Baciami ancora (corriere.it)

di Massimo Gramellini

Il caffè

Il bacio dei glutei di Trump è un apostrofo rosa tra le parole t’odio.

L’immagine del suo flaccido fondoschiena, da lui stesso evocata col consueto charme, nell’atto di ricevere l’omaggio (figurato, si spera) delle potenze straniere, rappresenta un punto di non ritorno nella storia della comunicazione politica.

Per Trump tutto ha un prezzo e tutto è disprezzo.

Verrebbe facile lasciarsi prendere dallo sconforto e dire che ormai hanno vinto loro, i teorici del vaffa e dello sberleffo come forma di intimidazione. Quelli che — al di là dell’Atlantico e anche a casa nostra — non capiscono l’ironia ma solo il sarcasmo, storpiano i cognomi e condiscono i discorsi e gli articoli di insinuazioni aggressive per strappare un facile ghigno al pubblico ruttante.

Il populismo non è né di destra né di sinistra: è becero, insensibile, strafottente. E spaccia per sincerità la volgarità. Ma se adesso ci sembra vittorioso è solo perché gli si contrappone il vuoto balbettio di un pensiero democratico che non riesce più a emozionare nessuno.

Ribadisco, non è questione di destra o di sinistra. Reagan e Obama — per restare negli ex Stati Uniti, ora Ingrugniti — agivano su fronti politici opposti, ma sapevano toccare le corde giuste senza bisogno di scendere alle parti basse.

Voglio illudermi che vincerebbero ancora oggi, perché la maggioranza silenziosa e silenziata degli esseri umani resta alla ricerca di una voce che le ricordi come si fa a vivere senza odiare.

Strage di Sumy, Salvini e Conte si mordono la lingua. Quartapelle: “Le loro azioni? Parti di uno stesso disegno (ilriformista.it)

di Aldo Torchiaro

Il passo indietro

Il silenzio non ha innocenti. Per 24 ore dopo la strage di Sumy, condannata in presa diretta dalla Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, il leader leghista Matteo Salvini e quello pentastellato, Giuseppe Conte, si sono morsi la lingua.

Hanno atteso un giorno intero per far sapere quanto fossero tristi per l’accaduto. E dire che Salvini, dalle 10 di domenica a ieri pomeriggio aveva twittato cinque volte, parlando di violenza negli stadi e facendo gli auguri per la Domenica delle Palme (tre ore dopo che due missili avevano centrato un pullman di famiglie, tra le vittime due bambini).

Il passo indietro

Tutti gli esponenti politici, leader di partito e semplici deputati, incluso qualche sindaco, hanno alzato i toni per condannare l’attacco missilistico sui fedeli che andavano in chiesa. Tutti tranne due, Conte e Salvini, che hanno fatto ieri sera un ravvedimento operoso, dettando buon ultimi alle agenzie la loro presa di distanza.

Meditata, evidentemente, nel volgere di una giornata di riflessione. «Sumy – dice per primo il leader del M5S, Conteè una strage orrenda, è un attacco assolutamente indegno che calpesta il diritto internazionale umanitario. La condanniamo con la più ferma posizione. Quello che ci sorprende è che tutte queste dichiarazioni, che si affollano e fanno la contabilità dei morti, non considerano invece quel che succede quotidianamente a Gaza. Andiamo a vedere se sono altrettanto indignati questi dichiarazionisti».

Conte calcia la palla in tribuna

Non riuscendo a dare una netta condanna al massacro di Putin, Conte preferisce non citarlo e calciare la palla in tribuna, parlando di Gaza. Dinamica simile nella dichiarazione di Salvini, che arriva su pressione dei giornalisti in Regione Lombardia, a margine di un evento sul nucleare: «Strage terribile, si avvicina Pasqua e speriamo sia di pace e resurrezione anche sul fronte ucraino. Speriamo che Trump riesca nel cessate il fuoco che si è proposto. Ai tavoli di trattative -prosegue Salvini– ci sono russi, ucraini e americani, sicuramente colpire civili e spargere altro sangue non avvicina alla pace. Spero siano le settimane della pace e spero che in Europa nessuno ostacoli un processo di pace complicato, ma doveroso e necessario altrimenti sarà altra morte a oltranza e nessuno vincerà la guerra sul campo. Se Trump riuscirà a imporre il tavolo, il tavolo e il cessate il fuoco farà una grande cosa». Anche qui, per rendere più veloce e diretta la comunicazione il leader della Lega ha dovuto sorvolare sul nome di Putin.

