Satira e intelligenza artificiale: il caso del deepfake di Barbero (valigiablu.it)

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Sabato 5 aprile a Roma si è svolta una 
manifestazione indetta dal Movimento 
5 Stelle contro il piano di riarmo europeo.

Durante l’evento, diverse personalità pubbliche si sono succedute sul palco con un serie di interventi per sostenere le ragioni della protesta.

Tra questi, c’era anche Alessandro Barbero. Lo storico, non essendo presente fisicamente all’evento di protesta, ha mandato un video trasmesso poi su di un maxischermo, in cui ha sostenuto che la nostra epoca, con il suo richiamo agli armamenti per proteggersi da nemici esterni, «assomiglia paurosamente» a quelli che hanno preceduto lo scoppio della prima guerra mondiale nel 1914.

La manifestazione ha ricevuto svariate critiche, con accuse di populismo, di non considerare ingenuamente la Russia come una minaccia militare per l’Europa e di non sostenere realmente la resistenza ucraina contro l’invasione del Paese avviata dal Cremlino. Lo stesso intervento di Barbero è stato contestato perché la sua ricostruzione degli anni che precedettero la prima guerra mondiale è stata ritenuta fuorviante e non basata su una ricostruzione storica fondata.

Due giorni dopo la manifestazione, Luca Bottura, giornalista e autore satirico, si è inserito in questo filone di critica, pubblicando sui propri canali social un deepfake del videomessaggio trasmesso alla manifestazione dei 5 Stelle. Nel video, alterato digitalmente, l’intervento di Barbero è stato totalmente modificato: in questo caso lo storico fornisce una ricostruzione dell’origine della guerra russa contro l’Ucraina, affermando che quella in atto non è solo una guerra tra i due Paesi, ma un conflitto che ha rimesso in discussione il principio ormai consolidato che i confini in Europa non si cambiano con la forza, come invece sta cercando di fare il Cremlino. Bottura ha lanciato il video con questo commento: «Un Barbero da sogno sulla guerra in Ucraina. Parole sante».

Il video falso dura 3:58 e solo alla fine, al minuto 3:44, compare la scritta «Ovviamente tutto ciò è frutto dell’intelligenza artificiale». Prima non compare nessuno tipo di avviso o watermark che indichi in maniera esplicita che si tratta di un deepfake.

L’unico elemento che una persona che osserva il video con più attenzione può notare è il movimento delle labbra, che a volte non corrisponde completamente alle parole pronunciate. Ma questo particolare non scongiura la possibilità che un video simile, pubblicato in questo modo sui social media, possa finire per essere creduto reale. E ciò nonostante la volontà satirica del suo autore.

Sotto al video fake sono infatti comparsi numerosi commenti che criticano Bottura perché questa modalità può ingannare le persone. Ed è proprio quello che è capitato.

(Screenshot di alcuni commenti sotto il deepfake di Luca Bottura pubblicato da Luca Bottura)

Lo stesso Bottura è dovuto intervenire sotto al video per spiegare a chi lo aveva creduto reale di guardarlo fino in fondo, così da poter capire che fosse un contenuto creato con l’intelligenza artificiale.

(Screenshot di uno scambio tra Luca Bottura e un utente sotto al deepfake di Barbero)

Non è la prima volta che una dinamica simile accade. In precedenza su Facta ci era occupati di diverse notizie inventate a scopo satirico sempre da Luca Bottura che sono finite fuori dal loro contesto originario (cioè i suoi profili social) e credute vere. Ad esempio, recentemente l’autore ha realizzato un falso editoriale del direttore del Foglio, Claudio Cerasa, per fargli dire che, coerentemente con la linea editoriale liberale del suo giornale, avrebbe annunciato di rinunciare ai finanziamenti pubblici.

Anni fa, nel 2021, aveva invece diffuso sul suo profilo X un falso tweet di Giorgia Meloni in cui la leader del partito di estrema destra Fratelli d’Italia, in occasione del 25 aprile, festa della Liberazione, ringraziava «gli Alleati e i Partigiani che liberarono la nostra Patria dal Nazifascismo».

