LIBERAZIONE? DALL’IPOCRISIA (mowmag.com)

di Riccardo Canaletti

Ma la sinistra che impazzisce per il 25 aprile 
lutto nazionale voluto da Meloni, non dice 
niente sui Giovani Palestinesi che vogliono la 
guerriglia contro la Brigata Ebraica (che combatté 
davvero il fascismo)?
La sinistra tiene l’attenzione sul 25 aprile (festa italiana), che rischia di essere trascurata per via del lutto nazionale per Papa Francesco (capo di Stato vaticano). Il problema?
Mentre contro il governo Meloni sono pronti – giustamente – a farsi sentire, con i Giovani Palestinesi e gli antisionisti che vorrebbero la guerriglia contro la Brigata Ebraica (e fanno negazionismo sulla Liberazione d’Italia) se ne stanno zitti e quieti. Ma la Liberazione va difesa solo dai governi di destra o anche dai movimenti radicali filoislamici?

Dal celebrare con sobrietà, l’annuncio è di martedì, si è passati ora – pur garantendo che non si vuole vietare nulla – al non celebrare quasi per niente la Festa della Liberazione. 

A dirlo, in un’intervista, con altre parole, è il ministro della Protezione civile Nello Musumeci: “Ci auguriamo che, come a volte accade nelle manifestazioni di strada, non ci siano degenerazioni, scontri, toni violenti. Lo speriamo sempre, ma in questo caso c’è anche una forma di rispetto che si dovrebbe ai tantissimi pellegrini, fedeli, molti gli stranieri, che sono a Roma o che verranno per le varie manifestazioni del Giubileo — solo 120 mila ne sono previsti per quello dei giovani — e dei funerali del Pontefice.

Balli e canti scatenati si potrebbero evitare, ecco, mentre la salma è ancora non tumulata”.

Insomma, magari non siete credenti, magari credete di essere cittadini italiani (Stato laico) e non cittadini vaticani, ma vi sarà vietato comunque ballare. Solo a Roma? Mah, a questo punto diremmo ovunque. Bologna, ex Stato pontificio, dovrebbe passare un 25 aprile di silenzio, cosa più innaturale che altro. Giustamente la sinistra protesta.

Ci sarebbe molto da dire sul modo di intendere la laicità in Italia, dal momento che la stessa sinistra, per esempio, non protesta per le vacanze di Natale o di Pasqua (ma vorrebbe togliere i crocifissi dalle scuole). Forse il modo migliore di intendere la laicità sarebbe scordare i francesi, che son laici in un senso tanto radicale, ma soprattutto radicato, che non potremmo somigliargli neanche volendo.

La nostra storia, la nostra identità, costruita sui due filamenti a spirale della storia delle invasioni e della storia dell’unico grande Stato autoctono della Penisola, il Vaticano, meriterebbe altre riflessioni, più profonde di quelle che, in questi giorni, sono state gestite dai critici del governo e dai giornali filogovernativi (un ping pong di banalità, né più né meno). Tuttavia, che si critichi o si dimostri amore per questo 25 aprile, va da sé, è un atteggiamento sano.

Il 25 aprile dovrebbe portare a uno stato di attenzione, di eccitazione assoluta, di nervi a fior di pelle contro la repressione.

Dunque, anche la minima controversia non va banalizzata e si fa bene a discuterne.

La Brigata ebraica al 25 aprile di Milano(La Brigata Ebraica al 25 aprila del 2024 – Milano)

Il problema, però, è che questa attenzione non può essere selettiva. 

Perché non si dice nulla, per esempio, sui Giovani palestinesi, che da giorni fanno propaganda antisionista (si legga: antisemita) alimentando un possibile scontro contro la Brigata ebraica e pretendendo di guidare i cortei del 25 aprile, come segno presente della Resistenza partigiana? “Quella che con una bieca operazione di revisionismo storico viene celebrata come ‘Brigata ebraica’ era composta in realtà da assassini, dagli autori materiali della Nakba, che nel 1948 hanno portato avanti un’intensa operazione di pulizia etnica in Palestina commettendo stragi e distruggendo villaggi per fondare l’entità sionista coloniale” scrivono in un post.

