Noi e l’Ucraina. Un’Europa che resti coerente (corriere.it)
di Paolo Mieli
Domenica è toccata a Sumy. Ieri a Kharkiv.
«Errori, colpa di Biden», garantisce Donald Trump.
Fin qui, secondo i più sensibili all’ispirazione della mitezza, la resistenza dei militari di Volodymyr Zelensky all’«operazione militare speciale» iniziata il 24 febbraio del 2022 era stata una «guerra per procura». Adesso che il «procuratore americano» ha scelto di mettere le proprie tende nel campo avverso, non resta che riscrivere interi libri sostituendo il nome del presidente degli Stati Uniti d’America con quello di Ursula von der Leyen (come peraltro già avviene nelle manifestazioni «pacifiste»).
Sostenendo che fu lei la mandante di Boris Johnson per far naufragare la «trattativa di Istanbul», negoziato che, secondo un’affrettata lettura di un articolo di «Foreign Policy», avrebbe rimesso le cose a posto nella martoriata Ucraina. L’articolo in realtà sosteneva il contrario. Ma tant’è: una frottola in più o una in meno non cambiano il corso di una ricostruzione storica disinvolta.
Adesso che la «guerra per procura» va scomparendo dall’orizzonte, si assiste a una scena che ha dell’incredibile. A dispetto di una costante pioggia di missili sul suo Paese, mentre l’ineffabile Steve Witkoff perde tempo in questa o quella parte del mondo, Zelensky resiste. Incurante di chi gli suggerisce di accettare, per il suo bene ovviamente, una «pace ingiusta».
R equie prospettata nelle formule più bislacche subito smentite per quanto ne è evidente il carattere improvvisato. Resiste, Zelensky, per sé, per il suo popolo. Ma anche per dare all’Europa il tempo di armarsi in modo acconcio così da poter eventualmente reagire a qualche nuova improvvisazione putiniana.
Noi non siamo affatto convinti che l’autocrate del Cremlino abbia in progetto di portare i cavalli cosacchi a dissetarsi nelle acque del Tajo o Tejo (denominazioni spagnola e portoghese di uno stesso fiume che sfocia nell’Oceano Atlantico).
Ma siamo persuasi che l’Europa, finalmente ricongiunta alla Gran Bretagna, faccia il proprio dovere nel prendere fin d’ora le giuste contromisure. Nella prospettiva che, sul fronte occidentale, l’inaffidabilità (o peggio) degli Stati Uniti possa durare a lungo. E nella certezza che quel fronte resisterà anche a dispetto delle mattane di Trump.
Novant’anni fa, Sinclair Lewis scrisse un romanzo distopico, «Qui non può succedere», in cui immaginava che alle elezioni presidenziali del 1936 Franklin Delano Roosevelt venisse sconfitto da un intrallazzatore populista Berzelius «Buzz» Windrip che prometteva al Paese «grandezza» e «prosperità». Il modello per la descrizione di Windrip era, a ogni evidenza, un simil Trump di quei tempi: Huey Pierce Long, governatore, poi senatore della Louisiana. Lewis raccontava in modo efficace come dopo l’elezione di Windrip gli Stati Uniti fossero precipitati in una guerra civile dall’esito incerto.
Non accadde allora (Roosevelt fu eletto per ben quattro volte consecutive e morì nel ’45 da presidente Usa dopo aver dato all’Europa un aiuto determinante per sconfiggere Hitler). Non accadrà oggi. Negli Stati Uniti — azzardiamo — non ci sarà guerra civile. E quel che siamo soliti definire Occidente non andrà in frantumi. Anzi, è possibile che accada il contrario.
La resistenza ucraina darà a quel che resta del mondo occidentale una consapevolezza nuova dei propri doveri. E suggerirei di prendere una pausa prima di annunciare al mondo intero l’avvenuta imposizione della «pace ingiusta» al Paese di Zelensky. E alla fine accadrà che Trump cederà il passo a qualcuno più consapevole di lui del ruolo che la storia ha assegnato al Paese di cui è temporaneamente alla guida.
Persino qui in Italia, dove più che nel resto d’Europa l’armata dei «miti» dilaga a destra e a sinistra, una ferma presa di posizione del ministro della Difesa Guido Crosetto lascia sperare che Giorgia Meloni trovi le parole giuste per non dissociarsi, al cospetto di Trump, da Ursula von der Leyen e, con lei, dall’Europa tutta (o quasi) che ha votato il suo piano di riarmo.