Lo stesso Bottura aveva poi commentato i risultati della viralità del falso tweet, scrivendo «Gentile Giorgia, lo confesso: sono stato io. Mi sono inventato un suo tweet in cui diceva parole di buonsenso su democrazia e Resistenza, e ho voluto provare l’effetto che faceva». La stessa dinamica si è ripetuta nel 2024 con un falso tweet  di condanna dei saluti romani durante la commemorazione di Acca Larenzia da parte della presidente del Consiglio Meloni, realizzato sempre da Bottura.

Come si è visto, questa tipologia di critica satirica, che utilizza le stesse tecniche della disinformazione ma con finalità differenti, ha tra le conseguenze anche quella di creare molta confusione e di far circolare contenuti che inquinano il dibattito pubblico sui social media e non solo.

Ecco perché in questi casi, per evitare simili ripercussioni negative, potrebbe essere utile ripensare le modalità di realizzazione di questi post satirici sui social media – dove esistono contenuti di differente natura e la sempre più veloce consumazione di informazioni la fa da padrone – e salvaguardare così l’intento originario, cioè criticare e far ragionare le persone. Soprattutto in un’epoca in cui distinguere il vero dal falso diventa sempre più difficile.

Ad esempio si sarebbe potuto inserire nel deepfake di Barbero un disclaimer all’inizio del video, così che gli utenti potessero essere prontamente informati della tipologia del contenuto ancor prima di fruirne. In ambito giornalistico questa modalità è ad esempio utilizzata per contenuti di altro tipo, come quelli che contengono scene violente o cruente.

Si sarebbe anche potuto inserire un watermark in filigrana per tutta la durata del filmato, una modalità che la redazione di Facta utilizza nelle sue antibufale per non ampliare il pubblico potenziale dei contenuti disinformativi. A tal proposito, nei giorni scorsi giorni l’account satirico “Il grande flagello” ha pubblicato su X una foto creata con l’intelligenza artificiale del presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte insieme alla tiktoker Rita De Crescenzo, presente il 5 aprile proprio alla già citata manifestazione romana, con in sovrimpressione il nome della propria pagina.

Ciò non ha impedito che la foto falsa fosse utilizzata per alimentare disinformazione, poiché sono iniziate a circolare versioni tagliate e prive del watermark, ma ne ha certamente ridotto la portata disinformativa.

Questo perché il watermark può comunque essere un deterrente – chiarendo immediatamente l’intento del post – e un disincentivo per chi lo vuole utilizzare in maniera ingannevole, costringendo i malintenzionati a un successivo lavoro di modifica.

L’ultima strategia da adottare per ridurre al minimo il rischio di favorire la circolazione di disinformazione è quella di esplicitare immediatamente la natura satirica del filmato, a partire dal post testuale che lo accompagna.

A tal proposito vale una delle più antiche leggi di Internet, la cosiddetta “Legge di Poe”, che afferma come in un testo scritto per il web sia arduo realizzare una parodia, poiché sia la parodia che l’oggetto della stessa rischiano di essere confusi l’uno con l’altro.

L’unico modo per distinguerle, afferma l’enunciato, è quella di inserire un elemento che ne indichi chiaramente ed esplicitamente la natura ironica, come una faccina. Nel caso di Bottura, l’hashtag #AI o #satira sarebbe certamente stato utile.