Si dica che quegli “assassini” hanno sfondato la Linea Gotica ad aprile del 1945, o che combatterono sul fronte adriatico contro i tedeschi. O che aiutarono, a fine guerra, i superstiti dell’Olocausto. I Giovani palestinesi aggiungono: “Riteniamo inaccettabile che nel corteo antifascista trovino spazio anche figure e gruppi che rappresentano il sionismo, il colonialismo e la guerra”.

Poi: “Per noi la resistenza palestinese è l’erede e l’incarnazione più autentica dello spirito partigiano” (essendo giovani e palestinesi, o amici di giovani palestinesi, difficile ricordare, a favore dell’unità e dell’attualizzazione dello spirito della Resistenza, quella ucraina, che dura da tre anni, contro un regime che ha invaso arbitrariamente, iniziando una guerra – come la guerra, in Medio Oriente, l’ha iniziata Hamas – su territorio ucraino).

I Giovani palestinesi sono quelli che chiamano Israele “entità sionista”.

Dove abbiamo già letto queste parole? Sicuramente nel Manifesto del 1985 di Hezbollah, dove si promette l’annientamento di Israele. E poi nel documento diffuso da Hamas a pochi mesi dall’attacco del 7 ottobre per spiegare l’operazione Diluvio Al Aqsa. E nei discorsi di Saddam Hussein, antisemita convinto della veridicità dei Protocolli dei savi di Sion. Dire “entità sionista” serve a non dover neanche pronunciare il nome di Israele, di cui si nega ogni diritto a esistere.

L’idea è tornare ai fasti dell’Impero islamico. E per questo termini del genere fanno il paio con le parole pronunciate da Ahmadinejad il 27 ottobre del 2005, durante un convegno intitolato A World without Zionism: “Chi accetta l’esistenza di Israele firma la sconfitta del mondo islamico”. Pensiero fortemente condiviso, tra gli altri, da Osama bin Laden. Allora chiamiamo questa resistenza per quello che è: revanscismo ottomano. Davvero contro di esso la sinistra ormai non ha nulla da dire?

E siamo ancora qua (corriere.it)

di Massimo Gramellini

Il caffè

I ragazzi sanno poco del 25 Aprile, ma non è che gli adulti siano messi meglio: Conte, quando era premier, lo confuse con l’8 settembre.

C’è poi chi crede di saperlo, ma non lo sa. E chi lo sa, ma non ci crede. Provo a riassumerlo sobriamente (ci mancherebbe), così come me lo spiegò mio padre, che a diciott’anni aveva combattuto con i partigiani nelle Valli di Lanzo. Nell’ultima fase della Seconda guerra mondiale, l’Italia fu teatro di una guerra civile.

Alcuni italiani parteggiavano per chi ci aveva invaso, la Germania nazista, e altri per chi cercava di liberarci: gli Alleati. Ci furono episodi di ferocia e di eroismo da entrambe le parti, ma questa realtà, riscontrabile in ogni guerra civile, non può invalidare il quadro d’insieme: i fascisti stavano con le SS, i partigiani con i marines, e non era esattamente la stessa cosa.

Una parte dei partigiani — mica tutti, come vorrebbe far credere qualcuno — stava anche con i sovietici, ma fu chiaro fin quasi da subito che quella fazione non avrebbe mai preso il potere. Mentre, se il 25 Aprile avessero vinto gli italiani che stavano con le SS, forse avremmo avuto la Repubblica, ma il resto sicuramente no: la democrazia, la Costituzione, la libertà di poter parlar male di tutti, partigiani compresi.

Posso aggiungere, sempre sobriamente, qualcosa? Era uno spettacolo sentire mio padre pronunciare la parola Libertà. Per troppi, adesso, è retorica. Ma per lui, cresciuto nelle gabbie di una dittatura, aveva un gusto così irresistibile che pur di assaporarlo non esitò a mettere in gioco la sua vita. Buon ottantesimo 25 Aprile. A tutti.

Le mediche partigiane, chi erano e cosa hanno fatto (ilsole24ore.com)

di Ilaria Potenza

Durante la Resistenza italiana, tra il 1943 e 
il 1945, le donne hanno contribuito alla lotta 
contro il nazifascismo. 

Alcune lo fecero con le armi, altre nella rete logistica, molte nel supporto sanitario come mediche partigiane. La loro attività fu tanto fondamentale quanto poco documentata.

