Chi è Jay Bhattacharya, scelto da Donald Trump per guidare il National institutes of health (euronews.com)

di Euronews Agenzie: AP

Il professore scettico su lockdown e vaccini ha 
promesso di riformare la più grande agenzia di 
ricerca al mondo. 

Affiancherà il no-vax Robert Kennedy Jr.

Il presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump ha scelto l’economista Jay Bhattacharya, sempre stato critico nei confronti dei lockdown per il Covid-19 e scettico sui vaccini, per guidare i National institutes of health (Nih), la più grande agenzia di ricerca biomedica al mondo.

Trump ha dichiarato in un comunicato che Bhattacharya, 56 anni, medico e professore alla Stanford University School of Medicine, lavorerà con Robert F. Kennedy Jr., scelto per guidare il dipartimento della Salute degli Stati Uniti, “per dirigere la ricerca medica della nazione e per compiere importanti scoperte che miglioreranno la salute e salveranno vite”.

“Insieme, Jay e RFK Jr. riporteranno l’Nih al massimo standard della ricerca in ambito medico, mentre esamineranno le cause alla base delle maggiori sfide sanitarie d’America e le relative soluzioni, tra cui la crisi delle malattie croniche”, ha scritto Trump.

Con un budget di 48 miliardi di dollari (44,4 miliardi di euro), l’Nih finanzia la ricerca medica sui vaccini, sul cancro e su altre malattie attraverso sovvenzioni ai centri di ricerca in tutti gli Stati Uniti, oltre a condurre proprie ricerche con le migliaia di scienziati impiegati nei suoi laboratori del Nih.

Anche molti Paesi europei hanno attività finanziate dall’Nih, che si concentrano principalmente su Hiv/Aids, immunologia, malattie trasmesse dalle zanzare e virus dell’influenza.

Le sovvenzioni dell’Nih hanno sostenuto un farmaco per la dipendenza da oppioidi, un vaccino per la prevenzione del cancro al collo dell’utero, molti nuovi farmaci antitumorali e il rapido sviluppo del vaccino mRNA per il Covid-19.

La decisione di scegliere Bhattacharya per l’incarico all’Nih è un’ulteriore conferma dell’impatto che la pandemia da Covid-19 ha avuto sulla politica della salute pubblica negli Stati Uniti.

Bhattacharya è stato uno dei tre autori della Great Barrington declaration, una lettera aperta dell’ottobre 2020 in cui si sosteneva che i lockdown stavano causando danni irreparabili.

Il documento, redatto prima della realizzazione dei vaccini e durante la prima amministrazione Trump, promuoveva l’immunità di gregge, l’idea che le persone a basso rischio dovessero vivere normalmente e immunizzarsi attraverso l’infezione. Le restrizioni sarebbero dovute essere imposte solo sulle persone a rischio più elevato, secondo quanto scritto nella lettera.

“Credo che i lockdown siano stati il più grande errore in materia di salute pubblica”, ha dichiarato Bhattacharya nel marzo 2021 durante una tavola rotonda ospitata dal governatore della Florida, Ron DeSantis.

La Great Barrington declaration è stata accolta con favore da alcuni membri della prima amministrazione Trump, mentre è stata largamente criticata dalla maggioranza degli esperti.

L’allora direttore del Nih, Francis Collins, la definì pericolosa e “non conforme alla scienza tradizionale”.

In un post su X, Bhattacharya si è detto “onorato e lusingato” per la nomina.

“Riformeremo le istituzioni scientifiche americane in modo che siano di nuovo degne di fiducia e impiegheremo i frutti di una scienza eccellente per rendere l’America nuovamente sana”, ha dichiarato.

L’annuncio va a completare la squadra della sanità di Trump, in preparazione del suo secondo mandato, che inizierà il 20 gennaio.

Il Senato dovrà approvare Bhattacharya e le altre nomine del tycoon, tra cui quelle del già citato Kennedy, del dottor Mehmet Oz alla guida dei Centers for Medicare and Medicaid services (il programma di assicurazione sanitaria pubblica) e di Marty Makary alla guida della Food and drug administration.