*Articolo originale pubblicato su Facta il 9 aprile 2025

#Ukraina – Una bella confutazione delle tesi sostenute da Travaglio sull’Ucraina

di Mark Pisoni

Rossobruni
Nel suo editoriale di mercoledì su Il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio torna a polemizzare con il conduttore di Prima pagina, e vicedirettore del Corriere della Sera, Federico Fubini, insistendo su una narrazione ormai consueta: quella secondo cui la guerra in Ucraina si sarebbe potuta evitare se solo Zelensky avesse dichiarato la neutralità del Paese e gli Stati Uniti e il Regno Unito non avessero “sabotato” un accordo di pace a Istanbul.
Peccato che un esame della vicenda mostra chiaramente che le cose non siano andate così.
Travaglio dipinge Vladimir Putin come un leader ragionevole, interessato solo a impedire l’ingresso dell’Ucraina nella NATO. Secondo lui, bastava una promessa di neutralità per evitare l’invasione, o almeno fermarla poco dopo il suo inizio. Una ricostruzione di comodo, in cui si dà la colpa della guerra non a chi ha aggredito, ma a chi si difende.
Martedì Fubini, dai microfoni di Radio3, ha correttamente definito questa narrazione un “mito” — e ha fatto bene. Non è vero che la Russia abbia mostrato una volontà autentica di negoziare la pace nel 2022. Le proposte avanzate da Mosca a Istanbul chiedevano non solo la neutralità, ma anche concessioni territoriali pesanti, come il riconoscimento dell’annessione della Crimea e del controllo russo sul Donbass. E tutto questo quando l’esercito russo aveva già compiuto massacri come quello di Bucha.
Quale leader avrebbe potuto firmare un simile “accordo”, che legittimava l’invasione, rinunciava alla sovranità nazionale e lasciava l’Ucraina alle mercé della prossima invasione putiniana, di fronte all’opinione pubblica ucraina infiammata di fervore nazionalista? Sarebbe stato defenestrato a furor di popolo.
A rendere ancor più fragile la narrazione di Travaglio è il passaggio in cui attribuisce al primo ministro britannico Boris Johnson la responsabilità di aver fatto saltare il tavolo delle trattative. Secondo questa ricostruzione, Johnson avrebbe imposto a Zelensky di non firmare nulla con i russi, determinando la prosecuzione della guerra.
Ma qui il racconto si sfalda: quale influenza concreta avrebbe potuto avere Johnson — o persino Biden — per imporre a un presidente eletto democraticamente di rifiutare un accordo che avrebbe salvato il suo popolo, se davvero lo avesse ritenuto tale? L’Ucraina non è una colonia, e Zelensky non è un burattino. La tesi secondo cui avrebbe obbedito ciecamente a un leader straniero contro l’interesse del proprio Paese è non solo improbabile, ma anche offensiva per l’intelligenza dei lettori.
L’episodio del viaggio di Johnson a Kiev — trasformato da Travaglio in una sorta di diktat britannico — è basato su voci di corridoio rilanciate da ambienti vicini al Cremlino. Nessuna prova di alcun tipo lo conferma, e attribuire la prosecuzione della guerra a una visita diplomatica è una tesi complottista mascherata da “analisi geopolitica”.
La realtà è più semplice, ma anche più scomoda: Putin non vuole solo neutralizzare l’Ucraina, vuole riportarla nella sfera d’influenza russa, cancellando la sua indipendenza politica e culturale. Di fronte a questo progetto neoimperiale, il sostegno occidentale non è un atto di guerra, ma di resistenza democratica.
A chi vuole riscrivere la storia in chiave revisionista, ricorderei che la pace non si costruisce con la resa. E che la verità, anche se meno spettacolare di una “trattativa sabotata”, resta l’unico punto di partenza per costruire un’Europa sicura.

La rete degli agenti russi in Moldova è stata danneggiata, ma non eliminata (linkiesta.it)

di

Quinte colonne

Il caso dei due deputati latitanti e protetti da Mosca evidenzia la sopravvivenza di una rete eversiva legata all’oligarca Sor. Le autorità moldove reagiscono, ma con margini d’azione limitati

Quando si scrive della minaccia russa all’Europa, un errore comune è quello di dimenticarsi di alcuni scenari dove la guerra ibrida del Cremlino è ancora in atto. Lo abbiamo visto con la Georgia, dove la protesta continua nonostante l’apparente vittoria del governo filorusso, o con le manifestazioni anti-Fico in Slovacchia, tutt’altro che finite.

Per un motivo o per un altro, arriva sempre un momento in cui i principali organi di informazione smettono di dare importanza alle vicende di questi Paesi, dimenticandosene per poi sorprendersi di fronte a un singolo episodio che, magari dopo mesi, ricorda al pubblico che la Russia non ha abbandonato quello specifico obiettivo. È il caso della Moldova.

L’anno scorso abbiamo denunciato le continue violazioni della Russia nella politica interna del Paese, il tentativo esplicito di condizionare le elezioni presidenziali e il referendum per l’ingresso nell’Unione europea, e l’esistenza di una rete eversiva composta da deputati moldovi, oligarchi russi e secessionisti della Transnistria.

