamento“.

(Lo studio della Commissione Europea sul fabbisogno di materie prime critiche, destinato a crescere nei prossimi anni. La previsione di domanda riguarda cinque settori strategici dell’UE – energie rinnovabili, mobilità elettrica, industria, tecnologie dell’informazione e della comunicazione e settore aerospaziale e della difesa)

Da questi elementi si distingue una terza categoria di metalli, quella delle cosiddette “terre rare”. Si definiscono tali 17 elementi chimici della tavola periodica che, per le loro proprietà conduttive, magnetiche e catalitiche, sono cruciali nella produzione di moltissimi dispositivi: batterie, circuiti, microprocessori e impianti di energie rinnovabili, oltre alle produzioni nei settori strategici quali difesa, tecnologie aerospaziali e la mobilità elettrica, dai semiconduttori ai droni ai pannelli fotovoltaici.

Si tratta di cerio, disprosio, erbio, europio, gadolinio, itterbio, ittrio, lantanio, lutezio, neodimio, olmio, praseodimio, promezio, samario, scandio, terbio e tulio, principalmente presenti in natura sotto forma di minerali.

A rendere “rare” queste terre non è tanto la loro disponibilità, quanto più la loro bassa concentrazione nelle riserve, che richiede processi di identificazione e quindi estrazione estremamente complessi e dispendiosi. La principale sfida delle terre rare non è quindi accaparrarsi più giacimenti possibili, ma massimizzare le tecnologie di estrazione di tali metalli.

Ecco che tutte le terre rare sono da considerarsi “materie prime strategiche”, ma non tutte le materie prime strategiche appartengono alla categoria delle terre rare.

(La provenienza delle terre rare importate dall’Unione Europea nel 2024 in % rispetto al totale, dati Eurostat)

Questo contribuisce a spiegare perché sia così difficile per l’Occidente svincolare il proprio approvvigionamento di terre rare dalla produzione cinese, che non domina solo l’estrazione di questi metalli (per il 60% del totale secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia), ma gestisce anche il 90% della lavorazione mondiale di terre rare; rispetto all’Europa, la Cina è oggi il principale fornitore di materie prime critiche (44%) e il primo esportatore di terre rare (addirittura 98%).

Dal canto suo, l’Europa detiene un primato inverso, che pure cela del potenziale nascosto: il Vecchio Continente è infatti il principale produttore di rifiuti elettronici al mondo, e non si tratta solo di fare di necessità virtù.

Terre rare e riciclo: il riuso dei materiali strategici

Il paradosso delle terre rare è tutto racchiuso qui: questi metalli sono considerati essenziali per lo sviluppo di tecnologie verdi, per la transizione ecologica e per lo sviluppo di soluzioni energetiche alternative. Allo stesso tempo però questi metalli portano con sé un elevato costo in termini ambientali e sociali.

Le criticità delle terre rare infatti non riguardano solo il complesso processo di estrazione e di lavorazione: ricavare questi materiali ha un impatto estremamente negativo sull’ambiente. La prima conseguenza di questi processi estrattivi è l’inquinamento idrico di falde e risorse idriche, nelle quali vengono riversati dei rifiuti tossici e radioattivi.

Si stima che per ogni tonnellata di terre rare lavorate si producano circa duemila tonnellate di rifiuti tossici di scarto. A questa problematica si lega innanzitutto la formazione di cosiddetti “pozzi di assorbimento”, oltre ai rischi corsi dalla biodiversità negli ambienti estrattivi e al fenomeno dell’erosione del suolo.

(Terre rare – ANSA/WIKIPEDIA)

È chiaro dunque come sia importante implementare una diversificazione degli approvvigionamenti di terre rare e materiali critici, ma allo stesso tempo è necessario ripensare l’intera catena in termini di sostenibilità. Come? Imparando anche a recuperare i rifiuti di scarto trasformandoli in risorse.

L’Italia, non tutti forse lo sanno, è campione nella raccolta differenziata in Europa. Per quanto riguarda lo smaltimento circolare dei rifiuti elettronici, invece, il nostro Paese si posizione ben sotto la media europea. Secondo un position paper realizzato da The European House – Ambrosetti per Erion, se Roma incrementasse la propria percentuale di rifiuti elettronici riciclati adeguandola alla media europea (39% contro 65%) potrebbe risparmiare fino a quasi 14 milioni di euro, oltre a tagliare le emissioni di CO2 legate alla produzione di oltre un milione di tonnellate.

