La memoria della Resistenza continua a essere infangata dal revisionismo (facta.news)

di Leonardo Bianchi

Sulla Resistenza e sulla lotta di Liberazione 
dal nazifascismo circolano ancora oggi molte 
falsificazioni: 

abbiamo analizzato quelle più diffuse

Ogni 25 aprile si commemora la Liberazione d’Italia dall’occupazione nazifascista, avvenuta nel 1945. Si tratta di una data fondamentale nella storia del Paese, sulla quale però il giudizio non è affatto condiviso.

Anzi: a distanza di svariati decenni, sulla Resistenza circolano ancora radicati pregiudizi, ricostruzioni parziali, teorie infondate, nonché vere e proprie bufale. Esiste insomma una sorta di versione alternativa della Liberazione, che punta a sminuire il suo valore e negarne la sua legittimità storica.

Questa versione è spesso rilanciata da esponenti dell’attuale governo e della maggioranza che lo sostiene, i quali in precedenza si sono anche vantati di non voler festeggiare la ricorrenza.

L’offensiva revisionista sulla Resistenza parte comunque da lontano. È iniziata già nel Dopoguerra, è proseguita con intensità variabile nei decenni successivi, ed è esplosa nel primo decennio dei Duemila grazie al grande successo editoriale di alcuni libri divulgativi – e pieni di errori storici – come Il sangue dei vinti di Giampaolo Pansa.

Il risultato è una memoria della Resistenza sostanzialmente «drogata e deformata», come l’ha definita la storia Chiara Colombini, autrice di diversi libri sul tema – tra cui il saggio “Anche i partigiani però…, che si occupa di smontare le falsificazioni sulla Liberazione. Partendo proprio dal suo lavoro, abbiamo analizzato quelle più diffuse.

“I partigiani erano tutti comunisti e volevano instaurare un’altra dittatura”

Uno dei luoghi comuni più gettonati sui partigiani è che fossero tutti comunisti (o comunque controllati dai comunisti), e che il vero obiettivo della guerra partigiana contro il nazifascismo fosse l’instaurazione di un totalitarismo di segno opposto.

Come spiega Colombini nel libro, la Resistenza non va considerata come un «blocco compatto». Sin dall’inizio, il movimento partigiano ha raccolto formazioni, gruppi e individui molto diversi tra loro. Il 50 per cento dei combattenti era delle Brigate Garibaldi, legate al Partito comunista italiano (PCI); il 20 di Giustizia e Libertà, collegate al Partito d’Azione; e il restante delle Formazioni Autonome (di ispirazione militare e monarchica), delle Matteotti (Partito Socialista) e delle brigate cattoliche.

A rendere ancora meno monolitico il movimento partigiano c’è poi il fatto, scrive Colombini, che «non tutti i combattenti di una formazione legata a un partito ne sono per ciò stesso membri o militanti». Spesso, infatti, chi aderiva a una brigata lo faceva per amicizia, rapporti di parentela, appartenenza territoriale o altri motivi personali.

Detto ciò, c’erano ovviamente anche dei militanti comunisti. Una parte dei partigiani delle Garibaldi, nonché di altre formazioni d’ispirazione comunista non legate al PCI, effettivamente combatteva anche una «guerra di classe» oltre alla «guerra di liberazione», nella convinzione che l’abbattimento del fascismo fosse il primo passo per arrivare alla rivoluzione socialista.

Ma di fatto, dall’aprile del 1944 – ossia dopo il ritorno di Togliatti in Italia dall’Unione Sovietica, al termine di un esilio durato vent’anni – i vertici del PCI avevano adottato una strategia politica diversa: con la cosiddetta «svolta di Salerno», infatti, si erano alleati con le altre forze antifasciste e avevano messo davanti a tutto la guerra di liberazione nazionale. A riprova che l’obiettivo primario della Resistenza è sempre stato la sconfitta dei nazifascisti e la fine di una guerra che aveva devastato l’Italia.