Con la rielezione della presidente Maia Sandu e la vittoria del sì al referendum sull’Unione si è creduto erroneamente che l’emergenza fosse rientrata. Un’ingenuità le cui conseguenze rischiano di essere disastrose. La settimana scorsa, due deputati della Repubblica di Moldova, Irina Lozovan e Alexandr Nesterovschi, sono fuggiti dal Paese dandosi alla latitanza.

Due casi a prima vista slegati tra loro, e relegabili a questioni di politica interna, ma che in realtà sono più interconnessi di quanto possa sembrare e che si riallacciano a una figura chiave della disinformacja russa sul territorio. Ma andiamo per gradi. Irina Lozovan è scappata dalla Moldova (assieme a suo marito, il consigliere comunale di Ocnița Pavel Gîrleanu) in seguito a una condanna per corruzione, riciclaggio e finanziamento illecito da parte di un gruppo criminale.

Stessa accusa, quest’ultima, per Alexandr Nesterovschi. Entrambi i deputati erano recentemente passati dal Partito dei Socialisti all’ultrasinistra di Rinascimento (Renaștere), due raggruppamenti speculari che reggono la coalizione Vittoria (Proboda) di Ilan Sor, l’oligarca moldovo (ricercato dalle autorità internazionali) che l’anno scorso ha condotto la campagna anti-Sandu per conto di Mosca.

Quando abbiamo scritto di Sor e delle sue attività criminali, abbiamo sottolineato come la sigla Rinascimento continuasse ad agire per suo conto all’interno della politica moldova, continuando l’operazione filorussa di delegittimazione della presidenza e ostacolando l’avvicinamento della Moldovia all’Unione europea.

Rinascimento è servita finora come avamposto di quello che è stato riconosciuto dalle autorità come un gruppo criminale a tutti gli effetti, e le condanne dei due ex deputati, assieme a quella di Gîrleanu, riaccendono i riflettori su un network che si credeva neutralizzato con la messa al bando del partito fantoccio di Sor, Chance, e con il conseguente mandato di arresto nei suoi confronti.

Ma se non bastassero i rapporti acclarati con l’oligarca, sono le dinamiche della fuga dei due politici a rivelare una regia unica dietro entrambe le vicende. Lozovan e Gîrleanu sono attualmente nascosti in Transnistria: a causa della delicata situazione internazionale, le autorità moldove non possono intervenire nella regione separatista e qualsiasi attività poliziesca oltre la riva occidentale del fiume Nistro, che separa la Moldovia dall’autoproclamata repubblica pseudo-sovietica, sarebbe interpretata come una provocazione e, stando alle parole del capo della polizia di Chișinău, metterebbe «a repentaglio la sicurezza degli agenti».

Anche il socialista Nesterovschi si è rifugiato a Tiraspol, ma le dinamiche della sua fuga sono, in un certo senso, ancora più gravi. Alexandr Nesterovschi ha attraversato il confine a bordo di un veicolo con targa diplomatica della Federazione Russa.

L’intelligence moldova– il Serviciul de Informații și Securitate (Sis) – ha confermato il coinvolgimento dell’ambasciata russa nella sua evasione che, come si legge nel rapporto del Sis, ha «coordinato attentamente gli spostamenti di questo mezzo di trasporto» tant’è che l’autista «si è diretto immediatamente alla sede del cosiddetto consolato mobile della Federazione Russa, situato nella città di Tiraspol».

Di fronte a queste accuse, Anitta Hipper, portavoce per gli Affari esteri e la sicurezza della Commissione europea, ha dichiarato: «È responsabilità delle autorità moldove svolgere le indagini e abbiamo piena fiducia che lo faranno con diligenza. Ma se confermato, questo esempio rientra perfettamente nel repertorio della propaganda russa, e non solo nella propaganda, ma anche nelle azioni concrete, studiate per interferire con i processi democratici del Paese.

Lo abbiamo visto di recente nel referendum e nelle elezioni presidenziali, attraverso attacchi informatici, manipolazione delle informazioni, attività destabilizzanti nella regione della Transnistria e della Gagauzia e ora, se ciò si rivelasse vero, attraverso il ricorso al trasporto di persone ricercate per attività criminali». Parole arrivate immediatamente dopo la denuncia delle autorità moldove, e adesso, a una settimana dai fatti, le accuse sono state confermate.

