Un arcivescovo scomunicato è diventato il punto di riferimento per la disinformazione contro papa Francesco (facta.news)

di Francesco Stati

Carlo Maria Viganò ha provato a distruggere la 
reputazione del Papa accusandolo di crimini che 
non ha mai commesso

Non tutti, nelle ore successive alla morte di papa Francesco, hanno usato parole gentili per ricordare il suo pontificato.

Tra i critici più aspri, uno su tutti si sta facendo davvero notare per la violenza delle sue accuse e per il discreto seguito che queste stanno ottenendo: l’arcivescovo Carlo Maria Viganò.

Già scomunicato nel 2024 per scisma – reato che nella Chiesa cattolica consiste nel rifiuto di sottomettersi al Papa – l’ex nunzio apostolico negli Stati Uniti il 21 aprile ha pubblicato un messaggio sul proprio profilo X che recita: «Il pontefice dovrà rendere conto dei crimini di cui si è macchiato», tra cui «l’aver usurpato il soglio di Pietro per distruggere la Chiesa Cattolica».

L’ultima, per ora, di una lunga serie di dichiarazioni critiche e accuse senza prove che Viganò ha rivolto a papa Francesco nel corso degli ultimi anni, una lista che include presunti abusi sessuali compiuti dal Papa su novizi gesuiti in Argentina, un presunto figlio segreto e una teoria del complotto per costringere il suo predecessore, papa Benedetto XVI, alle dimissioni.

I rapporti di Carlo Maria Viganò con la Chiesa

Nato nel 1941 a Varese, ordinato sacerdote nel 1968, Viganò ha avuto una lunga carriera nella diplomazia vaticana. È stato rappresentante papale in Nigeria, delegato alle rappresentanze pontificie e segretario del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, prima di essere nominato nunzio apostolico negli Stati Uniti nel 2011 da papa Benedetto XVI.

Il 4 luglio 2024, la Sala Stampa della Santa Sede ha annunciato la scomunica latae sententiae nei confronti di Carlo Maria Viganò. Il provvedimento è stato emesso dal Dicastero per la Dottrina della Fede, che ha rilevato nel comportamento dell’arcivescovo «il delitto di scisma», motivato dal «rifiuto di riconoscere e sottomettersi al Sommo Pontefice», nonché dalla «rottura della comunione con i membri della Chiesa a lui soggetti».

In quell’occasione, Viganò ha rifiutato di partecipare alla convocazione del Dicastero, definendo il processo canonico una «farsa» e affermando di sentirsi «onorato» di essere accusato di scisma. In più occasioni ha contestato la legittimità del Concilio Vaticano II, considerandolo il punto di svolta che avrebbe allontanato la Chiesa dalla sua tradizione originaria.

Viganò ha spesso sostenuto che il Concilio, convocato da papa Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959 e considerato il punto di svolta del cattolicesimo moderno, sia stato l’inizio di una deviazione dottrinale, dichiarando in una lettera del 2021 che «dovrà essere completamente rivisto o annullato». La posizione dell’ex nunzio apostolico è in contrasto con l’insegnamento del magistero pontificio, incluso quello di Benedetto XVI, che pur sostenendo una «ermeneutica della continuità», ha sempre riconosciuto il Concilio come parte integrante della tradizione.

Anche la Fraternità San Pio X – fondata da monsignor Marcel Lefebvre (a sua volta scomunicato da Papa Giovanni Paolo II nel 1988) e storicamente critica del Concilio – ha preso le distanze da Viganò, ritenendo eccessive alcune sue affermazioni in più occasioni.

Le false accuse e le teorie del complotto contro Bergoglio

Nel 2018 Viganò pubblicò una testimonianza in cui accusava papa Francesco di non aver sanzionato adeguatamente l’ex cardinale Theodore McCarrick, accusato di aver compiuto per lungo tempo abusi sessuali sia su adulti che su minori. Nel 2020, dopo una lunga indagine, il Vaticano pubblicò il “Rapporto McCarrick” che confutò tale tesi. Da quel momento, Viganò ha adottato posizioni sempre più critiche verso il pontefice e verso l’orientamento della Chiesa postconciliare.

