“Le sciocchezze diffuse dal professor Barbero” (AREA DRAGHI)

di Roberto Damico

Non ho intenzione di creare una rubrica 
intitolata "Le sciocchezze diffuse dal 
professor Barbero", 
ma non posso ignorare la sospetta insistenza con cui Il Fatto Quotidiano– giornale notoriamente populista e filo-putiniano – propone quotidianamente i video del docente torinese.
Se già quello di due giorni fa raggiungeva vette inedite di superficialità, quello di ieri, pur non introducendo concetti nuovi, rappresenta forse un ulteriore passo indietro.
Garibaldi, Cavour e il nazionalismo strumentale
Nel video in questione, dedicato a Garibaldi e Cavour (argomento che Barbero affronta spesso), il professore parte da un presupposto discutibile: che entrambi fossero “italiani” e che studiarli ci aiuterebbe a capire “come siamo noi italiani”. Peccato che questa visione presupponga un’identità nazionale preesistente all’unificazione, cosa storicamente infondata.
Non credo sia un caso che un giornale filo-putiniano come Il Fatto insista tanto sui piccoli nazionalismi anti-europeisti. L’assunto implicito di Barbero (e del suo editore, Marco Travaglio) è che gli italiani siano sempre stati italiani, i francesi francesi, e i tedeschi eterni guerrafondai (con l’immancabile accostamento al nazismo). Una narrazione che, oltre a essere semplicistica, serve a smontare qualsiasi spinta verso un’Europa unita e solidale.
Dante e il mito dell’italianità medievale
Barbero arriva spesso a sostenere che la coscienza nazionale italiana risalirebbe addirittura a Dante, un’affermazione che fa sorridere chiunque conosca il pensiero politico del poeta. Dante auspicava sì un’Europa unita, ma sotto l’egida di un imperatore universale, non certo di un’Italia omogenea. L’idea che un palermitano e un veneziano del Trecento si sentissero parte dello stesso popolo è anacronistica: erano sudditi di realtà politiche, linguistiche e culturali profondamente diverse.
“Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”
La celebre frase di Massimo d’Azeglio resta la migliore smentita alla tesi di un’identità italiana preesistente. Prima del 1861, la penisola era un mosaico di Stati con lingue, tradizioni e leggi differenti. I siciliani odiavano i napoletani perché li vedevano come occupanti; i veneti diffidavano dei romani; gli ebrei espulsi dalla Sicilia nel ‘500 venivano discriminati persino nelle altre regioni italiane. L’unità fu un processo politico, non il compimento di un destino secolare.
Perché Il Fatto insiste su questa narrazione?
La risposta è semplice: il nazionalismo è uno strumento utile a chi vuole indebolire l’Unione Europea. Se gli italiani si convincono che la loro identità è antica e immutabile, saranno meno inclini a vedere sé stessi come europei. E un’Europa divisa è il sogno di Putin, che da anni finanzia e sostiene movimenti sovranisti in tutto il continente.
Travaglio e Barbero, forse inconsapevolmente, stanno riproponendo miti risorgimentali in funzione anti-europea. Peccato che la storia, quella vera, dica tutt’altro.
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Ritrovato il corpo di Viktoria Roshchyna, la giornalista ucraina torturata, uccisa e restituita senza nome in un sacco bianco dai russi (open.online)

di David Puente

Scomparsa nell’estate del 2023, è stata inaspettatamente ritrovata in un enorme scambio “umanitario”

“Roshchyna, V.V.” è il nome scritto su un’etichetta attaccata a una gamba. Poi, il test del DNA. Così che è stato riconosciuto il corpo di Viktoria Roshchyna, giornalista freelance ucraina di 27 anni scomparsa nell’agosto 2023 nelle zone occupate dall’invasore russo.

Inaspettatamente, è stata ritrovata tra gli oltre 750 corpi restituiti da Mosca nel più grande scambio umanitario avvenuto dall’inizio dell’invasione su vasta scala iniziata nel 2022, contenuta dentro un sacco bianco, etichettato “NM SPAS 757”.

La scomparsa, la detenzione e il decesso

Scomparsa nell’agosto del 2023, per oltre un anno è stata smistata tra almeno due centri di detenzione non ufficiali e una prigione russa, prima dell’annuncio della sua morte nell’ottobre del 2024. Dopo mesi di ricerche e appelli, il suo nome è riemerso tra i cadaveri restituiti a febbraio 2025 in uno scambio tra Russia e Ucraina.

Un corpo identificato inizialmente come maschile, con ferite multiple, abrasioni, emorragie in varie parti del corpo, segni di tortura compatibili con scariche elettriche, una costola rotta e lesioni al collo. Secondo l’autopsia ucraina, erano presenti anche segni di una precedente autopsia effettuata in Russia e l’assenza di alcuni organi interni.

Il reportage

La reporter, nel 2023, ha tentato di documentare i cosiddetti “ghost detainees”, ossia i migliaia di civili ucraini detenuti arbitrariamente dall’esercito russo e nascosti in carceri e centri di detenzione non ufficiali, sia nell’Ucraina occupata che in Russia.