È stato recentemente diffuso un video che vede Nesterovschi recarsi all’ambasciata russa, ma anche di fronte all’evidenza i funzionari del Cremlino hanno negato le loro responsabilità, arrivando a sostenere che nell’era dell’intelligenza artificiale l’autenticità del filmato non può essere data per certa e che il loro coinvolgimento diretto nella latitanza dei politici legati a Sor siano solo «speculazioni provocatorie».

La Moldovia ha reagito espellendo i tre dipendenti dell’ambasciata coinvolti direttamente nella fuga del politico condannato e avviando ulteriori indagini sui due coniugi latitanti, ma questa rischia di essere una battaglia impari.

La rete moldova della Russia ha subito un ennesimo colpo, ma non è stata eliminata. Il lavoro di Maia Sandu e dei suoi uomini continua nonostante una minaccia militare al confine, non dissimile da quella che ha anticipato l’invasione dell’Ucraina, e una costante operazione di guerra ibrida che rischia di minare il processo di integrazione nell’Unione, oggi solo agli inizi.

È per questo che l’Europa non può più permettersi di sottovalutare l’importanza di questo fronte.

L’anima scolpita di Odessa (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola Posta

Finisce il coprifuoco, ma la vita cittadina non ricomincia. Non c’è anima viva ma ci sono le statue, che hanno un’anima tutta loro

Odessa, 18 aprile. Del coprifuoco, che qui si chiama l’Ora del comandante, si bada solo all’ora in cui “scatta”: a mezzanotte, da un bel po’, prima era alle 22. La gente, si capisce, bada a rientrare in tempo. Dell’ora in cui il coprifuoco finisce, non importa se non ai camionisti e ai frugatori nella spazzatura. Gli altri se ne stanno a dormire, se ci riescono.

Finisce alle 5, e così decido di andare a fare, un minuto dopo, il mio reportage sulla vita cittadina che ricomincia. Ancora buio, le luci di strada accese (si spegneranno alle 6,48, a giorno fatto) ci sono 7 gradi, si sta bene. C’era stato l’allarme, ieri sera, ma la notte è passata in silenzio.

Sotto le mie finestre, nel pieno centro, dalle 3 e mezza i camion della pulizia, che innaffiano e spazzano, non fanno che passare e ripassare, impressiona questa cura delle strade e ancora più delle aiuole, tutte fiorite, viole tulipani peonie rose narcisi, e non è per i turisti, che non ci sono, e anche i cittadini pochi. E’ perché i fiori fioriscano.

Cammino e la vita cittadina non ricomincia affatto: per più di un’ora non vedo anima viva, se non di passeri piccioni e rarissimi gatti, poi le prime persone imbacuccate e svelte che vanno forse a preparare l’apertura dei bar, e spazzine e spazzini, silenziosi, e finalmente, dopo le sette, le signore e i signori col cagnolino. Se non fosse buffamente prepotente, potrei dire che ho Odessa tutta per me.

Me la prendo, comunque, il pieno sorgere del sole dall’imbocco della scalinata, e l’abbaglio doppio nello specchio del mare. Vado al giardino di città, che è il vero ombelico di Odessa, col gazebo per la musica all’aperto. Risale al fratello minore dei De Ribas “napoletani”, che nel 1806 per far fronte alle spese lo regalò alla città. Là troverò qualche santo bevitore, o un poliziotto, un soldato, o la vecchina curva che parla da sola e fuma una perenne sigaretta: macché, non c’è nessuno. Buon segno, del resto.

La fontana, che ieri sera zampillava scintillante per il giovedì santo, è spenta, le panchine desolate. Non c’è anima viva ma ci sono le statue, e le statue hanno un’anima. Non sono solenni né marziali qui, manca il marmo, sono domestiche, musicali, letterarie, sportive. Emulano le panchine, bronzo contro legno, c’è la Dodicesima sedia del romanzo di Il’ja Il’f e Evgenij Petrov, opera di Misha Reva, c’è la panchina di bronzo sulla quale è seduto Leonid Utësov, opera di Alexander Makarev (2000).