La trattativa a tre

Ha evitato di sottolineare le responsabilità dei criminali di guerra e messo nel calderone della dichiarazione sulla strage lo scenario della trattativa a tre, che nella realtà si allontana, pur di dare a Trump un ruolo di artefice della pace. L’analisi dell’onorevole Lia Quartapelle, del Pd, è chiara: «L’assenza a lungo di dichiarazioni di Conte e di Salvini e l’insistenza da parte di Conte di avere l’ambasciatore russo in Parlamento e da parte di Salvini di un maggior dialogo con la Russia, sono parti di uno stesso disegno. Quello che ha portato alla maggioranza gialloverde e a un loro governo che ha provato a sovvertire la tradizionale posizione del nostro paese nelle relazioni internazionali».

Secondo la riformista Dem «Bisogna prendere atto della realtà. La Russia finge di trattare ma in realtà non ha nessuna intenzione di arrivare a una tregua. Ha intenzione solo di infliggere all’Ucraina danni peggiori. Per questo penso che si debba aiutare l’Ucraina a trattare da una posizione di forza. Perché altrimenti diventa un appeasement, quello che si fa. Non è sbagliato provare a capire se ci sono le condizioni per aprire una trattativa, ma non ci si deve illudere. Oggi Trump dice “Si, vero, hanno colpito i civili ma è stato un errore”. Una cosa che non è accettabile da parte di nessuno».

La continua illusione

Rimane che «C’è stato un silenzio tragicamente assordante da parte di Matteo Salvini e Giuseppe Conte. Chi ha voluto illudersi che Trump stesse facendo la pace, continua a illudersi. Ma credo che sia una cecità da rigettare. Sabato Witkoff ha incontrato Putin, domenica un missile di Putin ha centrato un gruppo di persone che si recavano a messa per la domenica delle palme».

La visita di Witkoff non deve aver impressionato molto il presidente russo. Lo spiega – a vantaggio forse anche dei suoi compagni di coalizione – il ministro della Difesa, Guido Crosetto. «Il bombardamento su Sumy ha dimostrato che Putin continua quello che ha iniziato oltre 3 anni fa. Lui vuole piegare l’Ucraina e quello sta facendo, non si sono fermati i bombardamenti neanche per mezz’ora in questi oltre mille e cento giorni di attacco della Russia all’Ucraina”.

Intervenuto da Bruno Vespa per ‘Cinque Minuti’ su RaiUno, il titolare della Difesa ha aggiunto: «Ho l’impressione che la Russia stia giocando un po’ con la buona fede di Trump che pensava di poter arrivare a una tregua in tempi veloci e, in attesa di questa tregua, continua a bombardare».

Schlein chiude al centro, e s’inchina ancora una volta al populismo di Conte (linkiesta.it)

di

Il mondo di Elly

Il Partito unico Pd-Avs-M5s che si sta formando esclude i partiti di centro, per decisione imposta dal leader dei Cinquestelle e subita dalla segretaria. Una soluzione che impedirà a questa nuova forza politica di andare oltre il perimetro di una sinistra radicale e minoritaria

Il Partito unico Pd-Avs-M5s che si sta cementando in queste settimane con varie iniziative è chiuso al centro, cioè a Italia Viva, Azione, Liberaldemocratici, socialisti e altre formazioni e personalità dell’area riformista (fa saltuaria eccezione Più Europa, interessata all’appoggio del Partito unico sul referendum sulla cittadinanza).

Si tratta di una preclusione politica imposta da Giuseppe Conte e subita, non si sa quanto malvolentieri, da Elly Schlein, che così rischia di essere perennemente intrappolata nelle macchinazioni dell’avvocato del popolo.

Il tempo dirà se la preclusione antiriformista sia per Schlein frutto di insipienza politica, di ingenuità o di un proposito condiviso. Sta di fatto che Matteo Renzi, Carlo Calenda, Luigi Marattin non vengono neppure chiamati alle iniziative del Partito unico Pd-Avs-M5s, né si ha notizia di particolari contatti tra il Nazareno e queste forze.

Eppure, nella prospettiva elettorale, quei punticini percentuali potrebbero fare comodo. D’altra parte tutte le proposte avanzate in questi giorni dal Partito unico sembrano irricevibili da parte delle forze esterne al Partito unico.