Nel messaggio pubblicato dopo la morte di Francesco, Viganò ha sostenuto poi che Bergoglio dovrà «rispondere dei crimini di cui si è macchiato». Fra questi, l’«aver creato cardinali in modo invalido», insinuando l’ipotesi che il prossimo conclave possa essere oggetto di manipolazioni.

Secondo Viganò, inoltre, alcuni cardinali creati da Bergoglio sarebbero non validi a causa della presunta illegittimità del suo pontificato, derivante dalla rinuncia al soglio pontificio attuata da Benedetto XVI, suo predecessore.

Questa teoria infondata non solo non ha riscontri nei documenti ufficiali della Chiesa e non è condivisa da alcuna autorità ecclesiastica riconosciuta, ma perde fondamento anche in ragione della validità dottrinale delle “dimissioni” di Joseph Ratzinger, data da numerosi precedenti storici, ancorché molto remoti nel tempo.

Negli ultimi anni, Viganò ha elaborato una visione fortemente critica dell’attuale assetto ecclesiale, sostenendo l’esistenza di una “Chiesa parallela” – definita deep church – ispirata a ideologie «globaliste e moderniste», una teoria molto cara all’alt right americana (e che per certi versi richiama quel “deep state” a lungo chiamato in causa dai seguaci di QAnon). Ha anche ripetutamente avanzato l’ipotesi che la rinuncia di Benedetto XVI sia stata indotta da pressioni interne, senza però fornire prove concrete a sostegno di queste affermazioni.

Le sue posizioni hanno fin qui trovato una sponda in ambienti religiosi e mediatici prevalentemente statunitensi, tra cui siti come LifeSiteNewsChurch Militant e The Remnant, organizzazioni e siti web di stampo cattolico ultraconservatoreIn Italia, alcuni gruppi tradizionalisti e influencer della disinformazione, uno su tutti il filosofo Diego Fusaro, hanno rilanciato i suoi scritti e le sue tesi, ma molte delle sue ipotesi sono state respinte anche da ambienti conservatori più moderati.

Nelle ultime ore, quelle successive alla morte di papa Francesco, alcuni vecchi filmati pubblicati da Viganò sono tornati a circolare sui social media, ottenendo un’insperata viralità. Il più popolare tra questi accusa Bergoglio di essersi macchiato di alcuni delitti in Argentina e che proprio per questo motivo lo avrebbe spinto a non organizzare mai una visita ufficiale nel suo Paese.

I delitti di cui parla Viganò, come spiega lo stesso arcivescovo scomunicato nel filmato,  sono dei presunti abusi sessuali su giovani gesuiti. Viganò, inoltre, accusa il Papa di aver avuto un figlio, deceduto nel 2014 in circostanze misteriose e sepolto anni dopo nel cimitero del Vaticano dopo averlo privato dei denti.

Le teorie di Viganò si stanno rivelando molto pericolose e piuttosto pervasive, dal momento che si presenta come un “insider” e che per questo motivo gode di un discreto e affezionato seguito. Non solo presso l’ultradestra trumpiana, il suo abituale pubblico di riferimento, ma anche agli occhi di tutta una nuova audience desiderosa di archiviare l’esperienza di un pontificato, quello di Jorge Bergoglio, considerato eccessivamente progressista.

Il 23 aprile 2025, le tesi di Viganò sono state rilanciate anche dal quotidiano La Verità – che già nel 2018 aveva dato voce alle accuse di aver coperto le azioni di McCarrick – rivelando che queste entreranno nel conclave grazie a Blase Cupich, un cardinale molto vicino all’ex nunzio apostolico.