Sono fatte perché la gente ci si sieda e ci si fotografi, io no, ci mancherebbe, ma ora non mi vede nessuno, e mi accomodo accanto a Utësov, la sua mano destra di bronzo quasi sulla mia spalla, il mio naso rosso per l’aria frizzante il suo naso giallobrillante per gli strofinamenti degli ammiratori. Utësov (1895-1982), odessita, ebreo, vero nome Leyzer Vaysbeyn, è stato il principe dei cantanti e degli attori, l’introduttore del jazz in Urss, nei Venti, il beniamino incolpevole di Stalin, l’Artista del Popolo nel 1965, e soprattutto il cantore di Odessa.

Il disco di “Mishka l’odessita”, uscito nel 1943, era stato deplorato dal Presidium dei compositori sovietici, come ricorda Misha Poizner: “Carenze ideologiche ed emotive”, “idee borghesi sulla vita”, “il sentimentalismo di un valzer da salotto”. Con la musica di Mikhail Valovats, le parole di Vladimir Dykhovichny raccontavano “un ragazzo nudo nella bellissima Odessa, ampi estuari, castagne verdi, fin dall’infanzia un vero marinaio… Sei un marinaio di Odessa, Mishka, un marinaio non piange, e non perde mai il buon umore… E lasciando cadere le rose a terra – un segno del suo ritorno – il nostro ragazzo non riesce a trattenere le lacrime, ma questa volta nessuno dirà nulla”.

“Nel marzo-aprile 1944, volantini con il testo di ‘Odessit Mishka’ furono lanciati dagli aerei sopra Odessa occupata insieme all’invito: ‘Aiutate l’Armata Rossa a liberare la nostra terra natale’. Penso che la storia non conosca un secondo esempio simile. Le semplici parole di Vladimir Dykhovichny si sono rivelate cento volte più forti di qualsiasi appello propagandistico e politico”.

Un’altra canzone di Utësov, “Sul Mar Nero”, è ancora un inno cittadino. La musica di Modest Tabachnikov, il testo del poeta Semyon Kirsanov – vero nome: Samuil Kortchik – nato a Odessa nel 1906. Majakovskji lo incontrò qua, ne fu emozionato, e lo pubblicò, e Kirsanov poi se ne volle erede.

Ha, come devono le canzoni per restare, parole semplici, dice: “C’è una città che vedo nei miei sogni… C’è il mare in cui ho nuotato e sono annegato / e per fortuna sono stato tirato a riva. / C’è l’aria che ho respirato da bambino, / e non ne avevo mai abbastanza / sul Mar Nero. / Non dimenticherò mai il viale e il faro, / le luci dei piroscafi, / la panchina dove noi, mia cara, / ci siamo guardati per la prima volta! / Negli occhi ci siamo guardati per la prima volta / in riva al Mar Nero”.

Mi chiedo se anche su Utësov e sulla sua mezza panchina incombano destituzioni, ma sarebbe troppo impopolare, pare che anche il governatore militare dell’oblast’, Oleh Kiper, vada pazzo per lui. Su Il’f sembrano essersi addensate delle nubi – strane.

Di Reva scultore scrissi all’inizio della guerra. Il giardino ospita altre sue opere, compreso un gruppo vivacissimo, una danza delle ore, coppie umane, cagnolini di bronzo guatati da gatti veri, nel padiglione intitolato all’Ora di Odessa. La sua base incide i saluti alla città dei suoi grandi. Ci sono le prime righe degli appunti di Isaak Babel’, “I miei volantini”: “Odessa è una città pessima. Lo sanno tutti. Invece di ‘una grande differenza’ dicono ‘due grandi differenze’ e anche ‘qua e là’.

Pensate: una città in cui è facile vivere, una città in cui è chiaro vivere.

E’ composta per metà da ebrei, e gli ebrei sono un popolo che ha imparato a memoria certe cose molto semplici. Primo: si sposano per non essere soli. Secondo: amano così da vivere per secoli. Terzo: risparmiano per avere una casa e regalano alle mogli giacche di astrakan. Quarto: amate i vostri figli, perché è molto bello e necessario amare i propri figli”.