Zelensky e quel resistere che appartiene all’Ucraina (corriere.it)

di Lorenzo Cremonesi

Il Paese, i giovani, il fronte

Ricordate cosa pensavamo praticamente tutti quelle prime ore dell’attacco russo la mattina del 24 febbraio 2022?

Che l’Ucraina era spacciata; Volodymyr Zelensky sarebbe scappato; il suo esercito si sarebbe squagliato come neve al sole. Inutile girarci troppo attorno: il Paese non avrebbe tenuto.

Lo pensavano sia i sostenitori del diritto russo a riprendersi le sue «province storiche», sia i difensori ad oltranza del principio dell’autodeterminazione dei popoli e quindi dell’indipendenza dei Paesi nell’Est Europa risorti dopo l’implosione dell’Unione Sovietica con la fine della Guerra Fredda.

Persino Joe Biden, che pure ben conosceva il grado di sostegno militare fornito dagli Stati Uniti e dagli altri Paesi alleati a Kiev sin dall’attacco russo nel 2014, non valutava affatto possibile che gli ucraini sarebbero stati in grado di resistere. Tanto che, meno di 48 ore dopo l’aggressione, il presidente americano offrì all’amico ucraino di scappare in elicottero per organizzare la lotta da una qualsiasi località di sua scelta in esilio. Una fuga garantita dai commando scelti Usa per salvarsi la vita.

Invece avvenne qualche cosa di totalmente inaspettato. Una di quelle svolte improvvise della storia che costringono a rivedere le proprie convinzioni, lasciano spiazzati e meravigliati a fronte delle infinite variabili della realtà, smentiscono gli esperti e rendono più sorprendenti le nostre esistenze. Gli ucraini resistono, tengono botta, prendono le armi e combattono.

Zelensky non scappa: l’attore diventato politico solo due anni prima chiede armi, non rifugi all’estero. Attenzione! Adesso qualcuno dirà che questa storia l’ha già sentita cento volte, che è parte della propaganda dei filo Nato, che l’importante resta che la Russia comunque vincerà.

E invece no. Proprio in occasione di questo ottantesimo anniversario del 25 Aprile italiano è indispensabile tornare a ricordare quelle ore, quei giorni di lotta e sacrificio. Ed è necessario che coloro che hanno visto tornino a raccontare, a ricordare, a sottolineare. Proprio per il fatto che allora nulla era scontato, se non la narrativa del trionfo russo.

Gli eventi vanno compresi nel loro divenire, nell’incertezza rischiosa, caotica e inquietante del loro contesto. Noi europei occidentali ancora non ci capacitiamo, non lo capiamo. Ma lo slancio degli ucraini non è la retorica melensa degli eroi che lottano e muoiono per la libertà. Resta piuttosto la realtà di esseri umani — uomini, donne, giovani e anziani — che da un momento all’altro lasciano i letti caldi delle loro case e si mettono in fila ai centri di reclutamento per imparare a usare un fucile, a tirare una bomba a mano, a costruire una casamatta con le feritoie all’entrata della città.

Ognuno è chiamato a decidere del suo destino. C’è come una generosità diffusa che è direttamente proporzionale al rischio collettivo. Nelle cantine di bar e ristoranti nascono mense popolari che offrono pasti caldi gratuiti. Nei quartieri periferici e nei villaggi si creano spontaneamente «comitati di difesa» che presidiano gli accessi.

Anziani cacciatori si danno il turno come sentinelle coi loro fucili vetusti quando appare evidente che le avanguardie russe con una gigantesca manovra a tenaglia stanno cercando di circondare totalmente Kiev. Accanto a loro, migliaia si mettono a preparare le molotov con le bottiglie di vino vuote raccolte nei secchi dell’immondizia sotto casa, scavano trincee nei parchi, agli incroci, presidiano i ponti.