La festa della Liberazione, e i nuovi partigiani ucraini (linkiesta.it)

di

Bella Kyjiv

Per troppo tempo appropriazioni di parte, memorie selettive e imbarazzi politici hanno fatto della data fondativa della Repubblica un rituale stanco. Oggi, per onorare la Resistenza, servirebbe un “campo largo repubblicano” a sostegno di chi, 80 anni dopo, resiste contro un dittatore fascista

L’ottantesimo anniversario della Liberazione porta con sé il preventivabile carico di retorica, aumentata non solo dalla cifra tonda, ma anche dalla situazione politica interna e internazionale. Ma proprio queste dovrebbero interrogarci su quanto, oggi, la Liberazione sopravviva come mito fondante dell’Italia repubblicana, valore condiviso del suo sistema istituzionale e della sua identità culturale.

Il significato della Liberazione è messo sempre più in discussione. Una data divisiva, dicono alcuni. A questa obiezione si risponde solitamente che il 25 aprile è divisivo solo per coloro che si riconoscono negli sconfitti di questa data, cioè, il fascismo e la Repubblica di Salò. È vero; ma quest’obiezione non problematizza il processo con cui la data è diventata sempre meno un collante sociale della nostra collettività.

Le forze liberali e centriste hanno probabilmente la colpa di aver lasciato andare troppo facilmente la memoria del loro contributo alla Resistenza, rinunciando in parte a farne un valore attuale. In seguito, la fase berlusconiana, pur senza attacchi diretti all’importanza della Resistenza (anche prima della morte, nel 2023, Berlusconi la definì «una straordinaria pagina su cui si fonda la nostra Costituzione»), ha richiesto una prima messa in discussione del carattere collettivo della Liberazione, in virtù dell’istituzionalizzazione di Alleanza Nazionale, a cui hanno fatto da corredo negli anni diverse dichiarazioni che hanno sminuito i crimini del fascismo, alimentando la retorica di comodo per cui la Liberazione fosse prima di tutto quella dai tedeschi.

Anche la sinistra (post-)comunista ha contribuito a questo processo, cercando di presentarsi spesso come depositaria esclusiva dell’eredità della Resistenza, ponendosi così come interprete unica dei valori costituzionali, “contro” tutti gli altri (operazione, tra l’altro, in contraddizione con la svolta di Salerno di Togliatti).

Per farlo, si è spesso sminuito il ruolo di altre forze nella Resistenza, o si è questionato il reale antifascismo di altre culture (è il caso dei liberali, sempre schiacciati sul collaborazionista Giovanni Giolitti, quando pure hanno avuto i Piero Gobetti).

Spesso sono state proprio le celebrazioni della Liberazione a rendere evidente ciò. Nel 2006, ad esempio, Letizia Moratti accompagnò il padre, partigiano e deportato, al corteo del 25 aprile a Milano. Fu accolta da insulti, fischi e spintoni, dovendo poi abbandonare il corteo.

Da anni (molto prima del 2023) la partecipazione della brigata ebraica alle celebrazioni è criticata, al punto che a Milano spesso ha dovuto avere un servizio d’ordine apposito, mentre a Roma si è talvolta rinunciato a partecipare. Non serve chissà cosa per notare che questi episodi esprimono uno spirito contrario a quello unitario della Liberazione, e subordinano la verità storica della Resistenza alle divisioni politiche del momento.

Il risultato di queste spinte diverse, ma concordanti nell’effetto di indebolire la Liberazione come patrimonio collettivo, è una data troppo spesso sacrificata sul terreno dello scontro politico, e quindi alterata nella sua essenza. Persino le associazioni partigiane sono da tempo divise; e la principale, non più diretta da chi la Resistenza l’ha fatta, si occupa spesso più di attualità politica in maniera discutibile che di tramandare la memoria.

Ci si può chiedere se, almeno, la società italiana ha assorbito l’antifascismo nei suoi schemi culturali (“anticorpi”, come si dice). Di fronte a questa domanda, bisogna prendere atto che oggi il primo partito italiano è un partito che si riconosce proprio nella storia post-fascista, e infatti la sua leader, oggi presidente del Consiglio, non si è mai dichiarata antifascista (al di là del dibattito sulla possibilità di qualificare Fratelli d’Italia tout court come fascista, che è altra cosa).

