Le sirene, la metro unico rifugio. Kiev è tornata all’inizio della paura (avvenire.it)

di Giacomo Gambassi

Reportage

Già 395 allarmi in questi primi mesi dell’anno. E gli ordigni, lanciati ora a pioggia dai russi, rischiano di bucare lo scudo aereo

roprio come accadeva nei primi mesi di guerra, la popolazione di Kiev torna a rifugiarsi nella metropolitana per i continui attacchi aerei. L’intensità dei raid è quella di tre anni fa (Proprio come accadeva nei primi mesi di guerra, la popolazione di Kiev torna a rifugiarsi nella metropolitana per i continui attacchi aerei. L’intensità dei raid è quella di tre anni fa – Ansa)

Le fiamme e il fumo avvolgono ancora il magazzino. «Sono passate ore dalle sei esplosioni che ci hanno svegliato all’alba», racconta Olena Vasylenko. È la vigilante che faceva il turno di notte nella guardiola a uno degli ingressi del polo logistico nella prima periferia di Kiev finito nel mirino di Mosca. Devastato da uno sciame di droni volati sulla capitale.

Il cratere più ampio è accanto alla idro-gru dei vigili del fuoco. «Sono depositi di generi alimentari e di farmaci. Tutti edifici civili – chiarisce Pavlo Petrenko, impiegato nella principale ditta di stoccaggio –. E in un’area circondata di casette basse». Nessun obiettivo militare: come quelli invocati ogni volta dal Cremlino per giustificare un blitz. L’odore è acre. I medicinali in fiamme fanno bruciare la gola. A partire da quelle dei sessanta pompieri in azione. «Per noi sono ormai interventi quotidiani», commenta Artem Kulik, portavoce di una delle squadre impegnate.

Numeri alla mano, Kiev è tornata sotto il fuoco russo che arriva dal cielo. Non accadeva dall’inizio della guerra. Complice l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca e l’apertura dei negoziati, Mosca ha scelto di accanirsi sulla capitale investendola di droni e missili. Per terrorizzare la città-simbolo dell’Ucraina.

Ma a far balzare la metropoli a tre anni fa sono anche le dichiarazioni del capo delle forze armate ucraine, Oleksandr Syrsky, che ventila una nuova offensiva via terra sulla città dalla Bielorussia, simile a quella delle prime settimane del conflitto, e che ipotizza di mobilitare fino a 30mila nuovi soldati al mese.

«Viviamo appesi a un filo, fra notizie di incursioni e allarmi che ci paralizzano», sospira Oksana Holovko che gestisce un piccolo bar di fronte al teatro dell’Opera nazionale. Ancora aperto. Ma, come tutta la città, costretto a fermarsi quando suonano le sirene. Si bloccano i bus; si paralizzano i treni che attraversano i ponti sul fiume Dnepr, al centro della capitale; chiudono i grandi magazzini; si corre nelle stazioni della metropolitana che diventano rifugi.

Dall’inizio del 2025, gli allarmi antiaerei sono scattati 395 volte fra il capoluogo e la regione, certifica il sito Air-allarms. Dopo le oblast lungo la linea del fronte e a ridosso del confine russo, è quella maggiormente presa di mira. Con ordigni lanciati a pioggia e quindi capaci di neutralizzare lo “scudo aereo” voluto della autorità nazionali che aveva fatto di Kiev «una delle città più al riparo dai bombardamenti al mondo», raccontano lungo le strade.

Il cambio di tattica russo e la decisione di impiegare armi e risorse per i raid massicci sulla capitale hanno portato a registrare 116 esplosioni negli ultimi cento giorni. Tre i morti soltanto a marzo. Non è un caso che l’amministrazione comunale abbia già lanciato l’allarme per la Pasqua: «Chiediamo ai leader religiosi di limitare le celebrazioni pasquali e di garantire il massimo numero di trasmissioni online dagli edifici di culto.

Inoltre, dato l’aumento del rischio di attacchi, invitiamo ad adottare le misure di sicurezza necessarie durante le liturgie: in particolare, informando le comunità sulle procedure da seguire in caso di attacco e predisponendo percorsi facili per raggiungere i rifugi più vicini».

