Stipendi bassi e iniqui: la soluzione non è il salario minimo (ilriformista.it)

di Michele Carniani

Lo spunto

“Tante famiglie non reggono l’aumento del costo della vita. I salari inadeguati sono un grande problema per l’Italia. Incidono anche sul preoccupante calo demografico, perché i giovani incontrano difficoltà a progettare con solidità il proprio futuro”.

La diagnosi del Paese è impressa nelle parole pronunciate dal Presidente Mattarella, alla vigilia del 1° maggio, durante la sua visita in un’azienda farmaceutica di Latina.

Come evidenziato dal rapporto 2024-25 dell’OIL ripreso dal Presidente, tra gli Stati del G20, l’Italia ha subito la perdita più marcata di potere d’acquisto dal 2008 a oggi (-8,7%). Negli ultimi due anni, la nostra produttività è cresciuta più di quanto non abbiano fatto le retribuzioni.

Ma per garantire che a un aumento del primo dato corrisponda un incremento del secondo, è necessario un cambiamento da parte delle istituzioni del mercato, adottando un approccio per la determinazione delle retribuzioni che tenga conto dei costi a carico delle famiglie italiane nelle realtà in cui queste vivono. Stabilire un salario minimo per tutti, alla luce dell’estrema eterogeneità del nostro Paese, si delinea come una soluzione iniqua.

La soluzione non è il salario minimo

Lo dimostra l’esempio di Bologna, dove la soglia di povertà assoluta è stata stimata a 9,15 euro l’ora da una ricercatrice in diritto del lavoro dell’Università di Milano. Un’entrata oraria minima di 9 euro, dunque, porterebbe senza dubbio dei benefici, ma l’asticella, complice il caro vita degli ultimi anni, si è alzata ulteriormente e non è la stessa per tutti.

A Firenze, dopo la delibera del Comune, anche la Giunta regionale ha predisposto una proposta di legge per inserire, negli appalti pubblici, un punto premiale per le imprese che garantiranno la retribuzione oraria minima di 9 euro ai propri dipendenti. Lo scorso luglio il Comune di Napoli aveva fatto altrettanto, approvando una delibera che fissava lo stesso trattamento per i lavoratori impegnati in appalti e subappalti stipulati dagli enti comunali. Iniziative importanti nel pubblico, ma sono sufficienti?

Gli impiegati nel privato come vengono tutelati? In un panorama di realtà così diverse tra loro, la soluzione può essere rappresentata da un accordo contrattuale che tenga conto dei costi differenti sostenuti dalle singole comunità. La contrattazione collettiva nazionale agisce come una livella e stabilisce le condizioni fondamentali per tutti i lavoratori nei diversi settori, ma non tiene conto delle differenze territoriali reali.

La contrattazione territoriale

La via d’uscita dall’uguaglianza assoluta che genera disuguaglianze può essere quella della contrattazione di secondo livello. Questa, aziendale o territoriale a seconda del contesto produttivo a cui viene applicata, integra il livello nazionale e adatta le sue regole alle realtà locali, in modo flessibile.

La contrattazione territoriale, nello specifico, consente alle piccole imprese e ai lavoratori autonomi (come gli artigiani), di adeguare i loro contratti al tenore della vita relativo alla propria area geografica.

Una soluzione efficiente per ristabilire un’equità salariale che, né il contratto nazionale, né tantomeno l’approvazione di un salario minimo uguale per tutti, possono riuscire a ripristinare.

L’ex consigliere Markov: «La pace? È lontana Lo zar concederà qualcosa ma vuole attaccare ancora» (corriere.it)

dal nostro inviato a Mosca Marco Imarisio

L’intervista

«Offensiva in estate per mettere alle corde Zelensky»

«La mia valutazione è che oggi esiste un venticinque, massimo trenta per cento di probabilità che si giunga a un accordo serio e non di facciata. Troppa distanza ancora tra le due parti». Sergey Markov è di buon umore. L’ex consigliere di Vladimir Putin per la politica estera, al Cremlino dal 2011 al 2019, è reduce da un incontro voluto nei mesi scorsi dal presidente russo con i principali politologi del suo Paese.