Consultano in rete come fare: i blogger danno istruzioni, scaricano dai siti di cose militari. Nei garage costruiscono cavalli di frisia con pezzi di ferro e vecchie traversine per bloccare le colonne dei tank. Gli anziani si pungono maldestri coi rotoli di filo spinato e li posizionano sul selciato.

Vero: tanti scappano. Kiev, che oggi è in lutto, per i missili e i droni assassini delle ultime ore, perde in poche ore metà della popolazione. Ma i due milioni che restano si preparano a una lunga e sanguinosa guerriglia urbana. Non s’imboscano, a loro modo «salgono sulle montagne», scelgono la via più difficile del sacrificio, del rischio personale.

«Sono tornato dopo dieci anni da Napoli per combattere. Non ho mai sparato un colpo in vita mia, detesto la guerra. Ma i porci russi non si prenderanno il mio Paese tanto facilmente, sono pronto a uccidere e essere ucciso», mi dice in perfetto italiano un trentenne appena arrivato alla stazione di Kiev. La cosa che stupisce è che questa gente, specie nelle grandi città come Kiev, Leopoli, Kharkiv, Odessa e Dnipro, in apparenza pensa e si comporta come un qualsiasi romano, milanese, parigino o berlinese.

Alcuni ragazzi, non avranno più di 22 o 23 anni, che stanno acquistando di tasca loro ai grandi magazzini sacchi a pelo, scarponi e giacche pesanti per andare a combattere nella zona tra Bucha e Irpin, raccontano che per Capodanno erano stati a Venezia. Uno spiega che si è sposato da poco in una basilica di Parigi con la sua fidanzata dei tempo del liceo.

A differenza dei loro nonni e padri, che parlano solo il russo e poco ucraino, loro sono abituati a viaggiare e lavorare nelle città europee. Sono il frutto diretto dell’apertura al mondo occidentale accelerata dagli eventi del 2014. Eppure, la grande differenza resta che adesso stanno andando a combattere.

Ed è questo che diventa importante per noi nel giorno della commemorazione della Resistenza. Certo che poi la guerra si è trasformata in una cosa del tutto diversa. Certo che poi sono diventati vitali gli aiuti americani e degli alleati europei. Certo che oggi il Paese è stanco, gli ucraini temono per il loro futuro, il governo di Kiev ha commesso tanti errori e mancano volontari per il fronte.

Ma proprio la generosa mobilitazione ucraina della prima ora ha sconfitto l’illusione della guerra lampo di Putin ed è diventata un esempio per tutti noi.

Kursk, Alessandro Di Battista blastato da Claudio Locatelli: «Saluti dall’Ucraina che resiste» (open.online)

di David Puente

Rossobruni e patrioti
L’ex 5 Stelle accusa il “sistema mediatico occidentale” e Zelensky per il “totale fallimento” nell’oblast russo, ottenendo una dura risposta dal reporter di guerra nel Donbass

«Putin riconquista Kursk: disfatta totale per Zelensky, nessuna merce di scambio per negoziare», scrive Alessandro Di Battista, pubblicando un video su X in cui parla della liberazione” dell’oblast russo e definisce come “totale fallimento” sia l’operazione militare di Kiev sia il “sistema mediatico” italiano e occidentale, colpevole, a suo dire, di aver elogiato l’offensiva ucraina per aver ottenuto qualcosa di utile per negoziare una “pace giusta“.

Un’espressione, quest’ultima, che per Di Battista resta ambigua, tanto da domandarsi cosa significhi realmente, sostenendo la narrazione secondo cui il proseguimento del conflitto condurrebbe a una “pace ingiusta” per gli ucraini ritrovandosi costretti a perdere territori e a indietreggiare di fronte ai russi: «Complimenti a Zelensky e al sistema mediatico occidentale».

Nel post pubblicato su X interviene il reporter di guerra Claudio Locatelli, rispondendo con i fatti e smontando la narrazione favorevole alla propaganda russa dell’ex 5 Stelle:

Sono in Donbass, il fronte a 20km, in 11 anni di guerra non sono riusciti neppure a conquistare quest’area.