Sono vortici di ordigni quelli che si abbattono su Kiev, stando alle carte che ricostruiscono i raid più recenti: fino a trenta i droni che in contemporanea vengono indirizzati verso la città da sud e da est; o, com’è successo a inizio aprile, sei i missili balistici che li accompagnano ma «solo uno è stato intercettato», rende noto il comando dell’Aeronautica militare.

A far crescere il panico è anche l’ennesima trasformazione russa che è stata apportata ai droni: non più solo velivoli kamikaze, ma anche in grado di «disperdere oggetti esplosivi». Come piccoli tubi neri in plastica che deflagrano a distanza di tempo: ne possono far cadere «fino a trenta», spiega il ministero degli Interni. E la stampa locale avverte: «A Kiev sono già stati individuati».

«C’è bisogno dell’aiuto di tutti per difendere la capitale», sostiene Andriy Verlatyi, fondatore della brigata Dftg. Centocinquanta volontari, tutti civili o militari in congedo, che sono pronti a partire con i loro pickup su cui montano le mitragliatrici per abbattere i bersagli aerei nei cieli intorno alla città. «Giorno e notte», sottolinea. Le donne sono oltre la metà.

Una «formazione partigiana», la definisce l’ex soldato che l’ha ideata. Nata nei primi giorni di conflitto, fra febbraio e marzo 2022, per «cacciare l’invasore delle nostre terre: Bucha e Irpin». Le cittadine a trenta chilometri da Kiev, diventate campo di battaglia dove «abbiamo fermato l’avanzata di Putin», aggiunge Andriy. Oggi il nemico che punta verso la capitale ha messo le ali. Quattro i gruppi mobili che la brigata coordina. «Vorremmo arrivare a dieci. La caccia ai droni è sempre più difficile. Spesso ne vengono usati due in parallelo: uno per avvistare l’obiettivo; l’altro per colpirlo.

Ci appostiamo fuori dai centri urbani. Perché quando un drone esplode anche in aria, può causare gravi danni. E serve proteggere la popolazione». Andriy torna a tre anni fa. «Potrà succedere di nuovo l’assalto a Kiev? Noi ci saremo sempre per salvarla». Il riferimento è alle parole di Syrsky che annuncia le prove di esercitazioni congiunte fra gli eserciti di Russia e Bielorussia.

Come alla vigilia della guerra. «Non si può escludere uno scenario analogo a quello del 2022 – afferma il generale – quando sotto le mentite spoglie delle esercitazioni venne lanciata l’invasione su vasta scala». E la colonna di mezzi blindati e di truppe che dalla Bielorussia era partito aveva un’unica meta: la capitale.

Claudio Borghi e le iperboli (butac.it)

di 

La complessa situazione economica internazionale 
andrà in onda in forma ridotta per venire 
incontro alle vostre capacità mentali

Il 12 aprile 2025 sul profilo del senatore Claudio Borghi è apparso questo post:

La Russia era il nostro fornitore di energia. Stati Uniti sono il cliente dei nostri prodotti. Cina e Germania sono i concorrenti. Il nostro interesse sarebbe fare pace con il fornitore, trattare bene il cliente, mettere dazi si (sic) nostri concorrenti. La UE vuole il contrario.

Abbiamo pensato di fare cosa utile (in primis per il senatore) ad analizzare quanto da lui sostenuto.

“La Russia era il nostro fornitore di energia”

VERO. La parte corretta è soprattutto l’uso del tempo verbale passato – perché dal 2021 l’Italia ha diversificato le sue fonti energetiche, riducendo in maniera drastica le importazioni dalla Russia. Oggi il nostro principale fornitore di gas è l’Algeria. Non sta a me dire se questo sia un bene o no, ma è necessario che il Senatore aggiorni i suoi dati.

 La Russia non è più il nostro principale fornitore di gas, parlarne come se a causa di questo rischiassimo di patire il freddo è sbagliato: i fatti dal 2021 hanno dimostrato che non è così. Si diversifica anche per non dipendere dai singoli Paesi fornitori.

“Gli Stati Uniti sono il cliente dei nostri prodotti”

PARZIALMENTE VERO. Gli Stati Uniti sono un cliente importante dei nostri prodotti, ma secondo le analisi sulle esportazioni il Paese che importa più prodotti dall’Italia è proprio quello che il senatore nomina per ultimo: la Germania.