(Proteste di piazza in Malesia nel maggio 2011 contro la compagnia mineraria australiana Lynas e il suo progetto di costruire una raffineria di terre rare nello Stato del Pahang (con un investimento da 163,15 milioni di euro). Le comunità locali e i gruppi ambientalisti hanno evidenziato i rischi della gestione delle scorie radioattive prodotte – ANSA/EPA/SHAMSHAHRIN SHAMSUDIN)

I progetti di ricerca in tal senso non mancano. Per citarne uno, nel 2023 l’Università Bicocca ha promosso un progetto per recuperare le terre rare da dispositivi elettronici dismessi mediante l’utilizzo di un dispositivo poroso, anch’esso ricavato da scarti industriali, e molte altre sperimentazioni stanno testando catene estrattive più virtuose e soprattutto circolari. Ma non mancano iniziative virtuose in tal senso anche nel Lazio

Oltre al riciclo dei dispositivi, è importante continuare a sperimentare processi di recupero degli scarti. Va in questa direzione, ad esempio, uno studio recentemente pubblicato su Springer Nature secondo cui negli Stati Uniti sono presenti circa 11 milioni di tonnellate di terre rare, concentrate nelle ceneri di carbone del Paese.

L’estrazione di terre rare da queste ceneri sarebbe addirittura avvantaggiata dal fatto che la combustione abbia già separato i metalli dal carbone e sfrutterebbe quindi un processo di lavorazione meno impattante.

Con il Critical Raw Material Act, la Commissione Europea ha avviato 47 “progetti strategici” allo scopo di potenziare l’approvvigionamento delle materie prime dei Paesi, con un investimento di 22,5 miliardi di euro per migliorare l’estrazione, la lavorazione e il riciclo.

I progetti approvati si concentreranno su magnesio, tungsteno, litio e cobalto, ma anche palladio, nichel, manganese, grafite. Il testo di legge prevede che entro il 2023 il 25% del fabbisogno europeo annuale di materie prime critiche sia ricavato da scarti riciclati.

La speranza è che la partita geopolitica non prenda il sopravvento su quella ambientale, e che il prezzo della corsa al reshoring delle estrazioni non sia pagato interamente dai nostri terreni, dalla nostra salute.

Sui suicidi in carcere Nordio non dice la verità: l’Italia non è tra i migliori (pagellapolitica.it)

di Carlo Canepa

La dichiarazione
«L’Italia, tra l’altro, non è certo al primo posto tra i suicidi [in carcere] in Europa, anzi è verso gli ultimi» (min. 16:20)
Fonte: Zapping – Radio 1 | 15 aprile 2025

Il 15 aprile, ospite di Zapping su RAI Radio 1, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha detto (min. 16:10) che il problema dei suicidi in carcere è «estremamente complesso» e «non può essere risolto con degli slogan». Nordio ha sottolineato che il fenomeno «è comune a tutti i Paesi», aggiungendo che l’Italia, «non è certo al primo posto tra i suicidi in carcere in Europa, anzi è verso gli ultimi».

I numeri sostengono questa parte della dichiarazione del ministro della Giustizia? In breve, la risposta è no.

I suicidi in carcere in Europa

I dati più completi per confrontare il numero dei suicidi in carcere nei Paesi europei sono raccolti e pubblicati dal Consiglio d’Europa, un’organizzazione internazionale con sede in Francia che promuove i diritti umani, la democrazia e lo Stato di diritto in tutto il continente. Non è un’istituzione dell’Unione europea e non va confusa né con il Consiglio europeo né con il Consiglio dell’Unione europea.

I dati più aggiornati sui suicidi in carcere nei 46 Paesi membri del Consiglio d’Europa – inclusi i 27 Stati membri dell’Ue – sono stati pubblicati nel 2024, ma si riferiscono al 2022.

Secondo il Consiglio d’Europa, in quell’anno si sono registrati 84 suicidi negli istituti penitenziari italiani, un numero che coincide con quello rilevato dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale e da Ristretti Orizzonti, il giornale del carcere di Padova e dell’istituto penale femminile di Venezia, che dal 1992 raccoglie dati su questo fenomeno, peggiorato negli ultimi anni. Il numero italiano è il secondo più alto tra i Paesi europei, superato solo dalla Francia (138 suicidi).

