Una Domenica delle Palme insanguinata (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Bambini uccisi nella strage di Sumy, come nel 
parco giochi di Kryvyj Ryh. 

Nel bombardamento dell’ospedale Ahli, come ogni giorno a Gaza. Come il 7 ottobre. Una mattanza, in un mondo che di bambini è diventato avaro

(LaPresse)

Ormai l’avrete sentito: questo è l’anno, il primo dopo undici, in cui la Pasqua ortodossa si celebra nella stessa data di quella cattolica e delle altre confessioni cristiane. Nella piazza romana di San Pietro i fedeli festeggiavano la domenica delle Palme con il Papa Francesco redivivo.

In una piazza nel centro di Sumy , capoluogo dell’oblast’ omonimo, a trenta chilometri dalla frontiera nel nordest ucraino, un doppio colpo di missili ha fatto strage di persone radunate dalla domenica delle Palme , che in questo clima è la domenica dei Salici. “Stavano andando a pregare”. Scrivo quando i morti sono 34 ei feriti 119 . E’ morta Olena Kohut, organista e pianista solista della Filarmonica regionale, era all’interno della Filarmonica quando è avvenuto l’attacco.

E’ stato colpito un autobus bianco e rosso, sono morti quelli che erano a bordo: non tutti, una madre con la sua piccola è riuscita a saltare giù, un tredicenne si è buttato nelle fiamme per tirarne fuori qualcuno.   Fra i colpiti nella piazza, due bambini sono morti, 15 bambini feriti . Bambini, come i nove uccisi una settimana prima nel parco giochi di Kryvyj Ryh – più undici adulti, là. (Bambini, come il 7 ottobre in Israele, 36 uccisi, 30 rapiti, bambini, come ogni giorno innumerevoli a Gaza. Bambini, a differenza che in Russia).

Ma voglio estrarre quest’ultimo dettaglio dalla parentesi, e lasciarlo libero del suo splendore: i bambini vengono uccisi su tutti i fronti delle guerre di cui si parla e si piange: tranne che in Russia. Questa è una magnifica eccezione. Nessuno infatti, nessuna, può augurarsi che per saldare il conto vengano uccisi bambini in Russia.

In Russia oltretutto si trovano anche le migliaia di bambini rapiti in Ucraina. Si prega solo che i bambini non vengano uccisi, da nessun lato dei fronti. Nemmeno i vecchi e gli adulti, del resto. Ma i bambini, le bambine, non occorre dire perché di più. E in un mondo che ne è diventato avaro.

I missili balistici erano Iskander-M/KN-23, lanciati dai distretti russi di Voronezh e di Kursk. Il primo serviva ad ammazzare e radunare la gente attorno agli ammazzati. Il secondo era destinato al raduno e caricato con proiettili a frammentazione destinati ad esplodere prima dell’impatto sul suolo, in modo da ampliare il raggio di distruzione. “Un errore”, hanno detto a Trump. C’è il metodo negli errori.

L’Ucraina ha formalmente accettato il cessate il fuoco di 30 giorni, senza condizioni, trattato dagli americani a Jeddah lo scorso 11 marzo, cioè un mese e due giorni prima della strage di Sumy. La Russia l’ha ignorato e vilipeso, e ha accresciuto a oltranza i bombardamenti sulle città e l’attacco al fronte nord-orientale di Kharkiv e di Sumy, non più impedito dall’occupazione ucraina di una parte del Kursk.

Tutta questa fase delle operazioni è stata svolta dall’esercito russo sotto l’ombrello, come si dice, degli Stati Uniti di Trump, il quale dice a ore alterne di essere molto soddisfatto di come vanno i negoziati di pace con la Russia, e di essere irritato da come vanno, e dall’eccesso di morti ammazzati.

Quando i russi gli hanno chiarito cha a Sumy è stato un errore, se n’è saziato.  Da noi, con alcune dignitose eccezioni, la guerra della Russia all’Ucraina viene trattata come una seccatura protratta da evadere, salvo nominare ogni tanto i morti ammazzati, non tanto per compiangerli quanto per rinfacciarli a Zelensky e agli ucraini, che si prestano fervidamente al proprio massacro. (Ci sono delle avanguardie cui non la si fa, e spiegano che a Sumy non è successo e che la mamma con la bambina è una comparsa e che se la strage se la sono fatta gli ucraini, “come a Bucha”).

C’è una convenzione informale fra persone educate a evitare la reductio ad Hitlerum: non è ragionevole quanto alla realtà effettiva, né intelligente quanto alla peculiarità degli eventi storici.