Nel frattempo la Federazione Russa ha dovuto chiedere aiuto alla Corea del Nord, si è dovuta ritirare quasi del tutto dalla Siria (ero lì), ha perso nello stesso anno le aree conquistate nel 2022 – Kiev, Sumy, Kharkiv, Cherson.

Se l’Ucraina ancora esiste lo deve ad un insieme di elementi che includono certamente l’aiuto militare e di intelligence – oltre ad una volontà popolare ampia, chiunque cerca di raccogliere fondi per l’esercito, chi può aiuta con la produzione di droni ecc.

Locatelli, a questo punto, riprende il concetto di resistenza citando il 25 aprile:

Passato il 25 aprile, ricordando partigiani mal armati che tentarono senza possibilità di resistere ad esercito regolari, la memoria è già svanita? Non si può biasimare qualcuno che oggi cerca di difendersi nei modi e nelle forme che può.

Kursk ha mostrato che l’aggressore non è intoccabile e anche se non ha retto, per mesi è rimasto una spina nel fianco.

Se possono rubarti l’intera “bici” con la forza non rischieranno di prenderne meno discutendo con te ad un tavolo. In diplomazia la stessa resistenza è merce di scambio, senza avere forza, senza avere nulla, non si può portare nessuno sul piano diplomatico, tantomeno la Russia.

Saluti dall’Ucraina che resiste – Kramatorsk, Donbass, 2025

Lepore cita i massacri a Gaza: “Devastata come Dresda”. Gelo della Comunità ebraica (ilrestodelcarlino.it)

di MARIATERESA MASTROMARINO

In Piazza Nettuno il sindaco invita alla 
riflessione sulle guerre. 

De Paz resta critico: “Va bene dare attenzione ai conflitti, ma non si sovrappongano a giornate così importanti”.

“Una professione di antifascismo, un giuramento collettivo di fedeltà alla Repubblica”. Lo grida il sindaco Matteo Lepore in una piazza del Nettuno gremita per celebrare l’ottantesimo anniversario della Liberazione. Con lui, Anna Cocchi, presidente Anpi, il vicepresidente regionale Vincenzo Colla e il prefetto Enrico Ricci depositano una corona al sacrario dei caduti partigiani, preceduto dall’alzabandiera con picchetto militare d’onore.

Una giornata “di festa e riflessione”, pensando che “se 80 anni fa l’Italia fu liberata dalla guerra – continua il sindaco –, la guerra non ha mai smesso di esistere”.

Il pensiero va ai 56 conflitti bellici, da Kharkiv e Kiev fino a Gaza, dove “il 69% degli edifici della Striscia è stato distrutto dopo il 7 ottobre”, per una stima di circa “34 milioni di metri cubi di macerie. La portata della devastazione è stata paragonata a quella delle città europee durante la Seconda Guerra Mondiale, come Dresda e Amburgo”.

Per questo, “non c’è 25 aprile senza la liberazione dalle guerre – sostiene Albertina Soliani, presidente di Casa Cervi –. Sia Bologna antifascista in prima linea”. Sventolano alte alcune bandiere della Palestina. E “che ce ne siano più di quelle italiane in piazza, in una giornata dal valore unico per il nostro Paese, dovrebbe farci riflettere – sottolinea Daniele De Paz, presidente della Comunità ebraica –. Sempre auspichiamo che il 25 aprile possa essere celebrato per i valori storici e culturali della giornata. Questo non vuol dire non dare attenzione ai conflitti globali, ma la sovrapposizione con giornate così importanti” dovrebbe essere evitata.

“Le nostre istituzioni potrebbero avere momenti in cui apporre attenzione ai conflitti mondiali e prendere posizioni fuori da questi contesti”, chiude De Paz.

Alla “giornata più bella dell’anno nel nostro Paese”, come definita dal sindaco, c’è anche il vicepresidente della Regione Vincenzo Colla: “Essere democratici vuol dire essere antifascisti – afferma – senza reticenza. Ditelo che siete antifascisti, che è la bandiera di tutti”.