“I partigiani erano tutti ladri”

Quando non sono bollati come pericolosi sovversivi comunisti, i partigiani sono descritti dalla vulgata revisionista come delinquenti che rubavano agli onesti cittadini e taglieggiavano i contadini (da qui deriva infatti l’epiteto di «rubagalline»).

Chiara Colombini sottolinea un evidente paradosso di questa accusa: un movimento di lotta armata clandestino non può sopravvivere senza il sostegno della popolazione, specialmente in campagna. Ne erano ovviamente consapevoli i vertici del Comitato di liberazione nazionale (CLN), che facevano di tutto per preservare un buon rapporto con i civili.

È proprio per questo che non c’era la minima tolleranza nei confronti dei partigiani che, sfruttando il caos della guerra e dell’occupazione, compivano furti o atti di prevaricazione. I provvedimenti adottati erano severissimi, e arrivavano fino alla fucilazione.

E comunque – ribadisce la storica – in cima alla scala dell’avversione della popolazione c’erano nazisti e fascisti, percepiti come «l’ultimo ostacolo prima di poter raggiungere la pace». Non le formazioni partigiane, dunque, che «più o meno di buon grado» erano sostenute dalla «popolazione delle campagne».

“I partigiani erano tutti assassini”

Un’altra accusa molto diffusa riguarda l’uso della violenza: i tedeschi e i fascisti sono stati brutali, certo, ma pure i partigiani non sono stati da meno. Di conseguenza, vanno messi sullo stesso piano.

La premessa fondamentale, scrive Colombini, è che la violenza era la condizione di base della «guerra totale» scatenata dall’occupante nazifascista. I partigiani non l’avevano creata; la «accettano come mezzo perché già esiste».

Nonostante questa situazione estrema, la Resistenza cercava comunque di darsi delle regole per non cadere nell’arbitrio. In una circolare dell’agosto del 1944, ad esempio, il Comando militare unico per l’Emilia-Romagna intimava di evitare «crudeltà inutili» perché «combattiamo una guerra di liberazione dal brutale, barbaro tedesco e dalla dittatura fascista: non degradiamoci mai al livello del nemico».

Con la proclamazione dell’insurrezione generale nella primavera del 1945, tuttavia, gli argini non avevano retto. Tra il 20 aprile e il 10 maggio si era infatti aperta la fase della «violenza insurrezionale»: insieme alla gioia per la fine dell’incubo bellico, era esplosa una rabbia popolare che non era possibile «arrestare a comando».

La violenza era direttamente proporzionale alla durezza dell’occupazione nazifascista. I luoghi in cui avvenivano le esecuzioni sommarie dei fascisti ricalcavano la mappa degli eccidi di civili o partigiani. L’esposizione dei cadaveri di Benito Mussolini, Claretta Petacci e i gerarchi fascisti a Piazzale Loreto, a Milano – dov’erano stati lasciati i corpi di 15 antifascisti fucilati nell’agosto del 1944 – è stata la rappresentazione più visibile di questa logica.

Strascichi residuali di violenza si erano ancora consumati tra l’estate del 1945 e quella del 1946, in un contesto ancora molto difficile e carico di tensione. A destare scalpore furono alcune azioni di matrice comunista, soprattutto quelle legate al «triangolo rosso» in Emilia-Romagna e alla «volante rossa» nel milanese. Si trattava però di iniziative di frange molto limitate del movimento partigiano, sostiene Colombini, che per la stragrande maggioranza aveva ormai abbandonato la lotta armata.

“La Resistenza non è servita a niente sul piano militare”

Un luogo comune molto diffuso è che la Resistenza sia stata totalmente irrilevante sul piano militare, soprattutto rispetto all’intervento degli Alleati.

In realtà, la guerra partigiana ha avuto eccome una valenza militare. Chiaramente, i partigiani non potevano competere con l’esercito regolare nazista, che aveva messo a ferro e fuoco l’intera Europa. Ma del resto, puntualizza Colombini, il suo scopo principale non era quello: era «molestare in continuazione» i tedeschi e i collaborazionisti fascisti, «renderli malsicuri», ostacolare «i loro collegamenti e rifornimenti», e sottrarre risorse altrimenti destinate al conflitto principale con gli Alleati.

