Putin vuole continuare a combattere in Ucraina per non rivelare i suoi crimini di guerra (linkiesta.it)

di

Anime morte

Nel corpo torturato di Victoria Roshchyna si concentra tutto ciò che il regime russo vuole occultare: resti umani, celle clandestine e testimonianze schiaccianti di torture

Vladimir Putin non vuole finire la guerra in Ucraina. Non solo perché non saprebbe come presentare la sconfitta al suo elettorato, nutrito per decenni da falsa gloria e potenza della Russia, non solo perché la guerra continua a permettergli di rimanere dov’è, tenere in pugno la situazione nel Paese e continuare a minacciare tutto il continente europeo, ma anche perché, una volta finita la guerra, verranno fuori tutti i segreti protetti oggi dall’occupazione forzata dei territori ucraini, come quando i soldati russi avevano ripiegato dal nord della capitale Kyjiv, lasciando dietro i massacri di Bucha, Irpin e Motyzhyn.

E anche per questo, la Russia sta facendo di tutto per mantenere il controllo dei territori occupati, scrivendo varie bozze di proposte di pace per Donald Trump.

Negli ultimi tre anni, da quando la Russia ha lanciato l’invasione su larga scala, sembra che non si sia preoccupata più di tanto dell’opinione pubblica del mondo civile riguardo ai crimini contro l’umanità da lei compiuti, convinta che la sua macchina propagandistica, i troll al suo servizio, gli utili idioti e i giornalisti prepagati sapessero scaricare le colpe sugli ucraini e sugli europei che li aiutano, presentando la loro versione della storia anche con l’aiuto dell’America, che nelle ultime settimane è uscita dal gruppo investigativo dei crimini di guerra russi.

Eppure, con centinaia di documentari falsi, con programmi che addestrano l’intelligenza artificiale, i russi in qualche modo pensano e temono l’opinione pubblica del mondo civile e il giudizio internazionale, altrimenti non avrebbero restituito il corpo di Victoria Roshchyna con i chiari segni dell’intento di nascondere le torture a lei inflitte ancora in vita.

Victoria Roshchyna, una giornalista ucraina di ventisette anni, scomparsa nei territori occupati a fine estate del 2023. La settimana scorsa, un’indagine di quarantacinque giornalisti provenienti da vari paesi del mondo ha presentato un’inchiesta che ripercorre gli spostamenti di Victoria nelle varie prigionie russe e le torture subite dalla giovane donna ancora viva. Seguire le sue tracce è stato possibile grazie alle testimonianze dei prigionieri ucraini che nei vari luoghi di detenzione si sono incrociati con Victoria Roshchyna.

I detenuti raccontano le condizioni disumane in cui sono stati trattenuti, le torture che hanno dovuto subire, il dolore, la sofferenza e la crudeltà disumana dei loro torturatori. Una delle torture, quella con i cavi elettrici legati alle orecchie, si chiamava “La chiamata a Putin”, una spaventosa connessione che lega il capo dello Stato a un soldato singolo, che nelle sue azioni criminali vede l’approvazione del suo capo supremo.

Un prigioniero ucraino detenuto a Melitopol ha raccontato di essere stato costretto a scrivere una lettera a Putin dopo aver subito le torture, accompagnate dal suono dell’inno russo e delle canzoni patriottiche russe.

La tortura russa non è un caso isolato, singolo o casuale. La tortura è un’arma di guerra, è una dottrina militare approvata ai massimi livelli. Nel suo saggio “Contro le donne. Lo stupro come arma di guerra”, la scrittrice finlandese Sofi Oksanen scrive: «Se si osserva la storia dal punto di vista estone, con la guerra in Ucraina sembra di rivivere gli eventi degli anni Quaranta del secolo scorso; è come se premessimo continuamente il tasto replay, visto che la Russia sta usando lo stesso manuale delle sue precedenti guerre di conquista. Abbiamo già visto e sperimentato queste pratiche: il terrore sui civili, le deportazioni, le torture, la russificazione, la propaganda, i processi farsa, le elezioni di mera facciata, le accuse contro le vittime, le ondate di profughi, la distruzione della cultura. Tuttavia, il generalizzato stupore occidentale mostra come il manuale dell’imperialismo russo non sia sufficientemente conosciuto altrove».