E il comportamento della parte più consistente del Pd al Parlamento europeo (parte che in questa occasione ha preso il volto di Pina Picierno) lascia anch’esso sperare che non tutta la politica italiana si arrenda senza opporre resistenza alla deriva trumpian putiniana.
C’è spazio per un’Europa — allargata al Regno Unito — che si mantenga coerente alle cose che diceva fino a pochi mesi fa. Che non cerchi alla spicciolata un piccolo spazio da vassallo alla corte di Trump. Né si precipiti in Cina — come ha fatto il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez — ad ascoltare passivamente i discorsi di Xi Jinping contro il «bullismo» americano. Se c’è da protestare contro quella prepotenza il posto giusto per farlo non è a Pechino. È a Bruxelles. O, meglio ancora, a Sumy.
Basta poco, a Odessa, per ritrovarsi di colpo in mezzo alla Storia (ilfoglio.it)
Piccola Posta
(LaPresse)
Sono atterrato poco dopo la partenza di Zelensky e Mark Rutte, che si sono incontrati. Vado in giro per fare una ricognizione, un riconoscimento. La città sembra vuota, ma non è solo per il vento che tira: è stata svuotata
Odessa, 16. Basta muoversi un po’ e si ha la buffa impressione di trovarsi dentro la Storia. Sono atterrato a Chisinau poco dopo che ne decollava il segretario generale della Nato, Mark Rutte. Sono arrivato a Odessa poco dopo che ne era ripartito il presidente ucraino, Volodymir Zelensky. Si erano incontrati, avevano visitato un ospedale colpito e i suoi feriti, avranno parlato del porto e del mare, e Rutte aveva ribadito il sostegno incrollabile.
Ribadire incrollabilmente è il minimo: una volta che resti solo il verbo o solo l’avverbio, le cose si mettono al peggio. Intanto era scesa la notte, e le forze armate russe hanno ribadito le loro incrollabili spedizioni di droni, una specie di castigo all’incontro diurno fra i due alleati, droni dunque più numerosi e rumorosi. La notte, più di due ore continuate, fu piena di lampi, di scoppi. Poi son tornate le stelle, le tacite stelle.
Una volta per tutte, sappiate che cosa si fa quando parte la sarabanda di sirena, droni, bombe, raffiche di contraerea: si gira la testa dall’altra parte per riprendere sonno, sacramentando, chi ancora ce la fa a sacramentare, dopo tre anni e passa. Il mio amico Roberto dice che lui non li sente più, e non sa se consolarsene o farsi vedere. Le consultazioni fanno passi avanti, dice una evitabile bionda alla Casa Bianca.
A giorno fatto, si va in giro per la città, una ricognizione, un riconoscimento. Tira un vento da bavero alzato, ma non è solo per questo che la città sembra vuota: è svuotata. Mi sono accasato di fronte al Teatro dell’Opera, passo a prendere i biglietti per il Gianni Schicchi, giovedì, alle 18: Puccini e Forzano e Firenze – andare in Porta Rossa, a comperar l’anello – siamo di casa.
Ho due ricordi dell’aria O mio babbino caro, commoventi tutti e due: di Maria Callas e di Sergio Staino. Qui tocca a Julia Tereshchuk. Il Museo Archeologico, poco più in là dell’Opera, è ancora chiuso e protetto quanto alla collezione, ma ha una sobria mostra dei reperti archeologici di Zmiinyj, l’isola che noi chiamiamo dei Serpenti, lo scoglio dal quale fu salutata memorabilmente l’ammiraglia della flotta del Mar Nero colata a picco.
L’isola, vi ricordate, era stata fatta emergere dalle acque da Teti, che volle farne la tomba e il santuario del proprio figlio, Achille, e figuratevi se voglio precisare che è una leggenda, con le notizie che circolano: è vero, e Achille ebbe il suo grande tempio di marmo più candido della neve, meta di pellegrini, e l’isola stessa di chiamò Leukà (per i romani Alba), bianca, forse per le ali degli uccelli marini, che la facevano avvistare dai naviganti. L’isola bianca nel mare nero.