Anche la grande statua di Babel’, di fronte alla casa di famiglia, è di Makarev, il cielo la preservi. Invece qui, proprio di fronte alla panchina di Utësov, dalla quale ora mi sono alzato, Makarev ha scolpito la figura in grandezza naturale di Utochkin. E’ atleticamente aggrappato alla scala sulla facciata dell’antico cinema che si chiama affabilmente da lui, Kinoutočkino, tiene in mano, come un ragazzo che faccia volare il suo aeroplano di carta, l’aereo che gli varrà la gloria e gli costerà la vita.

Sergej Isaevič Utochkin (Odessa 1876 – San Pietroburgo 1916) diventò balbuziente da bambino per un terribile incendio domestico. Fu un campione sportivo leggendario in qualunque specialità, l’idolo dei ragazzini di Odessa. Il promotore delle gare a scendere e risalire in bicicletta (lui anche in auto), senza smontare, l’intera scalinata Potëmkin. Il corridore che per scommessa inseguiva e superava di corsa il tram, da Kulikovo a Bolshoy Fontan – diciotto fermate e 23 chilometri. Infine l’aviere intrepido, abbattuto mentre soccorreva i suoi.

Scrisse di lui Alexander Kuprin: “L’ho incontrato, al Bolshoi Fontan, nell’estate del 1904, e da allora non sono mai riuscito a immaginare Utochkin senza Odessa e Odessa senza Utochkin. E in effetti, il defunto Sergej Isaevič era noto a tutti in questa città, giovani e meno giovani, tanto quanto la statua in bronzo del duca Richelieu sul viale Nikolaevskij. Lui stesso, balbettando e facendo smorfie nervose, come al solito, diceva con tono del tutto serio: ‘Sono terribilmente p-p-popolare a Odessa’, e, dopo una pausa, aggiungeva: ‘Q-quando guido, tutti i ragazzi gridano: ‘Ut-točkin, il cane rosso!’’. Quei ragazzi lo adoravano per la sua spensierata allegria, la sua generosità, la sua audacia”.

Uno di quei ragazzini era stato il dirimpettaio di ora, Ledja Osipovič Utësov. E Kuprin racconta la storia “della larga cicatrice, che si snodava per un quarto di arshin sotto la sua scapola destra… Durante uno dei pogrom di Odessa, Utochkin vide per strada un’anziana donna ebrea inseguita da un gruppo di furiosi mascalzoni ubriachi. Immediatamente, obbedendo al primo comando dell’istinto, si lanciò tra la donna e il branco, con le braccia tese. ‘Sento gridare da dietro… ‘Non colpirlo! Questo è il nostro… Utochkin!’ Ma era troppo tardi. Improvvisamente sento una s-s-scossa alla schiena. E ho p-perso la m-memoria’.

Qualcuno gli conficcò un coltello da cucina nella schiena, passandogli tra le costole”. Anche Ivan Bunin – il primo Nobel russo per la Letteratura, nel 1933 – ne scrisse, commosso: “Utochkin, il famoso atleta, ha visto sul viale Nikolaevskij dei manigoldi picchiare una vecchia ebrea e si è precipitato a strappargliela dalle mani…’. All’improvviso è stato come se una brezza mi avesse soffiato nello stomaco’. Questa è la sua espressione. Lo hanno pugnalato ‘proprio sotto il cuore’”.

Appena più in là del giardino, l’incrocio tra via Preobrazhenskaya e piazza della Cattedrale ospita la statua di Vera Kholodnaya, la “regina dello schermo”, morta improvvisamente, a 25 anni, sepolta nella Cattedrale della Trasfigurazione: “E questo incrocio rumoroso può far pensare al suono di un applauso” (E. Golubovskij). Vera Kholodnaya si era esibita a volte sul palco di Odessa, con Leonid Utësov. E’ ancora opera di Tokarev.

Anche lui l’ho incontrato, un uomo alto e dritto, ora ha 79 anni, un viso ieratico e affabile insieme. Del resto il suo maturo Utësov della panchina e la sua giovane Kholodnaya dal gran cappello, fanciullescamente fatale, hanno un tocco di benigna levità. Qualcuno aveva osservato che a Odessa non ci fossero statue equestri. Poi Makarev ha costruito una grande statua del cosacco, ma è a piedi. Sceso da cavallo. 

(Leonid Utesov, Odessa (foto di Vadim Zhivotovsky, WikiCommons))