Per non andare troppo lontano nel tempo, nelle guerre che Mosca ha lanciato contro l’Estonia, la Finlandia e una parte della Polonia cui appartenevano gli odierni territori dell’Ucraina occidentale nel 1939 (una delle tante guerre di colonizzazione — consiglio di leggere a riguardo il libro di Maksym Eristavi “Russian Colonialism”), basterebbe pensare alla guerra che la Russia ha iniziato nel 2014 nelle regioni orientali ucraine di Donetsk e Luhansk, e alle camere di tortura organizzate nei capoluoghi occupati.

Uno di questi luoghi di tortura si trovava nell’ex fabbrica di materiali isolanti “Izolyatsiya”, diventata un hub artistico negli anni Duemila. Ci era finito anche un altro giornalista ucraino, Stanislav Aseyev, che, come Victoria Roshchyna, cercava di raccontare ciò che stava accadendo nei territori occupati dall’esercito russo.

Aseyev ci è rimasto ventotto mesi ed è uscito vivo grazie a uno scambio di prigionieri. La sua detenzione e le torture subite le ha descritte nel libro “The Torture Camp on Paradise Street”. Victoria Roshchyna, invece, non potrà raccontare più nulla: l’unica testimonianza delle torture da lei subite è il suo corpo, che rimane come prova dei crimini contro l’umanità russi, crimini che hanno cercato di occultare asportandole il cervello, gli occhi e una parte della laringe.

La guerra della Russia all’Ucraina è la guerra più documentata nella storia dell’umanità, si svolge quasi in diretta. Le vittime delle torture subite dai russi (chi è sopravvissuto) vengono ascoltate, le loro ferite vengono registrate e catalogate. Ne parla anche il libro non concluso di Victoria Amelina, “Guardando le donne guardare la guerra”, che contiene i report sulle torture inflitte ai civili raccolti durante le missioni sul campo effettuate insieme al gruppo investigativo di Truth Hounds.

Victoria Amelina ha visitato luoghi diversi da quelli dove è stata trattenuta Victoria Roshchyna, ma il metodo, la crudeltà e le «chiamate a Putin» rimangono gli stessi. Compiuti da soldati e truppe diversi, ma indottrinati allo stesso modo di condurre la guerra, in una società russa in cui la violenza e l’umiliazione dell’altro restano sinonimo di potenza.

Putin non vuole finire la guerra in Ucraina perché una volta finita non potrà più nascondere la verità agli occhi del giudizio internazionale. Una volta fermata la Russia, l’Ucraina non si fermerà nella sua corsa verso la giustizia per le vittime dei crimini russi. Il 30 aprile Oleksandra Matviichuk, avvocata per i diritti umani, direttrice del Centre for Civil Liberties – che si occupa della documentazione dei crimini di guerra russi e Premio Nobel per la Pace 2022 – ha partecipato a un evento online a Stoccolma.

Oleksandra ha raccontato di Victoria Roshchyna, del suo impegno e della sua tragica morte nella prigionia russa, senza riuscire a trattenere le lacrime. Ne ha scritto in un post su Facebook, concludendolo con queste parole: «Victoria credeva nella verità e nella giustizia così fortemente da correre il rischio per poter raccontare al mondo ciò che stava accadendo nei territori occupati. E noi continueremo il suo lavoro». È proprio di quel «noi che continueremo il suo lavoro», nel raccontare i crimini russi, che hanno paura Putin, i suoi soldati e i suoi cittadini.

(LaPresse)

Segnali e illusioni (corriere.it)

di Paolo Mieli

Il miracolo non c’è stato. 

Ovviamente nessuno ha mai pensato, neanche per un attimo, che l’incontro di pochi minuti in San Pietro tra Donald Trump e Volodymyr Zelensky avrebbe portato, d’incanto, un’ancorché piccolissima forma di pace in Ucraina.