Da ultimo, c’è il caso della mozione parlamentare per il riconoscimento dello Stato palestinese nella quale, accanto a una serie di punti persino scontati, figura la richiesta di sospendere l’accordo di associazione Unione europea-Israele, che riguarda non il governo di Benjamin Netanyahu, ma lo Stato ebraico in quanto tale, con una confusione che l’associazione Sinistra per Israele definisce «particolarmente inquietante»: secondo la triade Schlein-Conte-Fratoianni si tratterebbe di rompere gli accordi di cooperazione scientifica tra Europa e Israele, cioè il Paese tra i più importanti nel mondo per la ricerca biomedica.

È evidente che l’equiparazione secca tra Israele e governo Netanyahu non rende un favore a quanti in quel Paese si battono proprio contro Bibi e i suoi ministri. La critica dell’associazione Sinistra per Israele ricalca evidentemente gli orientamenti dei riformisti del Partito democratico e di quelli dell’area centrista, che ieri si sono ritrovati insieme a un’iniziativa politica di Ivan Scalfarotto (Italia viva) per ascoltare le voci da Gaza dei palestinesi anti Hamas (tra i presenti, oltre ai renziani, gli esponenti Pd Piero Fassino, Filippo Sensi, Marianna Madia, Lia Quartapelle, Simona Malpezzi, Graziano Del Rio, Antonio Nicita, Walter Verini, Sandra Zampa, Alfredo Bazoli, Vincenza Rando, Piero De Luca, Annamaria Furlan).

Peraltro sarebbe stato giusto se alla mozione per la Palestina si fosse affiancata un’analoga presa di posizione in favore del sostegno politico e militare alla Resistenza ucraina, in un momento particolarmente drammatico come questo, a pochi giorni dall’orrenda strage di Sumy condannata solo dopo ventiquattr’ore anche da Conte, probabilmente obtorto collo non essendo certo egli un amico dell’Ucraina.

Sulla politica estera, d’altronde, Elly Schlein, contraria al riarmo europeo così come approvato dal Parlamento europeo e dal Partito socialista europeo, ospita nel suo partito una voce come quella di Goffredo Bettini, che pur contando personalmente poco tuttavia esprime un sentimento ben presente nella base del Partito democratico.

In un’intervista al Fatto, perfetto per l’occasione, tra le altre cose Bettini ha ricordato «la fondamentale ragione della guerra da parte dei russi ovvero la richiesta dell’Ucraina di aderire alla Nato», come se di essa Volodymyr Zelensky e l’Occidente avessero dovuto tenere conto e anzi sottomettervisi.

Nell’insieme – ha commentato Pina Picierno – «in un paio di pagine è concentrata una deriva preoccupante, un ripiegamento identitario lontano anni luce dal Partito democratico delle “origini” che non preoccupa tanto per l’atteggiamento intollerante verso il pluralismo interno, preoccupa invece moltissimo rispetto alla creazione di una alternativa credibile alle destre di Giorgia Meloni e Matteo Salvini perché si allontana da un pensiero riformista, abbracciando un radicalismo insensato che nessuna esperienza di governo socialista in Europa, da Sanchez a Starmer, ha incarnato negli ultimi anni».

Nemmeno sulla riforma della Rai, perorata da Pd-M5s-Avs, si è cercato il coinvolgimento di Italia Viva e Azione che pure su questo tema non hanno posizioni dissimili, segno che proprio non li si vuole allo stesso tavolo e nella stessa photo opportunity.

Infine, non si può certo chiedere ai riformisti di centro di aderire a una iniziativa prettamente antirenziana come i quattro referendum contro il Jobs act promossi dalla Cgil di Maurizio Landini, cui il Partito unico Pd-Avs-M5s ha garantito il sostegno: un altro cazzotto nell’occhio alla precedente stagione del Partito democratico che tuttora molti esponenti di quel partito non rinnegano.

Il gruppo dirigente schleiniano ha ormai scelto la sua strategia politica e elettorale: serrare le fila con Giuseppe Conte e Nicola Fratoianni, una linea che anche facendo i conti appare minoritaria e comunque inadatta a cercare consensi oltre il perimetro di una sinistra radical-populista.

Mettendolo tutto insieme, questo fuoco di fila di Schlein, Conte & Fratoianni potrebbe costituire, come dice Carlo Calenda, «la via verso il Conte tre», cioè il Re di Prussia per il quale sta lavorando Elly Schlein, forse a sua insaputa.

Forse.