Renata Fabbri, Anna Malatesta, Luisa Cagni, Giovanna Righini, Pina Pantaleo e Gina Fabbri sono state tra le protagoniste di questo fronte silenzioso, esercitando la medicina in condizioni estreme, fuori da ogni protocollo istituzionale, spesso senza strumenti, in luoghi nascosti o improvvisati.

I loro nomi compaiono raramente nei libri di storia, nelle celebrazioni ufficiali, nei manuali scolastici. Eppure in un’epoca in cui la memoria si frammenta e si digitalizza, restituire voce a queste donne è un atto di giustizia storica.

Ritratti delle mediche partigiane

Renata Fabbri (1906–1976) è stata una chirurga con esperienza ospedaliera. Dopo l’8 settembre 1943 è entrata in contatto con una brigata partigiana dell’Italia settentrionale. Le sue competenze si sono rivelate decisive per creare una rete sanitaria stabile, che ha permesso ai combattenti di ricevere cure immediate senza dover abbandonare il territorio. In alcuni casi, è stata lei a occuparsi anche del trattamento di traumi psicologici. In una testimonianza raccolta da una nipote, si legge che “ai ragazzi bisognava cucire le ferite ma anche rimettere insieme i pensieri”. Fabbri, dopo la guerra, si è impegnata nell’assistenza psichiatrica ed è stata tra i primi medici a promuovere un approccio integrato alla salute mentale postbellica.

Anna Malatesta (1920–2008) si è laureata in medicina poco prima dell’inizio dell’occupazione tedesca. È entrata nella brigata Garibaldi e ha operato nella zona appenninica emiliana. La sua attività sanitaria ha incluso anche la gestione logistica di rifugi, l’approvvigionamento di farmaci e la formazione di personale non medico tra i partigiani, affinché potessero fornire assistenza anche in sua assenza. Diverse testimonianze hanno documentato la sua abilità nel realizzare interventi con mezzi di fortuna: compressori manuali, bisturi improvvisati, anestesie sommarie. Nel dopoguerra, è diventata dirigente in ambito sanitario pubblico e ha contribuito all’elaborazione dei primi protocolli di medicina d’emergenza in contesto civile.

Luisa Cagni (1914–2006) è stata medico di brigata in Toscana. La sua attività si è svolta soprattutto nella Val d’Elsa e nella zona del Chianti. La documentazione esistente — per lo più conservata in archivi locali — mostra che Cagni non si è limitata all’assistenza sanitaria: ha coordinato il trasporto clandestino di forniture mediche, ha organizzato i turni dei soccorritori e ha verificato le condizioni igieniche dei rifugi. In alcuni casi, secondo alcune testimonianze, ha anche eseguito operazioni chirurgiche in aree boschive. Dopo il 1945 ha rifiutato la partecipazione a eventi celebrativi e si è ritirata dalla vita pubblica.

Giovanna Righini (1920–2014) è stata una giovane medica attiva in Piemonte. Ha operato tra la Val Pellice e la Val di Susa, aree con un’intensa attività partigiana. Ha collaborato con un gruppo di medici militari disertori e insieme hanno allestito un presidio di assistenza. Ha utilizzato una bicicletta per muoversi da un punto all’altro, spesso trasportando garze, disinfettanti e siringhe. Dopo la guerra, si è specializzata in medicina preventiva e ha lavorato a lungo nella promozione della salute materno-infantile.

Pina Pantaleo (1917–2010) ha operato nel Piemonte meridionale. Dopo aver assistito alla distruzione dell’ospedale locale da parte delle truppe tedesche, ha scelto di unirsi a una brigata attiva tra le Langhe. La sua formazione in ginecologia l’ha resa una figura chiave anche per l’assistenza a donne partigiane e civili. Ha curato non solo i combattenti ma anche le madri, i bambini nascosti nei casolari, le vittime di violenze sessuali. Dopo la guerra, è diventata una figura autorevole della ginecologia italiana.

Gina Fabbri (1900–1974) si è unita alla Resistenza quando due dei suoi fratelli sono stati deportati. Il suo ruolo è stato centrale nella zona dell’Appennino tosco-emiliano. Ha coordinato una rete di cura informale che ha coinvolto infermiere volontarie, medici antifascisti e farmacisti clandestini. Dopo la guerra, ha partecipato alla redazione di un documento programmatico che ha anticipato i principi dell’universalità dell’assistenza sanitaria, molto simili a quelli che saranno alla base della legge 833 del 1978 (istituzione del Ssn).