Neanche dopo che il presidente degli Stati Uniti, sul volo di ritorno a casa, aveva mandato un pubblico altolà a Vladimir Putin avanzando il sospetto che con le piogge di bombe su Kiev lo stesse «prendendo in giro». Solo Emmanuel Macron si è sbilanciato, come fa spesso, in previsioni ottimistiche ma neanche troppo. Putin ha risposto con gentilezza a Trump e nella notte ha attivato droni sulle regioni di Zhytomyr, Dnipropetrovsk, Odessa, Donetsk, Sumy e Cherkasy.

Poi ieri mattina gruppi di assalto russi hanno intensificato i tentativi per entrare a Sumy. È stata questa la risposta di Mosca ai summit romani nel giorno dei funerali di papa Francesco. Del resto, il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier aveva messo in guardia chiunque dall’attendersi eventi eccezionali come frutto di brevi incontri riconducibili a «diplomazia funebre».

Eppure, sabato mattina in piazza San Pietro si era percepito l’aleggiare di un barlume (niente più che un barlume) di ritrovato spirito dell’Occidente.

D el resto, se Trump aveva deciso di compiere quel defatigante viaggio per restare poche ore a Roma, lo ha fatto, certo, per rendere omaggio alla salma di un pontefice con il quale oltretutto non era in rapporti particolarmente cordiali. Ma anche per mostrare un volto amichevole nei confronti dell’Europa.

E questo è stato il senso di ogni parola che ha pronunciato stringendo la mano a ogni leader del continente. Di modo che restasse una prova per immagini della sua intenzione di non infrangere del tutto gli «storici legami» con la Ue. Pur accusata in precedenti occasioni di esser nata al solo scopo di vivere «a scrocco» degli Stati Uniti.

Adesso che stanno per scoccare i cento giorni dal suo insediamento alla Casa Bianca si vedrà se quelle immagini riprese in Vaticano sono il segnale di qualcosa di reale o fumo negli occhi. E l’Ucraina sarà, com’è da oltre tre anni, il test decisivo per comprendere a che punto sono le relazioni atlantiche. Per l’Ucraina stessa, come è ovvio. E per l’Europa, quantomeno per quella parte di essa che si è convintamente impegnata ad aiutarla ancora a resistere.

In attesa quantomeno di una tregua. Ma una tregua dai contorni ben definiti. Fin qui si è capito cosa vorrebbe Putin (in ciò sostenuto da Trump): la Crimea con riconoscimento internazionale si presume anche da parte delle Nazioni Unite, le regioni occupate e sono in discussione le parti non ancora militarmente conquistate, la cancellazione delle sanzioni europee, in particolare quella che esclude la Russia dal circuito bancario Swift e una nuova intesa sul grano ucraino.

Ma non si è ben compreso cosa l’autocrate russo sarebbe disposto a concedere a Zelensky così che il suo Paese non abbia a vivere nel timore di subire ulteriori sorpresine. Nessun ingresso nella Nato, e questo si sa, ma resta assai vago in che cosa consisterebbe l’autorizzazione all’impiego di «volenterosi» — principalmente francesi e inglesi — a difesa di Kiev.

Siamo prossimi all’intesa, manca solo qualche dettaglio, assicura Steve Witkoff. Quel Witkoff che da tre mesi, per conto degli Stati Uniti, vive pressoché in pianta stabile a Mosca dove adesso cura anche eventuali, possibili «affari». Ma «affari» di chi? E di che tipo?

Intanto l’ex ministro russo della Difesa Sergey Shoigu (che nel suo Paese ricopre ancora ruoli di primo piano) accusa pubblicamente l’Europa di avere in progetto un attacco alla Russia, un piano che potrebbe essere operativo già nel 2030. E siamo ben consapevoli di cosa intende dire la Russia quando sostiene di sentirsi in pericolo.

Forse le strette di mano in occasione delle esequie di papa Francesco hanno cambiato qualcosa. Ma le apparenze ci parlano di una morsa che si stringe sempre di più attorno a Zelensky. E di velate minacce a un’Europa che potrebbe da un momento all’altro essere abbandonata da Trump al proprio destino. O peggio. Se quelle strette di mano non avranno un seguito concreto nel mese di maggio, capiremo meglio perché sabato Trump aveva tanta fretta di riprendere l’aereo per tornarsene a casa.