Non stiamo diventando russofili, stiamo diventando russi (ilfoglio.it)

di Guido Vitiello

Il Bi e il Ba

Dopo il grottesco dibattito televisivo in cui Calenda ha difeso verità elementari contro le balle di Travaglio e Giordano, occorre rileggere le riflessioni di Françoise Thom, grande storica esperta di Russia

Il lettore mi perdonerà se torno a citare Françoise Thom, grande storica esperta di Russia, ma dopo avere assistito a un grottesco dibattito televisivo – la trasmissione era “Accordi e disaccordi” – in cui Carlo Calenda ha difeso con tenacia alcune verità elementari sull’Ucraina a fronte delle balle spudorate di Marco Travaglio e Mario Giordano, non ho potuto fare a meno di ripensare a una pagina illuminante del suo ultimo libro, Poutine ou l’obsession de la puissance: “La confusione dell’intelligenza ci rende vigliacchi. Tuttavia l’impressione di vivere nell’assurdo, di capitolare davanti alla follia è ben presente e genera l’aggressività e la volgarità nella vita quotidiana che le nostre società condividono sempre di più con la società russa.

L’indifferenza alla verità si diffonde: un punto di vista vale l’altro, si pensa. Nei media, ogni opinione è equilibrata da un’opinione contraria, anche se una delle due dovrebbe essere squalificata in partenza per stupidità o malafede. La ‘realtà alternativa’ ha lo stesso diritto di esistere della realtà tout court. Il cinismo esce allo scoperto. In diplomazia è gabellato per ‘realismo’, come se l’indifferenza al bene e al male, al giusto e all’ingiusto, fosse la condizione di un giudizio sano e di una buona politica.

L’ammirazione della forza bruta si diffonde a tutti i livelli della nostra società: il numero dei turiferari di Putin lo attesta (…). In Russia, tutti questi processi sono molto più avanzati che da noi, perché il bolscevismo ha distrutto da cima a fondo il sostrato della civiltà. Ma nei paesi occidentali, questo sostrato si sta sgretolando a grande velocità”.

Pertanto, “dobbiamo interessarci alla Russia per capire ciò che rischiamo”. In altre parole, non stiamo diventando russofili. Stiamo diventando russi.

Gratteri e la patacca governativa sulle intercettazioni (linkiesta.it)

di

Piercamillo’s way

Il procuratore capo di Napoli si vende come l’unico in possesso della formula magica per risistemare la nostra disastrata giustizia.

In realtà, proprio come Davigo, anche lui rilascia dichiarazioni in cui sembra favorevole a metodi manettari, illiberali e autoritari

C’era una volta Piercamillo Davigo, simbolo di Mani Pulite, castigamatti dei furbetti disonesti, idolo della sinistra giudiziaria sparsa nei vari talk show tra Rai 3 e La7. Impazzivano Giovanni Floris, Corrado Formigli, Lilli Gruber e Lucia Annunziata a intervistarlo per ascoltare i suoi aforismi della manetta, le sue invettive contro i «colpevoli che la fanno franca», le reprimende contro i processi troppo lunghi.

Lui purtroppo non l’ha scampata, condannato e pregiudicato per violazione del segreto d’ufficio sui verbali di dichiarazioni dell’ex avvocato Piero Amara (condannato per calunnia) dopo aver tentato ogni genere di appello e ricorso. Perfetto esempio dell’immortale categoria del puro a sua volta epurato: un vecchio classico del comunismo stalinista.

Tuttavia e fortunatamente per i suoi ex adoratori, Davigo ha un erede, Nicola Gratteri, già fiero nemico della ’ndrangheta in Calabria e oggi, come lui stesso sottolinea, «felicemente procuratore capo di Napoli». Alla sua lunga e prestigiosa carriera di magistrato unisce da qualche tempo quella di opinion leader e prolificissimo scrittore (due volumi solo negli ultimi sei mesi), un vero stakanovista. Viene costantemente intervistato sui mali della giustizia e il degrado della politica.

E come un novello Gino Bartali, dividendosi tra un talk e un altro per presentare uno dei suoi libri, risponde immancabilmente con spiccato accento calabro e qualche lieve esitazione di sintassi che «è tutto sbagliato, tutto da rifare», sia che si tratti della riforma Cartabia sia che si tratti di quella di Carlo Nordio, di una nuova legge come la separazione delle carriere e addirittura di una qualche nuova applicazione telematica. Niente da fare: va tutto male e tutto è da bocciare.

Parrebbe di capire, come succede ai tanti demiurghi degli stati di diritto in crisi, che lui e solo lui conosca la formula magica che riparerebbe la giustizia. Quale sia non è dato sapere, perché come tutti i dispensatori di promesse palingenetiche, egli eccelle nella parte destruens, ma è fumoso su quella construens.