«Alle 8 di ogni mattina, il presidente riceve un grande foglio stampato come un giornale che raccoglie i resoconti di vari articoli sui temi principali pubblicati su ogni media. È un sistema che ho inventato io: ho saputo che il mio canale Telegram viene citato spesso». Oggi è semplicemente il professor Markov, docente e figura fissa dei talk show nazionali e internazionali, dove recita il ruolo di falco.

Ma una volta dismessi gli abiti di scena, e indossato per altro un completo firmato che a comprarlo ci vorrebbe un mutuo, davanti alla consueta burrata italiana in un ristorante dell’enclave per ricchi di Arkhangelskoye, il personaggio è molto più sottile di quanto lasciano intendere le sue frasi incendiarie pronunciate a favor di telecamera o talvolta scritte sul suo canale Telegram. «Entro l’autunno, la possibilità di una fine definitiva del conflitto, o di un suo lungo congelamento, sale almeno fino al settanta per cento».

Cosa manca ancora?

«La Russia non ha ancora dimostrato la sua vera forza e la reale debolezza dell’avversario. L’Occidente, e parlo soprattutto dell’Europa. Keir Starmer ed Emmanuel Macron sanno bene che siamo in vantaggio su tutta la linea del fronte, ma ritengono che non sia un vantaggio poi così grande. Quindi, non sono pronti a fare concessioni».

Perché dovrebbero cambiare idea tra qualche mese?

«In estate potrebbe esserci una nuova offensiva russa, concepita apposta per dimostrare al mondo lo stato in cui versa l’esercito ucraino. È quando da una parte tutto rischia di crollare che si stipulano gli accordi di pace».

Una soluzione militare, quindi un altro massacro, per la pace?

«Non mi faccia passare per un fanatico della guerra, non lo sono. Sto ragionando. La storia dice che è sempre stato così. Durante la Prima guerra mondiale, quando la Germania capitolò, non c’era un solo soldato straniero sul suo territorio. Ma era ormai chiaro che la sua macchina militare stava crollando».

L’ipotesi che anche Putin possa scendere a più miti consigli è proprio da escludere?

«Anche lui si appresta a fare delle concessioni. Una qualche forma di compromesso deve sempre essere attuata. Stiamo parlando di negoziati odierni e futuri, non di una eventuale resa».

Quali sarebbero le concessioni russe?

«In primo luogo, il territorio, che è sempre il nodo più difficile da sciogliere. Fin dove siamo arrivati nelle quattro province annesse alla Russia, non ce ne andiamo. Ma non avanziamo oltre. In più, potremmo ritirare le nostre truppe presenti nelle aree che ancora sono Ucraina: Sumy, Nikolaev, tra un paio di settimane Dnipropetrovsk, ovvero la riva destra del fiume Dnipro. Uscire da queste regioni, in cambio della creazione di una zona demilitarizzata».

Tutto qui?

«La Russia non rinuncerà mai ufficialmente all’obiettivo della cosiddetta denazificazione. Ma ci sarà un congelamento di questa richiesta. Centinaia di Ong ucraine da vietare, migliaia di militari e di altri reduci dal fronte da gestire, decine di vie da ribattezzare: troppo difficile. Che se la vedano loro, quando sarà finita la guerra».

Zelensky?

«Certamente a Putin non piace. Ma il nostro presidente non è un adolescente, non è uno che ama o odia. Non è certo una persona emotiva. A lui, addirittura conviene che Zelensky rimanga dov’è. Tutti gli altri possibili sostituti avrebbero senz’altro migliori rapporti con Donald Trump. La Russia non chiederà certo la sua rimozione. Ben venga una campagna elettorale, piuttosto. Così si sentirà la voce della gente, e tutti i candidati faranno una gara di retorica pacifista».