Quanto ai serpenti, forse erano le bisce tassellate portate dalla foce del Danubio, forse erano un omaggio alle metamorfosi di Teti. Una modesta teca conclude la mostra con il celebre francobollo, il guardafrontiera Roman Hrybov che saluta l’incrociatore col medio alzato e il fatale congedo: “Nave da guerra russa, vai a farti fottere!” (più esattamente, se doveste citarlo: “Russkiy voyennyy korabl’, idi na khuy”. Si immagina).
Una mostra interessante si è aperta martedì al Museo Letterario, dedicata a Sergej Lushchik. Raccontai una visita alla casa di Odessa, a Otrada, in cui aveva trascorso tutta la vita, alla sua venerabile vedova, a sua figlia e al loro cagnolino, in un gran magazzino domestico di quadri e libri preziosi. E’ morto, novantenne, nel 2015, dunque siamo al centenario.
La casa era stata già di suo padre, Zenon Adamovich, gran collezionista di monete antiche per passione, per professione ingegnere ferroviario. Dal 1917, come succedeva, la casa divenne comune ad altre famiglie, a genitori e figli restarono una cucina e due stanzette. Aveva sognato di diventare uno storico. Odessa era occupata, suo padre sentenziò: puoi studiare quanto vuoi, non riuscirai a tenere il passo con le autorità.
Qui la storia cambierà ogni cinque anni, riscritta a ogni cambio di regime.
Anche Sergej diventò ingegnere, marittimo. Morto Zenon, vendette le monete e cominciò a comprare libri e dipinti, l’avanguardia dall’inizio del XX secolo agli anni Venti. Era un tipo coraggioso e acuto, odiava la tirannia dei capi sovietici, aveva, per così dire, tolto loro il saluto. Studiò e custodì i documenti dell’Archivio di stato e della Biblioteca scientifica, fu in contatto coi testimoni artistici e civili contemporanei, corrispose con le famiglie degli emigranti.
Fu grazie al suo lavoro tenace che vennero risarciti i nomi dell’artista e scrittore Mikhail Zhuk, del poeta Semyon Keselman, del poeta ed editore Veniamin Babajan, fucilato nel 1920, e del poeta perseguitato Orestes Nomikos. Scrisse dell’odessita Sergei Konstantinovitch Pankejeff, l’“uomo dei lupi” di Freud, e dei salotti d’arte organizzati da Vladimir Izdebsky a Odessa nel 1909-1911.
L’Ucraina è fortemente impegnata a far rivivere la memoria degli artisti e dei poeti del “Rinascimento fucilato”, la generazione di artisti e letterati degli anni Venti e dei primi Trenta a Kharkiv. Negli anni Venti, Mikhail Zhuk aveva dipinto numerosi ritratti di questi artisti. Quando tutti furono uccisi, anche conservare queste opere divenne pericoloso. Fu Lushchik, ostile a ogni nazionalismo, devoto solo al talento, a custodire tutto.
L’insignificante mostra di Ai Weiwei a Bologna, e la sola opera che vale la pena visitare (linkiesta.it)
di Guia Soncini
L’avvelenata
Turtlèn Graffiti
L’arte contemporanea serve solo a titillare l’ego del ceto medio complessato, qui più che altrove. In compenso in piazza Aldrovandi c’è una scritta sul muro che fotografa lo spirito del tempo
Se dovessero chiedermi qual è il più importante contributo culturale della primavera-estate 2025, punterei su due opere che non ho ancora visto. L’ultimo “Mission: Impossible” (arriva al cinema a maggio), e la nuova stagione di “Black Mirror” (arriva su Netflix domani).
Se dovessero chiedermi qual è l’opera da visitare a Bologna – una città così priva di monumenti che rischiamo di farci crollare addosso la Garisenda perché non la abbattono per il timore che senza una torre medievale la città perda la sua unica riconoscibilità architettonica; ma anche: una città in cui i ristoranti mettono in vetrina le sfogline perché fingiamo che tirare la sfoglia sia cultura, in mancanza d’altro – direi senza esitazione una scritta su un muro, ma l’ho vista troppo tardi.