E ricorderemo quel sabato di fine aprile in cui sembrò possibile una resurrezione dell’Occidente cristiano — nelle forme dell’alleanza tra Stati Uniti, Europa e altri partner nel mondo liberale — come il giorno della grande illusione.

I postini acchiappaimmigrati al servizio di Trump (ilfoglio.it)

di Jacob Bogage e Hannah Natanson

Anche la forza di polizia delle Poste americane 
è stata mobilitata dal presidente per stanare 
casa per casa “gli alieni illegali”. 

Un’escalation significativa nella repressione dell’immigrazione portata avanti dalla nuova Amministrazione americana

Il Washington Post sta pubblicando inchieste quasi quotidiane sulla politica di efficienza dell’Amministrazione Trump e del Doge: ieri ha raccontato che entro breve i dipendenti pubblici saranno “obbligati” a dichiarare quotidianamente la loro posizione durante l’orario di lavoro. Il quotidiano di proprietà di Jeff Bezos, in mezzo a continue polemiche vista la volontà dell’editore di rivoluzionare le pagine editoriali in un senso meno antitrumpiano, in realtà fa scoop continui in particolare sull’immigrazione e su quella che ormai possiamo definire “strategia casa per casa” con cui l’Amministrazione Trump sta cercando gli immigrati illegali per rimpatriarli.

Il Servizio ispezioni delle Poste americane ha iniziato silenziosamente a collaborare con le autorità federali dell’immigrazione per individuare persone sospettate di essere nel paese illegalmente, secondo quanto riferito da due persone informate dei fatti e da documenti ottenuti dal Washington Post – ampliando così in modo significativo la portata della campagna di deportazione dell’Amministrazione Trump.

Il Postal Inspection Service è una forza di polizia poco conosciuta anche agli stessi americani incaricata delle indagini per conto del servizio postale; si è recentemente unito a una task force del dipartimento della Sicurezza interna con l’obiettivo di trovare, arrestare e deportare immigrati senza documenti, secondo le nostre fonti che hanno parlato a condizione di anonimato per timore di ritorsioni professionali.

I funzionari dell’immigrazione stanno cercando di ottenere le fotografie della parte esterna di buste e pacchi – un programma del Postal Inspection Service noto come mail covers – e l’accesso ai suoi vasti sistemi di sorveglianza, tra cui i dati degli account online del servizio postale, informazioni sul tracciamento di pacchi e lettere, dati di carte di credito, materiali finanziari e indirizzi Ip.

Questa collaborazione con le Poste rappresenta un’escalation significativa nella repressione dell’immigrazione portata avanti dall’Amministrazione Trump. In precedenza, i funzionari del dipartimento della Sicurezza interna avevano collaborato con le autorità che si occupano di questioni fiscali, abitative e sanitarie.

Ma il coinvolgimento del Postal Inspection Service, l’agenzia di polizia più antica del paese, indica che gli sforzi per perseguire gli immigrati senza documenti si sono estesi a una delle attività governative più banali: la consegna della posta. Il Postal Inspection Service ha il compito principale di garantire la sicurezza del sistema postale, indagare su minacce e attacchi contro i lavoratori e le strutture postali e impedire l’ingresso nella posta di oggetti illegali – come droghe e pornografia infantile.

L’agenzia conta circa 1.700 agenti, secondo l’ultimo rapporto annuale, inclusi 1.250 ispettori che conducono indagini e 450 agenti di polizia che forniscono sicurezza fisica. Nel 2020, il servizio postale ha ridotto il ruolo degli agenti, limitando la loro giurisdizione alle sole proprietà postali e impedendo loro di pattugliare o accompagnare i portalettere nei loro giri.

I dirigenti del Postal Inspection Service, preoccupati dai segnali provenienti dall’Amministrazione riguardo a un possibile tentativo di controllo più ampio sul servizio postale, hanno accettato di partecipare al programma, secondo quanto riferito dalle fonti e dai documenti. “Vogliamo comportarci bene in questo nuovo parco giochi”, si legge in un’email interna dell’agenzia ottenuta dal Washington Post, che riassume un recente incontro con i funzionari che si occupano di immigrazione.