Davvero lei auspica una nuova offensiva russa?

«Le guerre sono spesso una questione di sopravvivenza delle rispettive macchine militari, e questa non fa eccezione. Non sto auspicando la continuazione delle ostilità. Sto solo dicendo che quando l’esercito ucraino non ce la farà più, allora sarà tutto più chiaro».

#Ukraina – Margarita (Sinistra per l’Ucraina)

Diritti
Su pagine che non citiamo per non fare nessun tipo di pubblicità gira da un po’ di giorni la notiziona scoop che Margarita, la nostra compagna ucraina da poco scomparsa e di cui avevamo parlato recentemente, sia una “nota nazista”.
Con tanto di insulti e denigrazione.
E questa cosa, per chi ha dato la vita per combattere il fascismo e per chi, come alcuni di noi, la conoscevano bene, è quantomeno insopportabile.
Alimentare propaganda è facilissimo, può farla chiunque, basta prendere una foto, una notizia e poi dargli il vestito che si preferisce.
Non importa chi sia veramente il soggetto scelto, basta usarlo, anche nel terribile dolore della morte, come fa più comodo.
A noi questi vergognosi post, a parte lo sgomento di vedere la figura di Margherita essere accomunato a ciò che più odiava, ci fa imbestialire e rendere ancora più determinati.
Un giorno tutta questa merda sarà spazzata via e merde umane come gli autori di questo fango non troveranno posto per nascondersi.
Potrebbe essere un'immagine raffigurante 1 persona

Sui salari Meloni rivendica un’altra “inversione di tendenza” che non c’è (pagellapolitica.it)

di Carlo Canepa

Lavoro
Secondo la presidente del Consiglio, sono tornati a crescere grazie al suo governo. Abbiamo analizzato che cosa dicono i numeri

Il 30 aprile, in un video pubblicato sui social network in vista della Festa dei lavoratori del 1° maggio, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha annunciato che il suo governo intende destinare nuove risorse per contrastare le morti sul lavoro.

Nel video, Meloni ha anche rivendicato alcuni risultati ottenuti dal suo governo, in particolare sul fronte delle retribuzioni dei lavoratori. Secondo la presidente del Consiglio, grazie all’azione del governo «crescono i salari reali, in controtendenza con quello che accadeva nel passato».

A supporto, Meloni cita questa statistica: «Tra il 2013 e il 2022, con i precedenti governi, nel resto d’Europa il potere d’acquisto dei salari aumentava del 2,5 per cento, mentre in Italia diminuiva del 2 per cento». E aggiunge: «Da ottobre 2023 la tendenza è cambiata e le famiglie stanno progressivamente recuperando il loro potere d’acquisto, con una dinamica dei salari che è migliore, e non peggiore, rispetto a quella del resto d’Europa».

Insomma, da circa un anno e mezzo le retribuzioni italiane sarebbero tornate a crescere e lo farebbero più che negli altri Paesi. I numeri le danno ragione oppure no? In breve, la dichiarazione rischia di risultare fuorviante perché mescola l’andamento di indicatori diversi. Ma le cifre che abbiamo a disposizione non giustificano per il momento i successi rivendicati da Meloni.

Peraltro l’attuale governo ha spesso rivendicato il merito di “inversioni di tendenza”, dal turismo all’occupazione, che sarebbero passati da indicatori negativi a positivi. Come abbiamo mostrato nelle nostre verifiche, quelle inversioni di tendenza spesso non hanno trovato riscontro nei dati.