Troppo tardi per portarci in visita un’amica che è stata qualche giorno in città e che è abituata a fare le cose che fa il ceto medio complessato nelle città europee: vedere posti, visitare mostre, non considerare Starbucks una meta turistica. Solo che a Bologna dove le porti, le turiste che non s’accontentano dei carboidrati?
Alle Serre dei Giardini Margherita, che puoi introdurre col gustoso aneddoto che andavi a scuola lì di fronte, e dove ora ci sono le serre quarant’anni fa c’era uno zoo, la gabbia del leone fuori dal cancello della scuola elementare, pensa oggi che scandalo? Sì, potresti, solo che poi rischi che ti chiedano cosa significano i cancelletti sul cartello all’entrata delle serre.
#startup #formazione #servizicondivisi #coworking #rigenerazione #incubazione – ma in che senso incubazione, è un posto contagioso? Se poi hai amiche osservatrici, quelle ti chiedono come mai il parco sia così sporco, bottiglie di plastica e rifiuti d’ogni genere attorno al laghetto, erba non tagliata, manutenzione carente. Se vengono da Roma magari non notano, ma se vengono da posti civili le traumatizzi.
Quindi le porti a Palazzo Fava, dove c’è la mostra di Ai Weiwei, che s’intitola “Who am I?” (c’è anche la sportina di stoffa con la scritta, se siete di quelle che vanno alle mostre per il merchandising – come esistesse qualcuno che va alle mostre per altro), domanda che provoca in tutte noialtre ex liceali il riempimento emilydickinsoniano «I’m nobody, who are you?», e insomma si va sul sicuro, l’arte contemporanea, come nelle città vere.
Tom Cruise nella pubblicità (o come dite voi: trailer) di “Mission: Impossible” dice «Ho bisogno che ti fidi di me – un’ultima volta», e io ci pensavo mentre arrivavo a Palazzo Fava. La sera prima mi ero persa “Mi fido di te”, durante il concerto di Jovanotti, per andare a prendere una birra, non perché volessi una birra ma perché le sedie del palazzetto dove si fanno i concerti bolognesi fatico a definirle sedie: sono strapuntini che ammazzerebbero la schiena di quattordicenni in forma, figuriamoci la mia.
La birra era una scusa per alzarsi, ma costava nove euro, che io sono abbastanza anziana da percepire come diciottomila lire, e va bene che la gente – la stessa gente che poi s’indigna se un libro costa venti euro – è disposta a spendere qualunque cifra per una serata fuori, ma forse a Bologna si esagera.
Già fai i concerti in un posto al quale non arriva la metropolitana (che non hai mai costruito: a più o meno parità d’estensione, a Barcellona ci sono dodici linee di metropolitana; il sindaco di Bologna, dagli incontri coi suoi colleghi forestieri, torna con molti autoscatti e mai nessun passo verso la civiltà); già fai i concerti in un posto per cui ci vogliono trenta euro di taxi all’andata e altri trenta se lo trovi al ritorno (quando esci è pieno di disperati che fanno l’autostop, qualche anno fa hanno filmato Samuele Bersani che per la disperazione tornava in autobus dal concerto di Brunori), già fai pagare una birra come fosse un Barolo, e mi fai pure stare scomoda?
Comunque: Palazzo Fava almeno è in centro, almeno ci si arriva a piedi, almeno non ci si siede su degli strapuntini, quattordici euro a biglietto, eccoci. Fino a quella di Ai Weiwei (che faccio anche fatica a definire una mostra), la mostra con il peggiore allestimento che avessi mai visto era sempre a Bologna (sarà sicuramente una coincidenza): quella su David Bowie, nove anni fa. Le peggiori traduzioni delle didascalie nella storia delle mostre di questo secolo e pure di quello scorso.
In quella di Ai Weiwei il problema traduzione non si pone: hanno deciso di non spiegare proprio niente. Mi pare perfetto: opere scarse e nessuna contestualizzazione. A un certo punto c’è una sala con dei video, s’intitola “258 Fake”, cosa mi rappresenta, cosa significa?
Per fortuna che Google c’è, e conserva memoria di quando gli stessi video erano stati esposti ad Harvard, evidentemente da gente meno cialtrona dei bolognesi che aveva perso cinque minuti a spiegare: «Creata, con i contenuti visuali del suo blog, dopo che il governo cinese gliel’aveva chiuso, l’installazione 258 Fake è una meditazione coreografata che consiste di frammenti disassociati di otto anni della vita sociale, politica, e artistica di Ai, presentati attraverso il mezzo concettualmente instabile della fotografia».