Gli ispettori postali hanno partecipato a un recente blitz antidroga e anti immigrazione a Colorado Springs, domenica, come mostra un video dell’evento pubblicato sui social media. Hanno preso parte anche agenti di altre agenzie federali, tra cui l’Fbi e l’Agenzia delle entrate (Irs). Secondo le autorità locali, l’operazione ha portato all’arresto di oltre cento immigrati senza documenti.

In una dichiarazione, un alto funzionario del dipartimento della Sicurezza interna ha affermato che la collaborazione con il Postal Inspection Service è “una parte fondamentale per garantire che le forze dell’ordine abbiano le risorse necessarie per mantenere la promessa del presidente Trump al popolo americano: rimuovere i criminali violenti dalle nostre strade, smantellare le reti di traffico di droga e di esseri umani e rendere di nuovo sicura l’America”. I rappresentanti del servizio postale non hanno rilasciato commenti.

Non è insolito che il Postal Inspection Service prenda parte a retate o operazioni che coinvolgono più agenzie federali. Per esempio, nel 2020, gli ispettori postali arrestarono l’ex consigliere di Trump, Steve Bannon, su uno yacht al largo del Connecticut, dopo che era stato incriminato per frode. Trump lo ha poi graziato, in uno degli ultimi atti ufficiali del suo primo mandato.

Ma il coinvolgimento di questa forza di polizia nell’applicazione delle leggi sull’immigrazione è una novità. Questo cambiamento fa seguito a un ordine esecutivo di Trump che ha imposto il coinvolgimento di tutte le agenzie federali nell’individuazione e deportazione degli immigrati, secondo i documenti ottenuti dal Washington Post.

“Il Postal Inspection Service è molto, molto nervoso per questa nuova situazione”, ha detto una delle fonti. “Sembra che stiano cercando di compiacere Trump facendosi coinvolgere in iniziative che pensano gli possano piacere. Ma è un abuso di potere. Stiamo parlando del servizio postale. Perché dovrebbe essere coinvolto nelle deportazioni?”

Il coinvolgimento delle Poste è l’ultima iniziativa dell’Amministrazione Trump all’interno del più ampio piano di riutilizzare le agenzie federali e i loro dati al fine di rafforzare l’applicazione delle leggi sull’immigrazione. Nell’ultimo mese, l’Ufficio per l’efficienza dello stato (il Doge di Elon Musk) ha ottenuto l’autorizzazione per accedere a dati sensibili sui casi d’immigrazione del dipartimento della Giustizia; ha cercato dati tra le richieste per il Medicare in modo da aiutare l’Ice, l’Agenzia che si occupa dell’immigrazione, a trovare gli indirizzi degli immigrati privi di documenti; e ha avviato iniziative presso il dipartimento per l’Edilizia e lo Sviluppo urbano per individuare e sfrattare gli immigrati dalle case popolari.

Sempre questo mese, l’Amministrazione ha classificato come defunti seimila immigrati in vita all’interno del database dell’amministrazione della previdenza, sperando che questi decidessero di “autodeportarsi”, come riportato dal Washington Post. Trump ha inoltre espresso un forte interesse a riformare il servizio postale e a portarlo sotto il diretto controllo della Casa Bianca, andando oltre la sola questione dell’immigrazione.

Prima di entrare in carica, aveva suggerito di privatizzare l’agenzia e in seguito ha dichiarato di volerla fondere con il dipartimento del Commercio – cosa che richiederebbe l’approvazione del Congresso.

Secondo quanto riportato dal Post, a marzo alti funzionari dell’Amministrazione hanno cercato di destituire il direttore generale delle Poste, Louis DeJoy, e Trump ha anche preso in considerazione lo scioglimento del consiglio direttivo dell’agenzia.