La lotta partigiana aveva ripercussione importanti anche sotto l’aspetto psicologico, che è fondamentale in ogni guerra. L’azione delle brigate, infatti, impediva ai nazisti di «sentirsi padroni indisturbati nel territorio che occupano». Non a caso, il comandante nazista Albert Kesserling giudicava una «peste» le formazioni partigiane, e ordinava di colpirle senza pietà. E altrettanto non a caso, gli Alleati hanno attivamente sostenuto la Resistenza in vari modi, essendo consapevoli della sua importanza strategica e militare.

“I partigiani facevano attentati contro «bande musicali di semi-pensionati»”

All’interno del più ampio filone delle falsificazioni sulla violenza partigiana spicca quella sull’attacco in via Rasella a Roma, commesso il 23 marzo del 1944 dai partigiani dei Gruppi d’Azione Patriottica (GAP) delle Brigate Garibaldi.

Quel giorno venne infatti colpita una colonna militare tedesca di circa 150 uomini in transito su quella via. Nell’azione vennero uccisi circa 33 militari del Polizeiregiment “Bozen”, un reparto creato in Alto Adige nell’autunno 1943 e impiegato nella Roma occupata con compiti di guardia e sorveglianza.

Secondo la mitologia neofascista e revisionista, tuttavia, quell’azione avrebbe colpito dei soldati vecchi (in realtà il più anziano ne aveva 43, mentre il più giovane 27) e quasi disarmati. Il 31 marzo del 2023, intervenendo in un podcast della testata Libero, il presidente del Senato Ignazio La Russa aveva addirittura parlato di una «banda musicale di semi-pensionati».

Come avevano ricostruito i colleghi di Pagella Politica consultando diversi storici, si tratta di versioni destituite di ogni fondamento. Il loro obiettivo è quello di descrivere l’attentato di via Rasella come un qualcosa di immorale e sconsiderato, che avrebbe direttamente causato l’eccidio delle Fosse Ardeatine.

“I partigiani hanno causato le stragi nazifasciste contro i civili”

Ed eccoci arrivati all’ultima tesi revisionista di questo articolo: quella che addossa la colpa delle stragi nazifasciste di civili ai partigiani, che in quest’ottica sarebbero stati dei sanguinari terroristi ante-litteram.

Questa teoria è particolarmente insidiosa perché elimina del tutto il contesto in cui sono maturate certe azioni partigiane. Come ha rilevato l’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, nei venti mesi dell’occupazione i nazifascisti avevano scatenato una «violenza costante e diffusa» in tutto il territorio, con una media di 40 morti e oltre nove eccidi al giorno.

I partigiani, annota Colombini, «si inseriscono in una spirale di violenza e possono alimentarla, ma non la creano» dal nulla – come invece afferma la letteratura revisionista. La quale, per l’appunto, sostiene che l’attacco di via Rasella ha causato la rappresaglia delle Fosse Ardeatine, in cui i nazisti fucilarono 335 prigionieri prelevati dalle carceri romane di Regina Coeli e di via Tasso. In pratica, la proporzione era di dieci italiani per ogni soldato nazista ucciso.

Sin da subito erano circolate versioni infamanti: i partigiani potevano consegnarsi, come avevano richiesto i nazisti, ed evitare la mattanza. Si sono invece nascosti per vigliaccheria, ben sapendo a cosa sarebbero andati incontro i prigionieri.

In realtà – come ha ricostruito l’accademico Alessandro Portelli nel saggio L’ordine è già stato eseguito – quella richiesta non è mai esistita. E più in generale, la strage è stata una scelta deliberata dei nazisti, mentre la proporzione di 1 a 10 è stata del tutto arbitraria: prima di allora non era mai stata applicata.