Detto in modo meno pretenzioso: sono le gallery di foto del suo telefono. Come ha commentato la mia amica: c’è tutto quello che s’è mangiato in quegli anni. E non è, incredibilmente, la sala peggiore. Anche se il primato di sala peggiore di questa ridicola mostra fatico ad assegnarlo.
È forse quella iniziale, in cui ci sono per terra dei cocci, come quando spazzi il pavimento dopo che hai rotto qualcosa, solo che i cocci della gigantesca tazza che ha rotto Ai Weiwei sono su uno strofinaccio che sarà dieci metri per cinque, e s’intitolano “Porcellana”, e nessuno li ha buttati (poi, quando una cameriera di buon senso li butta pulendo, facciamo i titoli su Anna Longhi e le vacanze intelligenti e il popolo che non capisce le installazioni, invece di fare i titoli su che truffa sia l’arte contemporanea)?
O è quella in cui ci sono una decina di foto di dito medio alzato su sfondi diversi (la Gioconda appesa dentro al Louvre, l’entrata del Metropolitan a New York, la torre Eiffel, il parlamento svizzero, il Tamigi), e i vasi che sembrano antichi ma in realtà sono dipinti con le scene di rifugiati (col tema importante si vince sempre, ricattando il pubblico)? In quella stessa sala il nostro bluff preferito ha disegnato anche la carta da parati, sempre a tema rifugiati, coi suoi bravi “Safe passage”, “No one is illegal”, “Open border”.
La carta da parati è naturalmente un’opera anch’essa, s’intitola “Odyssey”, perché pure in Cina si vede che hanno la mistica del liceo classico, chissà se Ai pensa che l’aoristo apra la mente (o che la apra viaggiare, o che la apra leggere – non ricordo il resto della lista dei modi in cui il ceto medio complessato è convinto che gli si aprirà la mente).
Chissà se la vendono – pensa che trionfo di cetomediocomplessatismo, a casa mia c’è la carta da parati del grande artista – intanto sta al piano di sopra rispetto a quello in cui possiamo rimirare l’urna Han lasciata cadere (la sua opera più famosa: le foto che gli hanno scattato mentre rompeva un vaso: che epoca di imbecilli che siamo, come ci meritiamo l’estinzione), ma anche all’esposizione dell’urna Han su cui – che genio, che artista, che quattordici euro ben spesi – ha riprodotto il logo della Coca-Cola (sì lo so che c’è anche il collezionista che rompe quella, ma a Bologna non l’hanno esposto, gli sarà sembrato un gesto troppo punk, una contaminazione con gli Skiantos).
Di sopra c’è anche un monitor con l’autore intervistato, gli chiedono cosa sia l’amore o cosa pensi del Covid, il tutto ha la profondità culturale che si riscontra scorrendo Twitter (o come si chiama ora) mentre si aspetta che l’acqua per la pasta arrivi a temperatura giusta.
Forse però le sale peggiori (ve l’ho detto che era una gara assai competitiva) sono quelle coi Lego. Il Pollock rifatto coi Lego, per riprodurre gli schizzi ha usato i mattoncini un po’ blu e un po’ neri, santo cielo che ideona, mamma mia che creativo, cosa ce ne facciamo di Bernini quando abbiamo le grandi idee degli artisti contemporanei, genio, puntesclamativo.
La mia amica era già ripartita (dopo aver commentato che l’architettura del palazzo in cui c’era la mostra era assai più interessante della mostra, e dopo esserci affacciate nella chiesa di fronte, in cui era esposto un tazebao con scritto «State buoni, se potete», che potete instagrammare con più soddisfazione di Ai Weiwei e senza spenderci quattordici euro), quando ho visto per caso l’unica ricchezza culturale di Bologna. Quella che dimostra il guizzo di genio vero, quella che non solo supera con gli abbaglianti Ai Weiwei ma forse potrebbe persino distrarmi dal Tom Cruise di “Mission: Impossible”.