Così come bisogna ammettere, di fronte a una dittatura che, come nel 1933, sulla base di una piattaforma politica reazionaria, imperialista e antidemocratica, viola la neutralità di altri Paesi e ne minaccia altri, i più comprensivi, per usare un eufemismo, si trovano proprio tra quelle forze politiche che per decenni hanno preteso di insegnare l’antifascismo e di essere visti come depositarie della memoria della Resistenza.

Di fronte a un dittatore che cerca in ogni modo di dimostrarsi il fascista che è, gli antifascisti di professione balbettano (e qualcuno applaude apertamente), parlano di pace e inorridiscono di fronte alla volontà di un popolo di resistere con le armi, dimostrando di aver capito poco della Resistenza, di cui pur si considerano sacerdoti.

Combattere il nazifascismo, e farlo con le armi, quelle irregolari dei partigiani o quelle degli Alleati, ha significato difendere l’identità europea, i suoi valori umanisti e universalisti. Sul piano internazionale, come in Italia, questa consapevolezza vacilla. Gli Usa di Trump sono ontologicamente differenti da quelli che, in nome della libertà europea, rinunciarono alla neutralità e sbarcarono in Normandia. Nel suo allentamento dei rapporti con l’Europa e nell’intesa con Vladimir Putin, la linea di Donald Trump è una sostanziale rottura dell’unità occidentale. Nelle sue idee reazionarie e populiste, è antioccidentale.

A ottant’anni dal 25 aprile, se davvero si vuole salvare l’eredità della Liberazione servirebbe un “campo largo repubblicano”, non per creare improbabili alleanze elettorali, ma per riconoscersi in una memoria tenuta viva, e in un orizzonte valoriale condiviso, che dia nuovi strumenti alle diverse culture politiche democratiche e antifasciste per distinguere chi sta al gioco democratico e chi no, e cosa vuol dire, sul piano politico e storico, tenere fede allo spirito del 25 aprile.

Altrimenti, tutto scadrà nella liturgia: la lettura in piazza delle lettere dei partigiani condannati a morte, il roboante comunicato Anpi, bella ciao cantata da sparuti gruppetti. E qualcuno, forse, preferirà così: almeno, stiamo tra noi, noi che abbiamo ragione.

Il referendum sul Jobs Act: una “cagata pazzesca”. Tante urla, poca sostanza e un gran rischio di farsi male da soli (ilfoglio.it)

Scontro ideologico sul lavoro: 

il referendum ignora dati e realtà, rischiando instabilità e danni economici senza offrire soluzioni concrete

Chiunque abbia un minimo di memoria politica ricorderà che il Jobs Act, nel 2015, fu introdotto come la grande rivoluzione del mercato del lavoro. Matteo Renzi, allora primo ministro con velleità rottamatrici, lo presentò come la riforma che avrebbe modernizzato l’occupazione in Italia, attirato investimenti e ridotto la precarietà.

Un decennio dopo, il dibattito è ancora acceso, ma in direzione opposta: c’è chi vorrebbe abrogarlo, cancellarlo, far finta che non sia mai esistito. Un referendum popolare – perché in Italia la politica non resiste alla tentazione di giocare con le urne come un bambino con i fiammiferi – si propone di demolire uno dei pilastri della legislazione lavorativa dell’ultimo decennio. Eppure, chi spinge per l’abolizione sembra ignorare un dettaglio non proprio secondario: il Jobs Act, per quanto imperfetto, è stato uno dei pochi tentativi seri di modernizzare il mercato del lavoro italiano.

Ma siccome siamo in Italia, tutto si trasforma in uno scontro ideologico tra guelfi e ghibellini, tra chi vede il Jobs Act come il male assoluto e chi lo considera un totem intoccabile. La verità, come spesso accade, è molto più sfumata. Sì, la riforma ha reso più facili i licenziamenti individuali per motivi economici, ma ha anche introdotto il contratto a tutele crescenti, che ha favorito la stabilizzazione di migliaia di lavoratori.