Addossare ai partigiani la responsabilità delle stragi nazifasciste è pertanto l’accusa più odiosa e velenosa, poiché scredita l’intera Resistenza e la squalifica al rango di un’impresa criminale, irresponsabile e controproducente.

Foto di copertina via Wikimedia Commons/pubblico dominio.

“Io, iraniano dissidente del regime accerchiato e minacciato dai pro-Pal” (ilriformista.it)

di Ashkan Rostami

"Brigata invitata a lasciare corteo per 
evitare disordini"

Alta tensione al corteo di Parma: intimidazioni e insulti contro la Brigata ebraica

Il corteo del 25 aprile a Parma, iniziato intorno alle 10 da Piazzale Santa Croce, si è svolto sotto gravi tensioni e intimidazioni nei confronti della Brigata ebraica.

Nonostante gli accordi presi con le istituzioni e le forze dell’ordine, che prevedevano la sua collocazione tra le delegazioni ufficiali e le rappresentanze locali, la Brigata è stata immediatamente presa di mira al momento dell’apertura del proprio striscione con lo stemma storico.

Insulti, minacce e slogan ostili

Appena il simbolo è stato mostrato, un gruppo di manifestanti con bandiere palestinesi, simboli dei partiti comunisti e di Potere al Popolo ha accerchiato la Brigata, iniziando a lanciare insulti, minacce e slogan ostili. Dopo circa 15 minuti di tensione, le forze dell’ordine hanno chiesto alla Brigata ebraica di chiudere lo striscione per ragioni di ordine pubblico. Per senso di responsabilità, la Brigata ha accettato, pur continuando a subire provocazioni lungo il percorso.

A metà corteo è stato fatto un nuovo tentativo di aprire lo striscione, ma è scattata un’altra aggressione verbale e fisica da parte di gruppi dell’estrema sinistra, movimenti sociali e militanti pro-palestinesi. Di fronte all’impossibilità di manifestare pacificamente con il proprio simbolo, la Brigata ha proseguito solo con bandiere italiane ed europee.

“Brigata invitata a lasciare corteo per evitare disordini”

Avvicinandosi a Piazza Garibaldi, la situazione è ulteriormente degenerata: la Brigata è stata nuovamente accerchiata e minacciata. Alla fine, su richiesta delle forze dell’ordine, che hanno valutato insostenibile il livello di aggressività, è stato chiesto al gruppo di lasciare il corteo per evitare ulteriori disordini.

Una decisione accettata con amarezza. Va sottolineato che tra i contestatori erano presenti movimenti sociali di estrema sinistra, rappresentanti di Potere al Popolo, associazioni comuniste, la comunità palestinese di Parma e anche alcuni noti simpatizzanti del regime iraniano.

Sono un dissidente iraniano, e ho avuto l’idea di portare la Brigata ebraica a Parma in collaborazione con la comunità iraniana locale, Associazione Setteottobre, Associazione parmense per Israele, Comunità ebraica di Parma e studenti israeliani di Parma. L’intento era testimoniare il nostro impegno per la libertà e contro ogni totalitarismo, ma siamo stati accolti con odio e intolleranza. Una grave ferita ai valori della Resistenza.

“Io, iraniano dissidente del regime accerchiato e minacciato dai pro-Pal”

100 assolti su 169: il flop di Gratteri rischia di costare 5 milioni per ingiuste detenzioni (ilfoglio.it)

di Ermes Antonucci

Le bufale del pm

Il pm attacca Il Foglio sulle spese per ingiuste detenzioni. Ma i dati confermano il disastro di Catanzaro.

Emblematico il flop dell’indagine “Stige”. Tra gli assolti l’imprenditore Francesco Zito: “I carabinieri del Ros vennero ad arrestarmi alle 3 di notte con il passamontagna addosso”

“L’8 gennaio 2018, alle 3 di notte, i carabinieri del Ros si presentarono a casa mia con il passamontagna addosso per arrestarmi. Venni trasferito nel carcere di Paola, dove trascorsi 26 giorni. Poi altri 152 giorni ai domiciliari, con le accuse infamanti di essere colluso con la ‘ndrangheta. Accuse dalle quali sono stato assolto, ma per una persona onesta è devastante ritrovarsi in una situazione del genere”.