E parlando di sobrietà, quella a cui ha invitato il ministro Nello Musumeci, “con tutto il rispetto istituzionale per il ministro – scandisce –, quello che deve restare sobrio è lui nelle dichiarazioni. Questa è una manifestazione di cui anche Papa Francesco ha sempre onorato con grande forza e lo ricordiamo per la sua immensità di pensiero”.

Il pensiero di tutti, infatti, ricade sul Pontefice, alla vigilia dei suoi funerali a Roma, che “può onorarsi a pieno titolo della qualifica di partigiano – termina Cocchi –. Qui ricordiamo il sacrificio di uomini e donne che hanno combattuto per permettere a noi di essere in libertà”.

In Piazza Nettuno il sindaco invita alla riflessione sulle guerre. De Paz resta critico: "Va bene dare attenzione ai conflitti, ma non si sovrappongano a giornate così importanti".

A scuola un doppio svantaggio per i bambini di seconda generazione (lavoce.info)

di  e 

I bambini iscritti troppo presto alla scuola 
primaria hanno più difficoltà in italiano e in 
matematica, soprattutto se sono figli di immigrati. 

Offrire un supporto appropriato è una misura di equità educativa, ma anche una strategia di integrazione.

Quanto contano le disuguaglianze socioeconomiche

Negli ultimi anni, è cresciuta l’attenzione verso l’andamento scolastico dei bambini di seconda generazione. Nati in Italia da genitori stranieri, questi alunni condividono il contesto educativo e linguistico dei loro coetanei nativi, ma possono trovarsi ad affrontare difficoltà aggiuntive legate alle condizioni familiari e sociali. In media, le famiglie immigrate vivono in contesti socioeconomici più fragili, con redditi inferiori e una minore padronanza della lingua italiana.

Questi fattori sono ben documentati nella letteratura e si riflettono nei risultati scolastici: nei dati Invalsi da noi analizzati, il divario medio è pari a 8,25 punti percentuali in italiano e 7,14 in matematica.

Il divario riflette in larga parte le diseguaglianze socioeconomiche. Ma se tutto dipendesse solo dallo status socioeconomico, a parità di condizioni le differenze tra nativi e seconda generazione dovrebbero annullarsi.

Se invece si continua a osservare una differenza significativa a danno della seconda generazione, siamo di fronte al cosiddetto “doppio svantaggio”, ovvero a un’ulteriore penalizzazione dovuta all’interazione tra due ostacoli. In un nostro contributo, ci siamo chiesti se la seconda generazione nel nostro paese sia colpita da questa penalità; in altri termini, se il retroterra migratorio amplifichi alcuni noti fattori di fragilità tra i bambini.

Gli effetti dell’età alla scuola primaria

Nel nostro lavoro ci siamo concentrati sugli “age effects”, cioè gli effetti dell’età nei primi anni della scuola primaria. Come i genitori sanno bene, in età infantile i figli cambiano e crescono anche da un giorno all’altro, e pochi mesi di differenza si traducono in disparità importanti nella maturità fisica, cognitiva ed emotiva.

Il vantaggio derivante dalla maggiore maturità è detto “effetto dell’età assoluta”. Tuttavia, a pesare di più è l’età relativa, ovvero il confronto con i compagni di classe: i bambini più giovani si sentono spesso meno capaci e maturi, con effetti negativi sull’autostima e sul rendimento. Il meccanismo, molto studiato in letteratura, è noto come “effetto dell’età relativa”.

Gli “age effects” sono un elemento di fragilità perché legano il successo scolastico a un fattore puramente anagrafico: i bambini arrivati primi alla lotteria della nascita ottengono risultati migliori. È ampiamente documentato che non si esauriscono nei primi anni: se non corretti, tendono ad accumularsi e a influenzare anche la vita adulta.