Tra il 2013 e il 2023…

 

È probabile che la fonte della prima parte della dichiarazione della presidente del Consiglio – quella sull’andamento delle retribuzioni in Europa e in Italia fino al 2022, che mostrerebbero un calo nel nostro Paese – sia il “Rapporto annuale 2023” dell’ISTAT, pubblicato a maggio di due anni fa. In quel documento si legge infatti che «il potere di acquisto delle retribuzioni nel 2022 è cresciuto nella media Ue del +2,5 per cento rispetto al 2013, mentre in Italia è diminuito del 2 per cento». Sono proprio le percentuali citate da Meloni nel suo video.

Con il termine “retribuzioni”, in quel contesto, l’ISTAT fa riferimento alle “retribuzioni lorde annue per dipendente”, un indicatore che include tutto ciò che il lavoratore ha ricevuto durante l’anno, sia in denaro sia sotto forma di altri benefici. Non è solo una precisazione tecnica: parte dei problemi nella dichiarazione di Meloni sta proprio negli indicatori utilizzati.

Anche il “Rapporto annuale 2024”, pubblicato da ISTAT l’anno scorso, contiene una sezione dedicata all’andamento della stessa metrica, ossia le retribuzioni lorde annue per dipendente in termini reali (cioè tenendo conto dell’andamento dell’inflazione), con dati aggiornati al 2023.

In quell’anno – il primo interamente sotto il governo Meloni – le retribuzioni lorde annue per dipendente in Italia sono ulteriormente calate rispetto al 2022, risultando inferiori anche rispetto al livello del 2013. Dunque, ricapitolando: nel 2023, primo anno intero del governo Meloni, le retribuzioni lorde annue sono in realtà calate.

Andamento delle retribuzioni lorde annue per dipendente in termini nominali e reali nei grandi Paesi Ue – Fonte: ISTAT (Andamento delle retribuzioni lorde annue per dipendente in termini nominali e reali nei grandi Paesi Ue – Fonte: ISTAT)

Dalla dichiarazione di Meloni si ha l’impressione che tra il 2013 e il 2023 ci sia stato un calo continuo delle retribuzioni, seguito poi da una netta inversione di rotta con l’arrivo del suo governo. Ma se guardiamo ai due grafici qui sopra prodotti da ISTAT, basati su dati di Eurostat, notiamo quanto sia altalenante l’andamento delle retribuzioni lorde annue per dipendente tra il 2013 e il 2023 in termini nominali (grafico a sinistra) e in termini reali (grafico a destra) nelle principali economie dell’Unione europea.

Come si vede dal grafico a destra, in Italia (linea blu) e negli altri Paesi tra il 2013 e il 2015 si era registrato un aumento, così come tra il 2017 e il 2019. E nel 2021 le retribuzioni lorde annue per dipendente in Italia, in termini reali, erano superiori a quelle del 2013. Non c’era una tendenza al calo (che il governo avrebbe invertito).

È vero però che dopo il 2021 in Italia si sono verificati due anni di calo, dovuti soprattutto al forte aumento dell’inflazione. La dinamica dei prezzi, infatti, ha un ruolo centrale nel determinare il potere d’acquisto.

A questo proposito, tra la fine del 2023 e la prima parte del 2024 la crescita dei prezzi ha rallentato in Italia più che in altri Paesi europei, che è generalmente una buona notizia per il potere d’acquisto dei salari di cui ci stiamo occupando qui. Ma come abbiamo spiegato in altri approfondimenti e come ha ammesso lo stesso governo in alcuni documenti ufficiali, il merito non è dei provvedimenti del governo.

Va poi sottolineato che da settembre 2024 i prezzi sono tornati a salire, sebbene a un ritmo inferiore rispetto ai picchi dei due anni precedenti. Lo scorso 17 aprile, in un’audizione in Parlamento, il direttore del Dipartimento per le statistiche economiche dell’ISTAT, Stefano Menghinello, ha spiegato infatti che «negli ultimi mesi del 2024 la dinamica dei prezzi ha mostrato alcuni segnali di risalita», proseguiti nei primi mesi di quest’anno.

Leggi anche: Il governo smentisce se stesso sul calo dell’inflazione

Pagella Politica