Oggi Alessandro Barbero spiega appunto che la Russia non è la Germania di Hitler. E lo è la Germania di Friedrich Merz, cui ha così ironicamente alluso replicando a un fake di Bottura? Ieri Luciano Canfora spiegava, invece, che Gaza è esattamente come Auschwitz. La reductio ad Auschwitz sì? 

La scadenza “fissata” da Trump per l’entrata in vigore del cessate il fuoco è al 20 aprile, il giorno di Pasqua di Resurrezione. La domenica dei Salici è stata festeggiata da missili, droni Shahed e bombe di fascisti e plananti anche a Kherson, su un ospedale di Odessa, a Kupyansk, e in varie altre località della (“martoriata”) Ucraina.

“L’attacco delle forze russe su bersagli civili a Sumy ha superato i limiti della decenza” – ha dichiarato il mortificato Keith Kellogg, già inviato speciale da Donald Trump per la Russia e l’Ucraina. Per rappresaglia, d’ora in poi gli attacchi delle forze russe su bersagli civili verranno definiti indecenti. Il nunzio apostolico, monsignor Visvaldas Kulbokas, che parlava in italiano, è andato al sodo. “Non altro rimane che rivolgersi al Signore, affinché sia ​​Lui a difendere, poiché sembra che nessun’altra forza sia capace di proteggere la pace e la vita. Che il Signore abbia pietà di noi”.

Le coincidenze imperversano. “Dura condanna della diocesi episcopale di Gerusalemme per gli attacchi missilistici di oggi contro l’ospedale arabo Ahli, a Gaza, gestito dalla Chiesa anglicana, colpito da due missili . Poco prima del bombardamento, l’esercito israeliano aveva ordinato di evacuare i locali dell’ospedale. Un bimbo, in precedenza colpito alla testa, è morto a causa dell’affrettata evacuazione. La diocesi esprime tutto il suo sgomento per il bombardamento dell’ospedale, avvenuto nella Domenica delle Palme”. (Le due citazioni sono tratte da Vatican News).

I campi di rifugiati del Darfur, Zamzam e Abu Shorouk, che sono arrivati ​​a contenere – contenere, luoghi di contenzione – 700 mila persone, vengono a loro volta bombardati da una delle due fazioni militari. Domenica – ma là se ne fottevano delle Palme – 100 morti, di cui “solo” 20 bambini. L’ultimo bilancio dell’Onu, dopo due anni di “guerra”, certifica che “quasi 10 milioni di sudanesi abbandonati hanno le proprie case, la metà dei quali sono bambini”.

C’è, in questa vigilia di Pasqua, un’aria di Natale.

Migranti, 3.500 minorenni morti o scomparsi nel Mediterraneo centrale nell’ultimo decennio (unicef.it)

Minorenni migranti e rifugiati
Dieci anni fa, circa 1.050 persone salirono a bordo di una fragile imbarcazione di legno a Tripoli, in Libia – una barca lunga più o meno quanto un campo da tennis.

Molti di loro fuggivano da guerra e conflitti. Speravano di raggiungere un luogo sicuro in Europa. Invece, con il calare della notte, la barca sovraffollata affondò, uccidendo 1.022 persone. Solo 28 sono sopravvissute.

Nonostante le promesse di un “mai più” dopo la tragedia del 2015, si stima che da allora circa 3.500 bambine, bambini e adolescenti siano morti o scomparsi tentando lo stesso viaggio verso lItalia  una media di un/a bambino/a al giorno. In totale, sono state oltre 20.800 le vite perse lungo questa rotta pericolosa.

Sappiamo che questi numeri sono probabilmente sottostimati. Molti naufragi non vengono registrati e spesso non ci sono sopravvissuti. In molti casi è impossibile verificare l’età delle vittime. Il numero reale è probabilmente molto più alto.

Bambine e bambini rappresentano quasi il 17% di coloro che attraversano il Mediterraneo centrale per arrivare in Italia. Di questi, circa il 70% viaggia da solo, senza un genitore né un tutore legale.
I/le minorenni che arrivano in Europa sono fuggiti da guerra, conflitto, violenza o povertà estrema. Sono in pericolo durante tutto il percorso, costantemente esposti a sfruttamento e abusi.