Date le modalità di iscrizione a scuola, in Italia la differenza di età tra i bambini più grandi e più piccoli della stessa classe può arrivare a 14 mesi: è infatti possibile anticipare l’iscrizione a cinque anni, una prassi ampiamente diffusa.

La figura 1 mostra che la propensione ad anticipare l’iscrizione varia tra regioni, ma non in modo sistematico tra nativi e seconda generazione. Le famiglie di seconda generazione non sembrano quindi adottare comportamenti diversi da quelle autoctone e questo rafforza la validità della nostra analisi.

Infatti, in altri paesi, come gli Stati Uniti, esistono forti divergenze nei comportamenti di iscrizione scolastica tra gruppi sociali diversi. In Italia, invece, le regole di accesso e l’offerta pubblica contribuiscono a mantenere una certa uniformità, che rende più solido il confronto.

Figura 1 – Percentuale di bambini che anticipano l’ingresso alla scuola primaria per regione, distinti tra nativi e seconda generazione

Come evitare il doppio svantaggio

Possiamo qui tralasciare gli effetti dell’età assoluta e soffermarci su quelli dell’età relativa, che risultano preponderanti. In particolare, mostriamo che l’effetto dell’età relativa è penalizzante per tutti, ma ancora di più per i bambini con retroterra migratorio. A parità di età e condizioni sociali, in una classe il rendimento dei bambini di seconda generazione relativamente più giovani risulta inferiore del 3,3 per cento in italiano e del 3,4 per cento in matematica rispetto ai nativi, segnalando chiaramente il doppio svantaggio.

Un risultato aggiuntivo riguarda le differenze di genere. Le bambine, come atteso, tendono a ottenere risultati migliori in italiano e leggermente peggiori in matematica rispetto ai maschi. Ma anche loro non sono immuni dal doppio svantaggio: se sono figlie di immigrati e nate nella seconda metà dell’anno, subiscono penalizzazioni significative rispetto alle bambine native. Le politiche scolastiche dovrebbero dunque considerare anche queste intersezioni tra genere, età e origine familiare.

Una buona notizia arriva però da un gruppo specifico: i bambini che hanno frequentato il nido. Per loro, il doppio svantaggio si attenua fino a scomparire. È una conferma ulteriore di quanto sostenuto dal premio Nobel James Heckman: gli investimenti nei primissimi anni di vita sono i più efficaci. Ampliare l’accesso agli asili nido, come previsto dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, è quindi una potente leva per favorire l’inclusione.

Leggi anche:  Un Patto per respingere l’immigrazione povera

In particolare, l’analisi mostra che la frequenza del nido è fondamentale soprattutto per quanto riguarda la padronanza della lingua italiana. Il risultato rafforza l’idea che le politiche universali – come l’espansione dei servizi educativi per la prima infanzia – possano avere effetti importanti in termini di equità.

In definitiva, bilanciare meglio la composizione per età delle classi e offrire un supporto mirato ai più piccoli non è solo una misura di equità educativa, è anche una strategia di integrazione. Trascurare l’effetto combinato di più svantaggi rischia invece di alimentare diseguaglianze che si trascinano nel tempo.

Anche le famiglie possono giocare un ruolo importante. La tendenza ad anticipare l’iscrizione, molto diffusa soprattutto nel Mezzogiorno, nasce spesso da buone intenzioni, ma può avere effetti controproducenti: sarebbe forse necessaria una maggiore consapevolezza delle problematiche legate all’età relativa. Rinviare di un anno, quando possibile, potrebbe rivelarsi un investimento importante per il percorso scolastico.

In sintesi, il nostro studio conferma il ruolo cruciale della scuola nel contrastare le disuguaglianze e favorire l’inclusione. Ma perché ciò avvenga davvero, è necessario riconoscere che non tutti i bambini partono dallo stesso punto e che l’intersezione tra età, genere e origine familiare produce divari che richiedono risposte mirate. È una sfida per la scuola italiana, ma anche un’opportunità per costruire un’Italia più giusta, aperta e, finalmente, moderna.