Ha dato impulso al lavoro subordinato dopo anni di abuso di contratti precari e ha portato a una crescita dei contratti a tempo indeterminato nei primi anni di applicazione. Certo, il contesto economico e gli incentivi fiscali hanno giocato un ruolo fondamentale, ma negare che il Jobs Act abbia avuto effetti positivi significa chiudere gli occhi davanti ai dati.

C’è poi l’assurdità di voler distruggere tutto senza nemmeno proporre un’alternativa credibile. Chi è a favore dell’abrogazione grida slogan sul ritorno all’articolo 18, dimenticando che il mondo del lavoro è cambiato, che le tutele di oggi devono adattarsi a una realtà fatta di gig economy, contratti flessibili e nuovi modelli produttivi. Pensare di affrontare il lavoro del futuro con strumenti del passato è come voler combattere le guerre moderne con spade e balestre.

E poi c’è il piccolo dettaglio della competitività. Il Jobs Act, nel bene e nel male, ha reso il mercato del lavoro italiano più simile a quello degli altri paesi europei, eliminando rigidità che scoraggiavano le assunzioni.

Tornare indietro significherebbe mandare un segnale devastante agli investitori: in Italia le regole cambiano a ogni cambio di vento politico. E questo, per un’economia che già fatica a crescere, sarebbe un colpo di grazia.

Quindi sì, il referendum contro il Jobs Act è una colossale “cagata pazzesca”, per dirla con Fantozzi. Un’operazione demagogica, priva di visione, che rischia di fare più danni di quanti ne prometta di risolvere. Perché il problema del lavoro in Italia non è il Jobs Act, ma la mancanza di una strategia di lungo periodo, di investimenti in formazione, di un sistema che premi la produttività anziché soffocarla nella burocrazia.

E su questi temi, guarda caso, il referendum non dice nulla.

(Immagine realizzata da ChatGPT)

Trump vuole un accordo con Putin anche senza l’Ucraina. Tocci racconta come (formiche.net)

di Francesco De Palo

“Un accordo con la Russia che prescinde 
dall’Ucraina necessariamente deve passare 
attraverso una colpa di Kyiv per un 
mancato accordo. 

Ciò porta ai sette punti, perché è evidente che queste condizioni sono state disegnate per “obbligare” l’Ucraina a dire di no”. Conversazione con la direttrice dell’Istituto Affari Internazionali

L’Ucraina ha respinto una bozza di piano americano composto da sette punti di merito, ovvero la rinuncia dell’Ucraina alla Crimea, la cessazione delle ostilità, la revoca delle sanzioni Usa alla Russia, il controllo americano sulla centrale nucleare di Zaporizhzhia, i negoziati diretti senza garanzie di sicurezza, la rinuncia alla Nato, il via libera a ingresso nell’Ue.

Secondo Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto Affari Internazionali di Roma, per comprendere il punto di caduta di proposte di pace, meeting saltati, annunci e tentativi di riallacciare le relazioni bilaterali è necessario concentrarsi su un altro punto: ovvero che “l’interesse di questa amministrazione è quello di raggiungere un accordo con la Russia che prescinde dall’Ucraina”.

Perché l’Ucraina ha respinto il piano Usa?

Secondo me alla base c’è una considerazione da fare: tutto questo è avvenuto dopo che gli Stati Uniti hanno dato indicazione del fatto che o la va o la spacca. Al netto del contenuto di questo piano appare abbastanza evidente che siamo alla vigilia di un disimpegno degli Stati Uniti da questo conflitto che, a prescindere da quelle che sono le motivazioni, non pare essere prossimo alla risoluzione. Fatta questa premessa, subentra una seconda considerazione.

Quale?