Copyright Washington Post

A Roma si vocifera di un complotto ordito da Emmanuel Macron per influenzare la scelta del futuro papa (lemonde.fr)

di

Morte di Papa Francesco

Parte della stampa italiana sospetta che il presidente francese stia manovrando a fianco del movimento cattolico Sant’Egidio, vicino al papa scomparso, per spingere i loro candidati al soglio di San Pietro.

Secondo la stampa di destra italiana, in questi giorni segnati dai preparativi per il conclave che si terrà dal 7 maggio, i labirintici intrighi francesi stanno parassitando il processo di designazione del futuro papa.

Dalla morte di Francesco, avvenuta il 21 aprile, i giornali vicini al governo di Giorgia Meloni speculano sui disegni di Emmanuel Macron, accusato di mettere in atto una strategia volta a spingere i suoi candidati al soglio di San Pietro.

“Macron vuole addirittura scegliere il papa”, titolava la prima pagina de La Verità martedì 29 aprile, quando un altro giornale della stessa convinzione politica, Libero, titolava “Macron si intromette persino nel conclave”. Il Tempo, quotidiano conservatore romano, ha criticato “l’interventismo degno di un moderno Re Sole” del presidente francese.

Sullo sfondo di questi titoli accattivanti ci sono la profonda diffidenza della destra italiana nei confronti delle intenzioni della Francia, i rapporti privilegiati di Macron con il movimento cattolico Sant’Egidio, che era vicino al papa scomparso, e l’intreccio di questa influente comunità nel braccio di ferro che affligge la Chiesa … leggi tutto

Il cardinale vaticano segretario di Stato Pietro Parolin saluta Emmanuel Macron prima dei funerali di Papa Francesco in Vaticano il 26 aprile 2025. (Il cardinale vaticano segretario di Stato Pietro Parolin saluta Emmanuel Macron prima dei funerali di Papa Francesco in Vaticano il 26 aprile 2025. 

Scarti umani – Landini minaccia sui salari bassi, ma dimentica il “ritocchino al suo stipendio

Ipocrisia allo stato puro

E poi c’è un Landini che ha firmato contratti a 5 euro per i vigilantes

Un Maurizio Landini da combattimento che chiama ancora una volta alla “mobilitazione” contro il governo Meloni. Non è una novità, si potrebbe pensare. Ma stavolta stride il contrasto tra realtà e finzione.

Landini mette l’elmetto e minaccia

Per 10 anni la Cgil è stata buona buona  con i governi tecnici e di centrosinistra: da Monti a Draghi non ricordiamo un Landini con l’elmetto. Ora c’è Meloni e tutto cambia. C’un problema di credibilità grande quanto una casa per mister Cgil. Con l’incontro dell’8 maggio con il governo alle porte, Landini alza il tiro per non farsi scavalcare a sinitra dalla segretaria del Pd, Elly Schlein.

“Se il confronto con il governo sarà finto, senza risposte, e se non verrà aperta una vera trattativa, si aprirà una fase di mobilitazione e di sostegno della piattaforma unitaria che abbiamo presentato a questo governo due anni fa e anche ai precedenti, ma non è mai stata presa in considerazione”, ha tuonato. Pronto a tutto, insomma.

Landini firmò contratti a 5 euro pri vigilantes…

C’un problema di credibilità grande quanto una casa per mister Cgil. Parla di salario minimo a 9 euro, ma dimentica quando il suo sindacato firmò contratti a 5 euro l’ora per i vigilantes? Il Landini che urla alla mobilitazione sociale contro le politiche del governo è lo stesso che ha firmato contratti-elemosina? Per gli addetti della vigilanza privata si è addivenuti, dopo sette anni di attesa di rinnovo contrattuale, all’ipotesi di un aumento di 140 euro in tre anni.

Landini esultò, ma appare evidente che si trattava di una cifra per la quale c’era e c’è poco da esultare. Tra contraddizioni varie, c’è anche il ridicolo. Il segretario della Cgil ironizza su una frase della presidente del Consiglio sull’aumento dei salari reali. Lui fa una battuta- boomerang: “Non so se la premier si riferisca al suo salario, non so di quale salario stia parlando: non so dove vivono loro, non so in quale palazzo si sono chiusi”.