Tra le vittime dell’esercito russo risulterebbero circa 16.000-20.000 civili, tra questi anche attivisti e parenti di militari ucraini, torturati, deportati o costretti a “confessare”, fornendo false dichiarazioni utili alla propaganda russa come era avvenuto alla stessa Roshchyna nel 2022.

Il gruppo internazionale di giornalismo investigativo Forbidden Stories, con il contributo di 13 testate e 45 giornalisti, ha ripercorso il lavoro svolto da Viktoria.

Secondo quanto riportato dal Guardian, le strutture di detenzione individuate sarebbero circa 180.

E Trump supplicò «L’espulsione no!» (corriere.it)

di Gian Antonio Stella

Tuttifrutti

«Perché dovremmo essere deportati? È molto, molto difficile per una famiglia. Cosa penseranno i nostri concittadini se dei cittadini onesti si troveranno di fronte a un simile decreto, per non parlare delle ingenti perdite materiali?».

Grondava lacrime, il povero e derelitto Friedrich Trump nell’accorata supplica del 1905 a sua Maestà il «Serenissimo, Potentissimo Principe Reggente, Grazioso Reggente e Signore» Leopoldo che da vent’anni governava la Baviera al posto del sovrano Ottone I affetto da gravi problemi mentali.

E spiegava d’essere nato nel 1869 nel paesino collinare di Kallstadt, nel Palatinato, da «vignaioli onesti, semplici e pii» che lo avevano cresciuto coi sani principi: «Diligenza e pietà, frequenza regolare a scuola e in chiesa, obbedienza assoluta all’alta autorità». Fatta la cresima e l’apprendistato da barbiere, a sedici anni era emigrato in America a tentar fortuna e c’era riuscito: «La benedizione di Dio era con me e divenni ricco».

L’istanza, certo, sorvolava su dettagli come l’essersene andato clandestinamente violando la legge senza fare la naja obbligatoria e senza il permesso d’espatrio, ma non l’avevano fatto forse tanti altri tedeschi se negli ultimi due decenni dell’800 erano emigrati negli States in due milioni? Il guaio è che, fatti i soldi e rientrato a Kallstadt per trovare una sposa locale con cui aveva fatto a New York quello che per i repubblicani di oggi è l’odiato «ricongiungimento familiare», aveva poi deciso di tornare con lei e il figlioletto (futuro padre di Donald) a vivere nell’amato paesello.

Macché: «Come un fulmine a ciel sereno», scriverà, aveva ricevuto il 27 febbraio 1905 un ordine d’espulsione per esser prima espatriato «senza il necessario permesso d’emigrazione, per sottrarsi agli obblighi militari», perdendo la cittadinanza tedesca, e poi «esser tornato in patria senza autorizzazione».

Aveva quindi «8 settimane dalla ricezione di questo decreto» per filar via prima d’essere «soggetto a espulsione coatta». Povero Trump! «Mi è impossibile abbandonare questo bello e amato luogo poiché la mia amata madre, i miei cari parenti e gli amici della mia infanzia vivono ancora qui». Colmo d’angoscia implorò l’autorità: «Non ho altra risorsa che rivolgermi al nostro adorato, nobile, saggio e giusto sovrano signore…».

Inutile, espulsi lui, la moglie, il bambino: fuori! O se volete, per dirla col nipote Donald nello show Apprentice: «You’re fired!».

Non credo alla memoria condivisa, ma alla pietà per i morti sì (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola Posta

Lo spettacolo del saluto fascista alla memoria di Ramelli ripetuto martedì è un problema per tutti. Mi chiedo se e quando un responsabile della destra neofascista abbia operato un riconoscimento, in tempo utile, dei morti ammazzati della parte opposta

Ho un fatto molto personale, e molto politico. Nel 1985, dieci anni dopo l’agguato in cui il diciottenne inerme Sergio Ramelli era stato pestato a morte, a Milano, sotto la sua casa, i magistrati responsabili dell’indagine, Guido Salvini e Maurizio Grigo, resero noti i nomi e l’appartenenza politica degli autori, militanti di Avanguardia Operaia, una delle organizzazioni della sinistra extraparlamentare: tutti confessi.

A ridosso di quella traumatica svolta, dirigenti di Democrazia Proletaria, il cartello elettorale in cui erano confluiti in maggioranza i membri di Avanguardia Operaia dopo lo scioglimento nel 1978, così come del Pdup, del Manifesto e del Movimento Studentesco della Statale, convocarono a Milano un incontro intitolato alle “vere ragioni” della passata militanza.

Affollatissimo, l’incontro ebbe la partecipazione di persone di ogni formazione di sinistra. Il proposito originario era di difendere la memoria da un paventato intento di criminalizzare, attraverso l’uccisione di Ramelli, “l’intero ’68”: e andò fallito, com’era inevitabile. Lo stesso Guido Salvini aveva una formazione e una frequentazione vicina a quella dei coetanei divenuti suoi imputati.