Riporta SOA:

Il principale paese che importa dall’Italia è la Germania che incide per un 12% sulla quota totale. Poi abbiamo gli USA e paesi europei come la Francia, la Spagna, il Regno Unito, la Svizzera e il Belgio.

Gli Stati Uniti si discostano poco dalla Francia, che fino al 2021 era al secondo posto dopo la Germania e solo nel 2022 è passata al terzo posto, ma quello che salta all’occhio guardando la lista è che in generale, facendo le somme, i Paesi europei sono i nostri principali partner per le esportazioni.

Germania, Francia e Spagna fanno un 27,5% delle esportazioni totali, contro un 10,4 degli Stati Uniti. Ha più senso tenersi amici quei tre vicini di casa o scegliere di fare la guerra con quello di loro che oggi è il nostro principale partner commerciale? Sì, perché la Germania non è solo il Paese dove esportiamo di più, ma anche quello da cui importiamo di più; a seguire la Cina. Dagli States invece importiamo solo il 3,8% delle merci.

 “Cina e Germania sono i concorrenti”

PARZIALMENTE VERO. Cina e Germania sono sicuramente nostri concorrenti in vari settori industriali e manifatturieri, ma sono anche partner commerciali importanti: come avete potuto vedere la Germania non è solo il principale acquirente di prodotti Made in Italy, ma anche il principale venditore di prodotti Made in un altro Paese in Italia.

“La UE vuole il contrario”

FALSO. L’Unione Europea ha adottato sanzioni contro la Russia in risposta all’invasione dell’Ucraina, e omettere questo dettaglio è un errore da penna rossa. Inoltre ha negoziato accordi commerciali con gli Stati Uniti e ha in essere una politica commerciale che promuove il libero scambio tra Paesi membri – Germania inclusa – che come avete visto al momento è il nostro miglior cliente.

Sostenere che l’UE non vuole il nostro interesse è una semplificazione, purtroppo completamente sbagliata, delle sue complesse politiche economiche. Politiche che ovviamente non hanno in alcuna maniera lo scopo di danneggiare gli interessi italiani, ma di difendere quelli di tutti i Paesi membri.

Concludendo

Come avete potuto vedere, pur corrispondendo in parte alla verità, le affermazioni del senatore Borghi presentano una versione semplificata dei fatti, omettendo informazioni basilari per potersi fare un’idea più precisa. I fatti, invece, vanno sempre analizzati all’interno del contesto e tenendo conto della complessità delle interazioni economiche globali: ridurre tutto a una frasetta da terza elementare è sbagliato.

Chi fa così sta cercando di parlare a quegli elettori che – vuoi per scarsa educazione, vuoi per pigrizia mentale – non andranno mai a verificare i fatti. Ricorda molto da vicino l’attuale presidente degli Stati Uniti.

Ricchezze e divari la verità dei numeri americani (corriere.it)

di Giuseppe Sarcina

Il simbolo dell’America è un’Aquila dallo sguardo 
severo, dominatore. 

Donald Trump, invece, ci sta raccontando il Paese più potente come se fosse un volatile impacciato, spiumato da tutti gli altri governi del pianeta.

Non solo dagli avversari cinesi, ma anche dagli alleati storici, gli europei «parassiti» e irriconoscenti. E persino dal piccolo e anonimo Lesotho, colpevole di fornire, sotto costo secondo Trump, il denim, il cotone che serve a confezionare i jeans, come quelli della Levi’s. Il mondo descritto da Trump tocca le vette della manipolazione.

A suo modo è un capolavoro della comunicazione. Ma le cose non stanno proprio così. Basta esaminare alcune cifre elaborate dalla Banca Mondiale per scoprire che negli ultimi decenni sono stati gli Usa a guadagnare quote di mercato, ad arricchirsi più di altri e anche a spese degli altri. Nel 2008 il Prodotto interno lordo degli Stati Uniti era pari a quello dell’Eurozona: circa 14 mila miliardi di dollari.