Condannate all’oblio

La memoria delle mediche partigiane è ostacolata da una scarsa produzione documentale. La maggior parte di queste donne non lasciò diari o memorie pubblicate. Le testimonianze disponibili sono in genere frammentarie, affidate a racconti orali, lettere private, documenti interni al movimento partigiano o alle associazioni di reduci.

La narrazione della Resistenza si è inoltre consolidata attorno a figure maschili e a episodi militari. La centralità dell’azione armata, unita a una certa retorica eroica del combattente, ha lasciato poco spazio a forme di resistenza non militare, come quella sanitaria, e ancora meno se esercitata da donne.

Quella della Resistenza è anche la storia di cosa si è scelto di ricordare e cosa no. Le mediche partigiane non erano simboli comodi: professioniste, autonome, impegnate in ruoli ad alta responsabilità, talvolta critiche verso le gerarchie, difficilmente riconducibili a immagini stereotipate.

Recuperare le loro storie oggi non significa mitizzarle, ma rimettere a fuoco un pezzo dimenticato della nostra storia perché la loro azione sanitaria non è stata accessoria, ma strutturale alla sopravvivenza del movimento resistenziale. Occorre infatti restituirgli acora parte della sua complessità sociale e riconoscere che la lotta contro il fascismo è stata anche una lotta per la dignità della cura, per l’accesso alla salute, per il diritto di tutte e tutti a sopravvivere in un contesto di guerra.

A distanza di ottant’anni gli archivi sono ancora parziali, le fonti frammentarie. Tuttavia, un lavoro di raccolta sistematica e di analisi storica, al di fuori di logiche celebrative, è possibile. E necessario. Per completare il racconto della Resistenza.

E per comprendere fino in fondo il ruolo che le donne hanno avuto nella costruzione della democrazia italiana.

A Odessa, dove sentire che la pace è desiderabile suona come un allarme (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola Posta

Da Sarajevo al Vietnam, dalla Cecenia all’Ucraina, i posti di guerra sono di due generi: quelli da cui si va a bombardare e quelli in cui si viene bombardati

Odessa, 23 aprile. C’è un altro modo, il più concreto, di sapere da che parte si sta, e perché. Lunedì, per esempio, qui sono piovuti 26 droni, in vari punti della città, su case civili e sul porto. Ci sono stati vasti incendi. Tre feriti, almeno…

E’ durato qualche ora, a cominciare dalla sera, quando ragazze e ragazzi e famiglie erano in giro. Benché gli ucraini abbiano impiegato meglio i loro droni da qualche tempo, nessun odessita stava bombardando le case della Russia. Io stavo dalla parte mia e dei miei, quelli bersagliati. E perché ero lì? Ma proprio per questo.

Mi sono reinterrogato su me. Nel 1980 sono andato per la prima volta in una guerra, dopo che nella più orribile ero nato. L’Iraq arabo e sunnita di Saddam contro l’Iran persiano e sciita della appena fondata Repubblica islamica. In Iran c’era stato, dal 1978, un sommovimento popolare così enorme e inarrestabile, e con un tale protagonismo femminile, da eclissare i precedenti, salva forse la Rivoluzione culturale cinese, con la quale avrebbe condiviso la malora finale.

Allora la parola massa era ancora rispettata se non venerata, e per un quarto d’ora la rivoluzione iraniana sembrò promettere una imprevista liberazione. Saddam aggredì l’Iran in cui era rientrato dall’esilio l’ayatollah Khomeyni. Quella guerra micidiale di fanatismi durò ben otto anni. Feci la mia prima vasta conoscenza delle città appena bombardate, dei sacchi neri, dei moncherini.

C’erano stati precedenti, episodici, indiretti e soprattutto forieri di commozione: per la guerra d’Algeria, Alleg e “La tortura”, per la Spagna di Franco e della garrota, “Morire a Madrid”. Poi la vera rottura, per la mia generazione, il Vietnam in cui gli americani avevano preso il posto dei francesi sconfitti. Comunque, a distanza, la si guardi, in quella guerra gli americani bombardavano il Vietnam, i vietnamiti non bombardarono mai l’America. Era piuttosto chiaro.