Ma confrontare i valori assoluti ha poco senso, perché sono influenzati dalla dimensione della popolazione: l’Italia è infatti il terzo Paese più popoloso dell’Ue. Per questo motivo, il Consiglio d’Europa fornisce anche un altro indicatore: il tasso di suicidio ogni 10.000 detenuti, che consente un confronto più equilibrato tra i Paesi.

Nel 2022 l’Italia ha registrato 15 suicidi ogni 10.000 detenuti: il terzo tasso più alto tra i Paesi Ue (il quarto più alto considerando la Svizzera). Se si includono anche i dati del 2021 per i Paesi che non hanno ancora pubblicato quelli del 2022, l’Italia viene superata da Norvegia, Germania e Malta, ma resta comunque tra le prime posizioni, e non tra «gli ultimi», come ha affermato Nordio. Venticinque Paesi europei hanno infatti un tasso di suicidio in carcere più basso.

Anche considerando un periodo di tempo più ampio, la dichiarazione del ministro non trova conferma nei dati. Nel 2024 la rivista scientifica The Lancet Psychiatry – che fa parte del gruppo editoriale della storica rivista The Lancet – ha pubblicato uno studio sull’andamento dei suicidi in carcere in circa 80 Paesi, tra il 2000 e il 2021.

Per quanto riguarda l’Europa, una delle fonti usate dai ricercatori è proprio il Consiglio d’Europa. Secondo questo studio, l’Italia non risulta tra i Paesi europei con meno suicidi in carcere, se si considera il rapporto con il numero dei detenuti.

Va inoltre segnalato che nel 2024 – anno per il quale non sono ancora disponibili dati comparabili con il resto d’Europa – il fenomeno in Italia è peggiorato ulteriormente. Secondo Ristretti Orizzonti, i suicidi sono stati 90, il numero più alto mai registrato da quando sono disponibili i dati.

Il verdetto

Secondo Nordio, l’Italia non è al primo posto in Europa per suicidi in carcere, ma «è verso gli ultimi». I numeri più aggiornati gli danno torto.

Secondo il Consiglio d’Europa, l’Italia è al quinto posto nell’Ue per numero di suicidi in carcere in rapporto alla popolazione detenuta. Considerando anche i Paesi europei non membri dell’Ue, scende al settimo posto, ma più di venti Paesi hanno meno suicidi tra i detenuti.

Referendum, un regolamento di conti sulle spalle di chi lavora (italiaoggi.it)

di Marino Longoni

Un referendum truffa, ai danni dei lavoratori? 

Si può leggere anche così tutta la retorica sindacale sul ritorno all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e il superamento del meccanismo delle tutele crescenti.

Oggi, infatti, praticamente non ci sono differenze di tutele tra i due meccanismi: lo ha certificato a chiare lettere la Corte costituzionale, dopo essere intervenuta diverse volte per allargare in vari ambiti le garanzie previste a favore dei lavoratori. Anzi, ci sono addirittura due o tre casi che, se ritornasse in vigore l’articolo 18, vedrebbero un peggioramento e non un miglioramento, per i lavoratori coinvolti.

In particolar i dipendenti di enti senza fini di lucro come gli enti religiosi, culturali, politici, sindacali…E qui può sorgere un dubbio. Forse che i sindacati sono interessati anche a liberarsi di una parte dei loro dipendenti senza le garanzie contro i licenziamenti illegittimi attualmente previsti?

A pensar male si fa peccato, ma, di solito, si indovina (Andreotti docet).

Con il ritorno all’articolo 18 sarebbero penalizzati anche i lavoratori in malattia o infortunio, nel caso di licenziamenti avvenuti prima del periodo di comporto, cioè il periodo di garanzia durante il quale l’azienda non può licenziare. Con l’articolo 18 le garanzie sarebbero minori rispetto alle tutele crescenti attualmente previste.

Se questo è il tema sul quale maggiormente si scatenerà il dibattito pubblico, tra gli altri quesiti uno piuttosto importante riguarda il contratto a termine: oggi esiste una certa libertà di assumere fino a dodici mesi senza bisogno della causale, con il referendum si vuole reintrodurre l’obbligo di una causa giustificativa anche per le assunzioni a termine fino a 12 mesi, riducendo quindi anche quel minimo di flessibilità oggi vigente.