Ho davanti due ampie cronache del giorno dopo, una di Repubblica, firmata da Franco Vernice, e una dell’Unità, di A. Pollio Salimbeni. La cronaca di Vernice riferisce le virulente contestazioni all’intervento di Miriam Mafai: “L’uccisione di Ramelli fu un delitto”. La rievocazione di Mario Capanna, che definì l’uccisione di Ramelli “un tragico errore umano e politico”. Le parole di Giovanni Pesce, il gappista medaglia d’oro della Resistenza: “increscioso e deprecabile episodio”, e di Ludovico Geymonat.

I fischi a Gianluigi Melega, deputato radicale: “Per me chiunque porti un’arma ha torto”. E i fischi a Claudio Petruccioli, del Pci: “E’ ipocrita usare il termine ‘errore’ per definire l’uccisione di Ramelli. Fu certo un errore, ma anche un assassinio”. Stefano Rodotà, che auspica “un processo giusto”. “Ancora, sfilano Mario Dalmaviva e Rino Formica, Franco Fortini e Giovanni Moro, Franco Russo e Aldo Aniasi, Edo Ronchi e Mario Spinella, Bruno Ambrosi e Costanzo Preve. Da Parigi, Oreste Scalzone”.

“‘La Nuova sinistra cadde vittima di un pericoloso stato di paranoia’, afferma la Mafai. Si accende un accenno di pugilato fra autonomi e Dp: il flashback, ora, sembra completo. ‘Certo che eravamo paranoici, abbiamo fatto cose giuste, ma ci siamo macchiati anche di tanti misfatti’, dice, durissimo e serafico, Adriano Sofri. Ormai da tempo, Sofri ha accettato di parlare di quel periodo senza peli sulla lingua, e gesuitici distinguo. ’In quell’epoca ci organizzavamo anche per menarci fra di noi’, dice, ‘uccidere Ramelli fu un assassinio’, e nessuno può tentare di chiamarsene fuori, fra quanti, allora, ‘stavano nel movimento’. In sala, questa volta, nessuno se la sente di fischiare e le facce si fanno tristi e tirate”.

La cronaca dell’Unità: “Poi parla Adriano Sofri, un ex eminente che adesso fa il giornalista e ricercatore. Sofri parla quasi lo stesso linguaggio della Mafai. Dice che l’uccisione di Ramelli è un assassinio. Non bisogna trincerarsi dietro le parole. ‘Sono a disagio quando si parla del ’68 e degli anni seguenti come di un periodo luminoso, così come non sono d’accordo quando se ne parla in termini di anni bui. Dobbiamo accettare l’ambiguità e la contraddizione. Dobbiamo dire che compimmo veri e propri misfatti. Ci organizzammo anche per menarci tra di noi’. Sofri ha sorpreso, solo che lui non viene fischiato”.

Ho una doppia ragione per tornare su quella discussione di quarant’anni fa. La prima è che quando, anni dopo, venni accusato di aver comandato un omicidio, si recuperarono le mie parole per farle passare come una confessione preventiva. Avevo detto anche: “Rispetto alle persone che sono state recentemente arrestate io mi sento solidale, al di là di qualunque ricostruzione politica. Per la semplice ragione, e non è una metafora, che io avrei potuto fare quello che loro hanno fatto, direttamente o indirettamente”. Non era vero, ma era un modo necessario di dichiarare una corresponsabilità con le idee e le parole di un tempo che avevano reso possibili quelle aberrazioni.

La seconda ragione è nella correzione di molte versioni disattente. Nel suo libro recente, Uccidere un fascista (Mondadori), Giuseppe Culicchia ricostruisce la vita e la morte di Ramelli, parallele, e opposte, a quelle di Walter Alasia, suo amato cugino, cui aveva dedicato un altro libro. Dell’incontro milanese scrive che Melega “fu l’unico a essere fischiato dal pubblico” – fu in vasta compagnia. E cita quella mia frase, “io mi sento solidale…”, fuor di contesto, all’inizio di un elenco di espressioni “di un certo cinismo”.

Nel 1975, quando Sergio Ramelli fu pestato a morte, Giorgia Meloni non era nata. Nel 1985, quando divennero noti gli autori dell’agguato a Ramelli, Meloni aveva 8 anni. Ora ha detto, in un sentito discorso, che la vicissitudine e la morte di Ramelli “sono un pezzo di storia d’Italia con cui tutti, a destra e a sinistra, devono fare i conti”. E’ vero, e non da oggi, né da ieri.

Lo spettacolo del saluto fascista e nazista alla memoria di Ramelli ripetuto martedì, con la sola variante di una crescita di proseliti, è oggi altrettanto un problema di Meloni che degli antifascisti.

Non credo alla memoria condivisa, ma alla pietà per i morti sì. Anche per questo mi chiedo se e quando una, un, responsabile della destra neofascista italiana fece mai, in tempo utile, un riconoscimento dei morti ammazzati della parte opposta.