Si fida di lui Matteo Renzi, uno che i magistrati non li ama, ma che per lui stravede al punto di farlo ministro – come lo stesso Gratteri racconta – prima di essere bloccato da Giorgio Napolitano. Chissà perché nessuno si sia mai informato sugli esatti motivi del veto.

A dire il vero, leggendo le molte esternazioni, pare di capire che un possibile modello organizzativo sia il Panopticon del filosofo inglese Jeremy Bentham, una sorta di grande piovra telematica centralizzata da cui tenere sotto controllo l’universo del malaffare, dalle organizzazioni criminali alle carceri italiane.

Prima di lui qualcosa di simile l’aveva tentata il suo omologo sempre a Catanzaro, Luigi de Magistris, ma non andò benissimo e finì tutto in una sorta di faida tra i magistrati del capoluogo calabro e i colleghi di Salerno. De Magistris finì la sua carriera giudiziaria e ne iniziò un’altra più fortunata in politica, anche se di breve durata, come succede ai tribuni.

Nemico implacabile della famigerata ’ndrangheta che ha colpito con numerosi blitz, Gratteri ha suscitato paragoni con il leggendario prefetto di ferro fascista Cesare Mori, nemico giurato e apparente demolitore, al tempo del fascismo, della mafia che però felicemente gli sopravvisse, organizzando lo sbarco degli alleati in Sicilia, nonostante le molte leggende sulla sua presunta fine.

In occasione della presentazione del suo ultimo volume, Gratteri, ospite di Corrado Formigli, ha preso posizione sulla recente riforma delle intercettazioni, una legge composta di tre soli articoli che nella sostanza fissa in quarantacinque giorni la durata delle intercettazioni e che il governo spaccia per una riforma garantista, tra lo sdegno dell’Associazione nazionale magistrati e della sinistra patibolare.

Trattasi della solita patacca rifilata ai creduloni, la nuova normativa peggiora addirittura l’attuale situazione di abuso dell’uso delle intercettazioni. Mentre l’attuale normativa prevede una durata per le captazioni di quindici giorni, rinnovabili dal giudice delle indagini preliminari, la nuova legge prevede un periodo iniziale più lungo di quarantacinque giorni anch’essi prorogabili per tutta la durata delle indagini.

Si vorrebbe spacciare per innovazione garantista o filocriminali un presunto obbligo di motivazione che il giudice delle indagini in caso di proroga avrebbe solo quando «l’assoluta indispensabilità delle operazioni per una durata superiore sia giustificata dall’emergere di elementi specifici e concreti, che devono essere oggetto di espressa motivazione».

Chi abbia dimestichezza con il linguaggio della burocrazia leguleia sa benissimo che «assoluta indispensabilità» e «elementi specifici e concreti» sono le solite formule di stile che renderanno possibili scontati prolungamenti delle intercettazioni, cui si adeguerà la giurisprudenza. Non cambierà nulla, anzi le cose peggiorano perché diventano più lunghi i periodi di intercettazione, da quindici a quarantacinque gironi. Esclusi una serie di gravi reati per cui tutto resta invariato.

È possibile che questa patacca su cui Gratteri e magistratura associata fingono di indignarsi, per il fastidio di dover scrivere qualche riga in più di motivazione, sia stata ideata dal governo per mascherare l’altra novità che attiene alla modifica di un articolo della legge sui servizi di sicurezza.

Quella con cui si prevede oltre al ricorso dei servizi all’uso di intercettazioni preventive – con mezzi micidiali come Graphite, il software no click venduto dagli israeliani al governo – anche che «le pubbliche amministrazioni e i soggetti che erogano servizi di pubblica utilità sono tenuti a prestare al Dis, all’Aise e all’Aisi collaborazione e assistenza necessarie per la tutela della sicurezza nazionale».

Università, ospedali, centri di ricerca, provider di telefoni e di servizi pubblici, social, perfino professionisti come notai, commercialisti, avvocati, dovranno collaborare e fornire informazioni riservate, su dipendenti, assistiti, collaboratori, utenti per imperscrutabili motivi di sicurezza nazionale.

La sinistra giustizialista, che per mera ignoranza si indigna di fronte alle lamentele di Gratteri o di qualche altro magistrato della provvidenza, dovrebbe chiedersi se l’abuso delle intercettazioni preventive contro giornalisti e ong non siano che l’altra faccia dell’utilizzo indiscriminato delle intercettazioni giudiziarie. Due facce della stessa medaglia illiberale e autoritaria, anche se ben celata sotto la toga di pubblico ministero.