Tra l’altro si vuole togliere anche l’opportunità, attualmente prevista, di concordare la causale tra lavoratore e imprenditore quando queste non sono previste nel contratto collettivo di riferimento: si tratta comunque di una possibilità che nella disciplina attuale ha già una scadenza, terminerebbe infatti al 31 dicembre 2025.

Ultimo quesito, quello sulla sicurezza sul lavoro. Il referendum mira a introdurre una responsabilità solidale tra il committente e tutte le imprese appaltatrici e subappaltatrici per eventuali danni che possono essere arrecati ai lavoratori impiegati, un irrigidimento normativo non da poco. E un aggravio di responsabilità del tutto ingiustificato, anche perché il committente non ha alcuna possibilità di prevedere la probabilità di eventuali infortuni attribuibile alle imprese appaltatrici.

Sembra evidente che siamo di fronte ad una tornata referendaria dal carattere eminentemente ideologico; infatti, l’abrogazione delle norme che viene perseguita non arrecherebbe alcun vantaggio ai lavoratori anzi, come visto sopra, in alcuni casi porterebbe solo svantaggi. Si tratta comunque di questioni estremamente tecniche, poco comprensibili alla maggior parte delle persone, che voterebbe quindi soprattutto sulla base della fiducia o meno verso i proponenti, cioè i sindacati (e la sinistra).

Più che altro un regolamento di conti e un tentativo di mettersi al centro dell’agenda politica. Giocato sulle spalle dei lavoratori.

22 febbraio 1980 (repubblica.it)

È il 22 febbraio del 1980 quando tre uomini 
con i volti coperti da passamontagna si 
introducono nell’abitazione della famiglia 
Verbano, nel quartiere romano di Montesacro.
Mentre aspettano il ritorno da scuola di Valerio, diciannove anni appena compiuti, militante di sinistra, legano e imbavagliano i suoi genitori. Questi, chiusi nella camera da letto, sentono le grida del figlio e i colpi di pistola che lo uccideranno.
Non si arriverà mai all’individuazione degli esecutori dell’assassinio di Verbano e l’inchiesta verrà definitivamente archiviata, a oltre quarant’anni dal delitto, il 30 novembre del 2021.
Nelle scorse ore ho ascoltato e riascoltato il messaggio di Giorgia Meloni inviato in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Sergio Ramelli (29 aprile 1975), iscritto al Fronte della gioventù del Movimento sociale italiano, ucciso non ancora diciannovenne da un gruppo di militanti di estrema sinistra.
Ho cercato vanamente nelle parole della presidente del Consiglio un qualche riferimento, anche solo una traccia o una allusione, a Valerio Verbano o a Gaetano Amoroso, accoltellato a morte da un gruppo di neo-fascisti, sempre a Milano, esattamente un anno dopo la morte di Ramelli. O a Mario Lupo, Claudio Varalli, Alceste Campanile, Walter Rossi, Roberto Scialabba e altri ancora, tutti militanti di sinistra che hanno trovato la morte per mano fascista.
Appena un riferimento generico, troppo generico, alla necessità di «accumunare in uno sforzo di verità e pacificazione tutte le vittime innocenti dell’odio e della violenza politica».
L’intero discorso di Giorgia Meloni sembra esplicitamente indirizzato alla propria parte politica e si iscrive perfettamente nella retorica identitaria e nella letteratura epica e combattente delle generazioni neo-fasciste attive negli anni Settanta e Ottanta.
Non basta affermare – ed è giusto dirlo e ribadirlo – che l’aggressione a Sergio Ramelli fu un’azione barbara: è doveroso criticare e autocriticare quella che fu la reticenza, e fin l’omertà, di una parte della sinistra dell’epoca (e di chi scrive) a proposito di quel crimine e, più in generale, dell’omicidio come strumento di lotta politica.
Se questo non verrà fatto con altrettanta impietosa sincerità da parte della destra rimarremo prigionieri del passato e incapaci di affrancarcene. E saremo costretti a ricorrere ancora a quell’artificio retorico cui inducono l’emozione e la passione, ma di cui si avverte l’irreparabile povertà: e allora Valerio Verbano?
Se la “guerra civile simulata” degli anni Settanta dovesse perpetuarsi attraverso le contabilità contrapposte dei rispettivi martirologi, elaborare insieme quei lutti resterà una impossibile impresa politica e morale.
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