A parlare, intervistato dal Foglio, è Francesco Zito, imprenditore vinicolo calabrese, coinvolto nella maxi operazione “Stige” condotta nel 2018 dall’allora capo della procura di Catanzaro, Nicola Gratteri. Lo scorso ottobre Zito è stato indennizzato per l’ingiusta detenzione con 47 mila euro. Una storia emblematica che smentisce gli attacchi lanciati nei giorni scorsi da Gratteri nei confronti di questo giornale.

Intervenendo a “DìMartedì” su La7, il procuratore di Napoli Nicola Gratteri ha accusato Il Foglio di aver “riportato dati totalmente falsi” sul record di indennizzi per ingiusta detenzione versati in Calabria dal 2018 al 2024 (78 milioni di euro su 220 milioni, il 35 per cento del totale), aggiungendo che “a Catanzaro le ingiuste detenzioni sono al di sotto della media nazionale” e che “non c’è una sola ingiusta detenzione attribuibile a Nicola Gratteri”. Tre bufale in una per il pm che dal 2016 al 2023 ha guidato la procura di Catanzaro: i dati sono stati estratti da una relazione pubblica predisposta dal ministero della Giustizia, che consegna alla Calabria il triste record di indennizzi per ingiusta detenzione negli ultimi sette anni; la spesa nel distretto di Catanzaro è di gran lunga al di sopra della media nazionale (addirittura il quadruplo: 4.274.784 euro nel 2024, contro la media di 927 mila euro); tra i risarciti ci sono anche le vittime dei frequenti maxi arresti compiuti da Gratteri nel corso degli anni. Fra queste, appunto, anche Francesco Zito.

L’8 gennaio 2018 Francesco Zito venne arrestato, insieme al fratello Valentino, su richiesta della procura di Catanzaro, all’epoca guidata da Gratteri, nell’ambito della maxi operazione “Stige”, che portò a un totale di 169 arresti.

Nella tradizionale conferenza stampa Gratteri definì l’indagine “la più grande operazione fatta negli ultimi ventitré anni”, proseguendo: “E’ un’indagine da portare nelle scuole di polizia giudiziaria e in quella della magistratura anche perché riguarda soprattutto la parte economica e con la ‘ndrangheta che ha messo i suoi uomini direttamente nella gestione del potere”.

Al centro delle indagini le attività criminali della cosca Farao-Marincola, una delle più potenti della Calabria con ramificazioni anche nel nord e centro Italia. Ma gli inquirenti si spinsero ben oltre, arrivando a ipotizzare un vasto coinvolgimento della criminalità organizzata non solo nel settore imprenditoriale, ma anche e soprattutto nella sfera politica.

Negli anni successivi proprio la parte centrale dell’indagine, quella relativa al coinvolgimento della ‘ndrangheta nell’economia e nella politica, è crollata. Tra rito abbreviato e rito ordinario circa 100 imputati su 169 sono stati assolti. Tra questi, numerosi amministratori locali e imprenditori accusati di essersi messi al servizio dei clan mafiosi.

Francesco e Valentino Zito vennero indagati per associazione mafiosa, con l’accusa di aver venduto al clan mafioso il vino che poi era stato imposto a diversi ristoranti in Germania con l’intimidazione. I due imprenditori, però, non potevano sapere quale utilizzo sarebbe stato fatto del loro vino.

Per questo Francesco Zito – assistito dagli avvocati Enzo Ioppoli e Francesco Verri – è stato assolto in via definitiva, con la formula “perché il fatto non sussiste”. Il fratello Valentino, che ha scelto il rito ordinario, è stato assolto in appello e ora attende il giudizio di Cassazione. 