Ossia che gli Stati Uniti fanno questa marcia indietro dando la colpa a chi? È evidente che la dinamica, fino a 48 ore fa in cui essenzialmente c’erano state varie proposte per un cessate il fuoco, toccava il sì dell’Ucraina: quindi un passo indietro da parte degli Stati Uniti in quel contesto lì non poteva che risultare in una colpa di Mosca. A questo punto noi sappiamo che in realtà questa amministrazione americana è allineata strategicamente con Mosca e forse disinteressata ai contenuti di una pace. Il punto di fondo è che se c’è un interesse di questa amministrazione è quello di raggiungere un accordo con la Russia che prescinde dall’Ucraina.

Un accordo commerciale-bilaterale?

Un accordo con la Russia che prescinde dall’Ucraina necessariamente deve passare attraverso una colpa dell’Ucraina per un mancato accordo. Ciò porta ai sette punti, perché è evidente che queste condizioni sono state disegnate per “obbligare” l’Ucraina a dire di no. Si prenda il tema del riconoscimento formale dell’annessione della Crimea: è un criterio impossibile, peraltro non soltanto per l’Ucraina ma anche per tutti gli altri Paesi europei, anche per gli Stati Uniti, perché passerebbe l’idea che un’annessione con la forza sarebbe riconosciuta legalmente. Le condizioni impossibili proseguono con le non garanzie di sicurezza, oltre all’assenza di una prospettiva Nato che, aggiungo, non c’è mai realmente stata purtroppo. Per cui il tema del riconoscimento da un punto di vista formale la rende una condizione impossibile e il tema delle garanzie di sicurezza la rende una condizione sostanziale e impossibile da accettare. Tutto questo accrocco è disegnato per arrivare a un esito in cui non ci sarà un accordo e la responsabilità per il mancato accordo sarà dell’Ucraina. Questo è il punto di fondo, in modo tale che Washington e Mosca arrivino al loro accordo per una normalizzazione delle relazioni economiche e fare affari.

Quali scenari si aprono adesso?

Nella migliore delle ipotesi la guerra naturalmente continua e la difesa dell’Ucraina risiede sulle spalle esclusivamente degli europei. Nella peggiore delle ipotesi, magari perché le relazioni transatlantiche si potrebbero incrinare ulteriormente, potremmo ritrovarci ad avere un’America che per conto della Russia mette pressione sugli europei ad esempio attraverso sanzioni secondarie affinché abbandonino l’Ucraina. Quest’ultimo è lo scenario naturalmente più apocalittico ma non è da escludere.

È verosimile invece l’ipotesi circolata recentemente sulla divisione dell’Ucraina in tre?

Si tratta di un’idea nata dall’inviato Usa per l’Ucraina, Keith Kellogg, che considero il meno peggio: ma penso che in realtà le sue parole siano state un po’ travisate. Cioè io non credo che quello che lui intendesse forse una sorta di nuova Yalta all’interno dell’Ucraina, piuttosto se è vero che la Russia manterrà il controllo de facto sui territori occupati, allora inevitabilmente ci dovrà essere un dispiegamento di forze dei volenterosi: ciò è perfettamente condivisibile secondo me ed è stato volutamente storpiato da Mosca per intendere altro e per sottolineare il punto che è alla base della politica di Mosca, ossia il fatto che l’Ucraina è un non Paese.

L’iniziativa franco britannica dei volenterosi al momento sembra essersi arenata?

Sì e no. Nella misura in cui è evidente a tutti che non c’è una pace all’orizzonte quella proposta intesa come una forza di rassicurazione in un contesto di cessate il fuoco non regge. Ovviamente la premessa di quella proposta è che ci sia un cessate il fuoco, ma se questo cessate il fuoco non c’è, allora c’è poco da rassicurare e quindi in questo senso è superata, ahimè.

Crede all’ipotesi che il gasdotto Nord Stream 2 rientri in questo fantomatico accordo, anche per via delle difficoltà in cui versa la Germania?

No, non dovremmo sottovalutare quanto sia strutturale un cambio strategico in Germania. Per quanto sia stata molto dolorosa economicamente la messa in discussione di un modello economico ed energetico di cui la Germania sta pagando naturalmente le conseguenze, non è immaginabile un possibile ritorno al passato per via della cultura di quel Paese.