La mia volta successiva venne molto dopo, nella ex Jugoslavia e specialmente nella Bosnia di Sarajevo. Là la nettezza delle posizioni, cioè delle postazioni, era esemplare. Sarajevo è in una conca circondata da colline e veri monti, adatta all’olimpiade invernale e all’assedio quadriennale. Sopra stava il lupo, di gran lunga più in basso l’agnello, benché riprovassero a raccontare la storia alla rovescia. Dall’alto, era un tiro a segno, di artiglieria, di cecchini.

Sportivo, anche: i visitatori come Eduard Limonov prendevano in prestito il fucile dello snajper e tiravano, per diletto, per scriverci su, e per vantarsene. Non sono mai stato sfiorato dalla leggenda di Limonov: tirava sui miei e su me. Era piuttosto chiaro.

Non un sarajevese aveva mai tirato un colpo su Belgrado. Finita la guerra guerreggiata – non che fosse venuta la pace, era finita la guerra, che tuttavia è moltissimo – consegnata Srebrenica alla parte che aveva compiuto il mattatoio e che continua a gloriarsene, il nazionalsocialismo serbista passò all’ulteriore ordine del giorno, in Kosovo. Qualcuno continuava – continua ancora – a riconoscervi e rimpiangervi l’antifascismo e il socialismo realizzato, come con l’Urss stalinista.

Allora andai in Cecenia, c’era una guerra feroce e inverosimile: l’impero russo contro un paese minuscolo come il Molise, con poco più di un milione di cittadini. E quella prima guerra la piccola Cecenia la vinse, e a perderla fu la Russia di El’cin. Si preparava l’avvento di Putin, e la sua ammirata tabula rasa. Non occorre dire che le forze russe bombardavano senza riserve Grozny e le città e i villaggi ceceni, mentre i ceceni, che pure compirono un paio di spericolate escursioni partigiane, poi terroriste, oltre confine, non bombardavano le città e i villaggi russi.

Sono stato in Israele e, troppo brevemente, a Gaza, durante la “guerra” del 2014. Lì c’era una maggiore reciprocità, e insieme un’enorme smisuratezza: la stessa che un giorno potrà rovesciarsi nel suo contrario.

Feci poi l’esperienza fisica e civile di un’altra doppia guerra, quella che la Turchia conduce senza tregua contro i curdie quella dei curdi iracheni e turchi, e degli yazidi, contro il Daesh, lo Stato islamico. La divisione del lavoro, fra chi bombarda e chi è bombardato, chi invade e chi è invaso, chi colpisce la casa d’altri e chi è colpito a casa propria, si ripeté tal quale, e si ripete.

Finalmente sono andato in Ucraina, all’inizio dell’invasione russa. Sapevo che il mondo, e quella parte di mondo specialmente, è tormentato, e ha conosciuto i torti più feroci e le sofferenze più irreparabili. Ma non poteva esserci dubbio su quel criterio ricorrente e così distrattamente tralasciato: le forze armate russe bombardavano gli ucraini a casa loro, gli ucraini non bombardavano i russi a casa loro. Così siamo tornati al punto di partenza, a Odessa lunedì sera – o stasera, o domani.

Il giornalismo non c’entra con tutto questo. Parlo delle persone, non dei giornalisti, o di altre professioni. Si può stare tutta la vita a casa propria, come Emilio Salgari, e scrivere, dire, fare un podcast o due. Oppure si può muoversi, e andare anche nei posti in guerra, per esempio se si senta che niente di ciò che è umano ci è estraneo. E che le città, i paesi, le persone, gli animali, possono esserci parenti, dei più cari.

I posti in guerra sono di due generi: quelli da cui si va a bombardare, come Francesco Totti, e quelli in cui si viene bombardati.

Sì, anche Dresda fu bombardata, e Nagasaki, e meglio sarebbe stato che no. Ma vi ricordate di chi aveva cominciato, come dicono i bambini, e con quali progetti. Conto di essere stato chiaro. E che l’eventualità che qualcuna, qualcuno, voglia argomentare che la pace è davvero desiderabile, e che la guerra è certo una brutta cosa, bruttissima, mi fa l’effetto di una sirena d’allarme nel punto in cui, col nastro adesivo sui vetri, finalmente riuscivo a prendere sonno.

(LaPresse)