Intanto, dopo l’assoluzione Francesco Zito ha chiesto e ottenuto lo scorso ottobre un indennizzo di 47.635 euro. La Corte d’appello di Catanzaro ha sottolineato che l’accusa si è rivelata “sfornita di un adeguato supporto probatorio “e “ab origine delle condizioni di applicabilità previste dall’art. 273 cpp” (i gravi indizi di colpevolezza richiesti per l’adozione di una misura cautelare personale). I giudici hanno inoltre quantificato l’indennizzo tenendo conto dei danni subìti dall’azienda agricola Zito dal clamore mediatico delle accuse giudiziarie mosse dalla procura di Catanzaro e poi rivelatesi infondate.

Insomma, a conferma di quanto scritto da questo giornale, le somme spese dallo stato per indennizzare le ingiuste detenzioni nel distretto di Catanzaro riguardano anche le maxi operazioni portate avanti da Gratteri con decine, se non centinaia di arresti, che molto spesso poi si sono rivelati ingiusti. Solo l’inchiesta “Stige” rischia di trasformarsi in un salasso.

“Nel processo ci sono state circa 100 assoluzioni su 169 arresti, molte definitive. Visto che a Zito sono stati riconosciuti 47 mila euro, c’è il rischio che lo stato paghi agli assolti quasi 5 milioni di euro”, nota l’avvocato Verri. Più della cifra pagata dalla Corte d’appello di Catanzaro nel solo 2024.

manette

Traghettopoli, viaggi gratis anche per Beppe Grillo e il figlio Ciro (genova24.it)

L'inchiesta

I loro nomi rientrano nel lunghissimo elenco dei presunti beneficiari di biglietti gratuiti in mano alla procura dopo le indagini delle Fiamme Gialle

Un “meccanismo corruttivo impressionante”, che coinvolgeva, oltre a ufficiali della Capitaneria “strategici” per le compagnie, anche nomi come quello di Beppe Grillo. Anche il fondatore del Movimento 5 Stelle è finito nell’inchiesta soprannominata “Traghettopoli” sui biglietti gratuiti per i traghetti, insieme con il figlio Ciro e gli altri ragazzi imputati nel processo per il presunto stupro di una studentessa italo norvegese.

Né Grillo né il figlio sono indagati, è bene sottolinearlo, ma i loro nomi rientrano nel lunghissimo elenco dei presunti beneficiari di biglietti gratuiti in mano alla procura dopo le indagini delle Fiamme Gialle.

Secondo gli inquirenti, coordinati dal pm Walter Cotugno, sarebbero stati quasi 34mila i biglietti regalati dalle compagnie del gruppo Onorato dal 2014 al 2019. Achille Onorato, amministratore delegato della compagnia di navigazione, è anche lui indagato e mercoledì davanti al giudice per le indagini preliminari si è avvalso della facoltà di non rispondere.

Giovedì mattina invece si sono presentati davanti alla giudice Silvia Carpanini i direttori di macchina Alessio Ursomanno, Raffaele Del Gatto e Giovanni Ferrandino. Per loro il pm Walter Cotugno ha chiesto l’interdittiva, come per altri otto indagati (sono una quarantina in tutto), mentre per due ha chiesto gli arresti domiciliari. La giudice deciderà se accogliere o meno la richiesta al temine degli interrogatori preventivi.

L’inchiesta è nata da un primo filone che si concentrava sui controlli tecnici sulle navi. Secondo la procura alcuni traghetti della compagnia non erano in regola con le norme ambientali internazionali, e sarebbero stati manomessi o comunque sarebbero stati utilizzati pezzi non originali per alcuni componenti dei motori e dei generatori.

Da quel primo filone dell’inchiesta, che ha portato anche al sequestro di tre traghetti, ne è nato un secondo che coinvolge una quarantina di persone, tra cui ufficiali della Capitaneria, magistrati, funzionari delle prefetture e membri delle forze dell’ordine.

Secondo la procura avrebbero ottenuto biglietti gratis in cambio di un trattamento di favore.