Quindici anni dopo, nel 2023, il Pil americano è balzato a quota 27 mila miliardi di dollari, quasi il doppio di quello dell’Eurozona, rimasto inchiodato a 15 mila miliardi. Ancora, nel 1990, il salario medio annuo americano si aggirava intorno ai 53 mila dollari, diecimila in più rispetto alla media dei 38 Paesi raccolti nell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.

Nel 2023 la forbice si è ulteriormente allargata: lo stipendio medio Usa ha toccato quota 80 mila dollari, quello dell’Ocse è salito a un ritmo molto più lento, attestandosi a 58 mila dollari.

Infine il dato forse più sorprendente, aggiornato al 2024. Il reddito pro capite dello Stato più povero degli Usa, cioè il Mississippi, è pari a 53 mila dollari, una cifra superiore a quella di Regno Unito (52,420 dollari), Francia (48.010 dollari), Italia (40.290 dollari), Spagna (35.790 dollari). Solo la Germania va un po’ meglio del fanalino di coda degli Usa.

Le statistiche ufficiali della Banca Mondiale e del Fondo monetario internazionale, quindi, smentiscono alla radice la rappresentazione trumpiana. Eppure questi numeri non fanno breccia nel dibattito interno. Solo qualche analista, come Fareed Zakaria, li ha evocati di recente, sulla «Cnn».

In fondo sarebbero un buon argomento nelle mani dell’opposizione democratica: l’America non è affatto svantaggiata; anzi ha progredito più di tutti, quindi non c’è bisogno di alcuna rivincita, di alcuna guerra commerciale o economica.

La corsa americana comincia da anni lontani. Il dibattito è aperto. I repubblicani dicono con Ronald Reagan (1981-1989); i democratici con Bill Clinton (1993-2001). In ogni caso la grande trasformazione dell’economia americana inizia tra gli Ottanta e i Novanta, con la formidabile spinta della finanza, della tecnologia digitale, mentre la manifattura tradizionale piano piano si ridimensiona.

Come abbiamo visto aumenta la ricchezza in termini assoluti e anche pro capite; lievitano i salari. Il problema, però, è che stiamo parlando di grandezze medie che non bastano per rispondere a una domanda chiave: come sono state distribuite, nel concreto, in modo capillare, le risorse aggiuntive tra la popolazione?

Per rispondere ci viene in soccorso l’Indice di Gini, il parametro che misura il grado di disuguaglianza nella società. Funziona come una pagella, ma al contrario. Zero è il punteggio massimo: uguaglianza perfetta; 100% è il minimo: disuguaglianza totale.

Ebbene negli Stati Uniti ricchezza e squilibri nella distribuzione sono sostanzialmente cresciuti in parallelo. Nel 1981, anno primo dell’era reaganiana, l’Indice di Gini era pari a 35,5%; nel 1993, con Clinton alla Casa Bianca, era salito al 38%. Nel 2022, ultimo anno disponibile nella seria della Banca Mondiale, l’indice ha raggiunto il 41,3%. Certo, la curva ha oscillato un po’ tra alti e bassi, ma il trend è molto chiaro, così come il significato politico.

Né le Amministrazioni repubblicane, né quelle democratiche, partendo da Reagan, saltando a Clinton e poi fino a Barack Obama, Donald Trump I e Joe Biden sono riuscite a distribuire più equamente l’enorme ricchezza prodotta dal Paese. Qualcuno, come Obama, ci ha provato più di altri.

Ma i dati mostrano che oggi il livello di ineguaglianza negli Usa è simile a quello della Malesia, dell’Argentina, del Messico e, ironicamente, dello stesso Lesotho. I Paesi concorrenti devono affrontare squilibri minori. In Cina, il valore dell’Indice di Gini è 35,7%, in India, 32,8%, in Germania 32,4%, in Italia 34,8%.

Più un Paese è ricco, meno sono accettate le disuguaglianze. È la ragione che, forse più di altre, ha riportato Trump nello Studio Ovale. Ma il presidente, anziché affrontare il malfunzionamento strutturale della distribuzione interna del reddito, ne ha scaricato la responsabilità sugli altri Stati. Quei partner economici e commerciali che negli ultimi decenni hanno dovuto accettare lo strapotere finanziario, tecnologico, monetario degli Usa.