“Mentre protesta per i salari bassi, Landini percepisce una busta paga di 7.616 euro lordi al mese, dopo l’ultimo aumento di 257 euro mensili”. “

Con una simile coerenza è pronto per fare il leader della Sinistra Italiana”.

Servi Rossobruni – Il libro di Putin presentato a Reggio Emilia. L’esperta di Russia Morini: «La narrazione del Cremlino fa presa» (gazzettadireggio.it)

di Jacopo Della Porta

All’Hotel Posta l’incontro con l’editore 
Francesco Toscano, co-fondatore di Democrazia 
Sovrana Popolare, e l’ex ambasciatore Bruno 
Scapini (15 gennaio 2025)

Un evento per approfondire le “vere cause della guerra russo-ucraina” si terrà sabato alle 17 nella Sala del Capitano dell’Hotel Posta. Il libro al centro dell’incontro contiene un saggio di Vladimir Putin sull’“unità storica di russi e ucraini”, oltre a interventi di altri autori. Partecipano l’editore Francesco Toscano, co-fondatore di Democrazia Sovrana Popolare, e l’ex ambasciatore Bruno Scapini, noto per le sue posizioni critiche verso la Nato. Ne abbiamo parlato con Mara Morini, politologa dell’Università di Genova ed esperta di Russia.

Professoressa, a Reggio Emilia, come in altre città italiane, si presenta un libro di Putin. Che impressione le fa?

«Non mi sorprende perché in guerra il ruolo della propaganda delle parti in gioco è importante. Non ho letto il libro, ma la questione è: come sarà condotto l’incontro? Confronto o dibattito a senso unico?».

Nella locandina si sottolinea che si tratta di un libro di Putin. In altre città questa presentazione è stata anticipata da polemiche roventi e reazioni da parte della comunità ucraina.

«Non è un libro scritto da Putin. Raccoglie il suo pensiero, senza contestualizzarlo analiticamente. È comprensibile la reazione ucraina».

In Italia, e anche a Reggio Emilia, la narrazione russa fa presa su una parte dell’opinione pubblica, come dimostrano i cartelloni pro-Russia apparsi questa estate. Cosa ne pensa?

«L’Italia è permeabile alla narrazione russa per ragioni storiche, economiche e culturali. È una media potenza che ha sempre cercato il dialogo tra Est e Ovest, come ricorda il ruolo di Silvio Berlusconi a Pratica di Mare del 2002. Ci sono anche gli interessi imprenditoriali e il ruolo dei partiti di estrema destra che coltivano rapporti con il Cremlino o della sinistra radicale. Non a caso si parla di movimenti rossobruni…».

Quanto sono spontanee le manifestazioni di simpatia per il Cremlino?

«Ci vorrebbe un’approfondita analisi sociologica, ma, in generale, sono manifestazioni che risentono dell’eredità di vecchi approcci ideologici che alimentano convinzioni personali preesistenti. Rappresentano, anche, un’opportunità politica di condivisione di alcuni valori del conservatorismo russo come la patria, la famiglia tradizionale, la religione».

Giusto diffondere il verbo di un presidente ricercato dal Tribunale penale internazionale?

«Dipende dal fine e dalla modalità. Se è per conoscere e difendersi dal “nemico”, analizzandolo scientificamente in un contesto appropriato, è un conto. Se è mera propaganda, senza confronto, è pericoloso. La democrazia garantisce la libertà d’espressione, ma nel rispetto del pluralismo delle opinioni e delle idee. Inoltre, ci tengo anche a dire una cosa a proposito delle letture sulle “vere” ragioni della guerra».

Prego…

«Dobbiamo distinguere tra opinionisti dell’ultima ora e i veri esperti. Purtroppo, nel dibattito italiano intervengono anche persone che non conoscono i paesi e gli eventi di cui parlano. Un conto è fare una seria analisi del rapporto Occidente – Oriente per capire, ad esempio, l’opportunità dell’allargamento della Nato, senza essere etichettati come filo-putinisti. Un’altra questione è fare il tifo ed essere imbonitori di propaganda».