È una scritta su un muro, non è che le scritte sui muri di Bologna le scopra io, figuriamoci, c’è tutta una tradizione e molto Instagram che se ne occupa, però in questa vedo lo spirito del tempo, il guizzo del kulturkritik, il tutto e l’abbastanza che mancano in Ai Weiwei, se qualche cantautore mi legge se ne appropri subito perché è un gran titolo di canzone, oltre a essere la scritta in visita alla quale porterò qualunque turista d’ora in poi.
Vìola anche il mio divieto rispetto ai giochi di parole, ma quando c’è il genio sono disposta a condonarli. È in piazza Aldrovandi, che la mattina è sempre piena di bottiglie vuote causa serate alcoliche degli studenti in zona, e quindi ha, la scritta, tutto ciò che serve in un’opera: la specificità del luogo, e quella del secolo. “Cirrosi empatica”.
(Guido Calamosca/LaPresse)
Nella soffitta tra i volontari che scrivono ai detenuti politici «Tenete duro, ce la faremo» (corriere.it)
dal nostro inviato a Mosca Marco Imarisio
La storia
A «Spazio aperto» le lettere dalle prigioni russe e le risposte

Il M5S dà libertà di coscienza sul referendum per la cittadinanza, caso nel centrosinistra (ildubbio.news)
di Mauro Bazzucchi
Gli avversari dell'alleanza organica col M5S hanno colto la palla al balzo per sottolineare quanto a loro avviso Conte non corrisponda assolutamente a un profilo di sinistra
Sono decisamente lontane dall’essere smaltite, le tossine messe in circolo dentro il Pd dall’intervista di mercoledì scorso con la quale Goffredo Bettini, storico kingmaker della sinistra italiana, ha con toni espliciti sostanzialmente chiesto alla segretaria Elly Schlein di richiamare all’ordine l’ala riformista del partito, con riferimento soprattutto al piano di riarmo presentato a Bruxelles da Ursula von der Leyen.
Un testo su cui Bettini, al pari di Schlein, ha espresso grandi perplessità, mettendosi così sulla stessa lunghezza d’onda del M5S di Giuseppe Conte, che su questo terreno ha guadagnato un vantaggio considerevole a sinistra, come testimonia la riuscita della manifestazione di sabato 5 aprile a Roma, alla quale aveva dato il proprio ok anche il Nazareno, inviando una delegazione.
La mossa di Bettini, però, non è proprio andata giù a chi si oppone ad un’alleanza coi pentastellati, e da tempo sta chiedendo alla segretaria di assumere una linea più indipendente soprattutto in fatto di politica estera.
C’è però un elemento, in queste ultime ore, che ha fatto andare su tutte le furie i “no-Conte” del Pd, e cioè la scelta dell’ex-premier di lasciare libertà di coscienza ai propri elettori per il referendum sulla cittadinanza previsto per inizio giugno. In molti forum e pagine social di sezioni o semplici militanti la cosa è stata oggetto di polemiche infuocate tra dem e pentastellati e all’interno dei dem stessi.
Gli avversari dell’alleanza organica col M5S hanno colto la palla al balzo per sottolineare quanto a loro avviso Conte non corrisponda assolutamente a un profilo di sinistra, e non hanno mancato di ricordare l’esperienza del governo gialloverde, da lui presieduto e con il leader leghista Matteo Salvini al Viminale, rimasto nella memoria collettiva per la chiusura dei porti e per il dl migranti che prevedeva respingimenti in mare e sequestro delle navi delle Ong operanti nel Mediterraneo.
Mercoledì, tra i primi a rispondere per le rime a Bettini c’è stata la vicepresidente dell’Europarlamento Pina Picierno, in questa fase esponente di punta dei riformisti e principale sostenitrice, all’interno dei dem, di ReArm Europe: «In un paio di pagine», ha affermato Pina Picierno, «è concentrata una deriva preoccupante, un ripiegamento identitario lontano anni luce dal Partito Democratico delle “origini” che non preoccupa tanto per l’atteggiamento intollerante verso il pluralismo interno, preoccupa invece moltissimo rispetto alla creazione di una alternativa credibile alle destre di Giorgia Meloni e Matteo Salvini, perché si allontana da un pensiero riformista, abbracciando un radicalismo insensato che nessuna esperienza di governo socialista in Europa, da Sanchez a Starmer, ha incarnato negli ultimi anni».