Per disperazione, hanno affrontato rischi potenzialmente letali per raggiungere un rifugio sicuro. Molti hanno affidato la propria vita a trafficanti interessati solo al denaro. Non alla sicurezza. Non alla morale. Solo al denaro.
Una barca danneggiata, circondata da detriti, giace capovolta sotto la linea di galleggiamento al molo Favaloro, principale punto di sbarco dell’isola di Lampedusa, in Italia. Settembre 2023
Ho visto questo con i miei occhi la scorsa settimana a Lampedusa, dove ci sono minorenni che erano stati stipati in stive buie e senza ventilazione. Alcuni sono arrivati in Italia con ustioni sulla pelle, causate dal contatto prolungato con il carburante.
Questo è il prezzo della mancanza di percorsi sicuri e legali – un prezzo che viene pagato da bambine e bambini. E che continua ad alimentare i profitti dei trafficanti.
L’UNICEF è presente sul territorio in Italia, dove lavoriamo con il Governo e altri partner per rispondere ai bisogni immediati di bambini e adolescenti e per sostenere la loro inclusione a lungo termine nelle comunità in cui vivono oggi. E operiamo nei Paesi d’origine per affrontare le cause alla radice che alimentano i flussi migratori globali – dalla povertà ai cambiamenti climatici, fino ai conflitti.
Ora i Governi devono fare di più. Chiediamo loro di utilizzare il Patto su Migrazione e Asilo per mettere al centro linteresse superiore delle persone di minore età. Chiediamo il coordinamento nelle operazioni di ricerca e soccorso, sbarchi sicuri, accoglienza su base comunitaria e accesso ai servizi per l’asilo. In ultima analisi, dobbiamo fare di più – insieme – per affrontare le cause alla radice nei Paesi d’origine, che costringono bambine, bambini e adolescenti a mettere a rischio la propria vita.
Operatrice UNICEF con Minori Migranti non Accompagnati
Chiediamo più investimenti nei servizi per linfanzia – perché ogni minorenne in ogni centro di accoglienza ha diritto agli stessi diritti e servizi di una bambina o un bambino nato nellUnione Europea.Stiamo entrando nel periodo dell’anno con il picco degli arrivi. A Lampedusa, ho appreso che negli ultimi giorni sono arrivate circa 1.000 persone, tra cui ottanta minorenni non accompagnati.

La situazione al momento è sotto controllo e i trasferimenti vengono gestiti in modo abbastanza rapido ed efficiente. Ma ci sono preoccupazioni su dove vengano inviate persone di minore età non accompagnati, quanto tempo restino nei centri di prima accoglienza e cosa succederà quando – inevitabilmente – gli arrivi aumenteranno con l’arrivo dell’estate.

A dieci anni da una tragedia che avrebbe dovuto cambiare tutto, la realtà è chiara: le promesse di un “mai più” non sono state mantenute. Con sempre più bambine e bambini che rischiano la vita per raggiungere un luogo sicuro, l’urgenza di agire con principio e determinazione non è mai stata così grande. Abbiamo bisogno di azione. Ora.

Sintesi dell’intervento di Nicola Dell’Arciprete, Coordinatore dell’UNICEF in Italia, al Palais des Nations di Ginevra.

Effetto Bibbiano: boom di aggressioni agli assistenti sociali (ildubbio.news)

di Emilio Minervini

Giustizia

Dopo l’inchiesta sui presunti affidi illeciti, la categoria è stata criminalizzata, scatenando l’odio di chi si sente vittima dei Servizi

È quella degli assistenti sociali la categoria professionale maggiormente vittima di aggressioni in Italia. Colpa, anche, dell’effetto Bibbiano e la disinformazione sull’inchiesta relativa agli affidi che ha scatenato odio e violenza nei confronti di professionisti a stretto contatto con le famiglie, che si sono visti, all’improvviso, trasformati da angeli in demoni, come recita il nome dell’inchiesta.

Il dato emerge dal monitoraggio disposto dalla legge 14 agosto 2020, n. 113, avente ad oggetto “Disposizioni in materia di sicurezza per gli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle loro funzioni”, che ha istituito l’Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti le Professioni Sanitarie e Socio-sanitarie (Onseps), presso il ministero della Salute. Negli ultimi anni, stando allo studio, si è assistito a un aumento esponenziale di episodi di violenza, subiti da persone esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie.

La fotografia del fenomeno delle aggressioni ai danni dei professionisti sanitari e socio sanitari, relativa al 2024, è stata composta grazie ai dati raccolti dalle diverse federazioni professionali, per conto dell’Onseps, tramite la somministrazione di questionari anonimi.

Nonostante la pubblicità la partecipazione degli iscritti alle varie federazioni è stata ridotta, in alcuni casi non ha raggiunto il 5 per cento del totale degli iscritti, problema non da poco per le finalità di monitoraggio perseguite dall’Osservatorio.

Nonostante la parziale adesione degli interessati, il sondaggio offre comunque la possibilità di delineare i contorni del fenomeno. I professionisti che hanno subito un’aggressione nel 2024 sono 7.230, mentre le aggressioni totali sono 18.700. Le federazioni con il maggior numero di professionisti vittima di aggressione è quella di medici e odontoiatri con 2.006 unità, seguono i farmacisti con 1971 e gli assistenti sociali con 1.055. Se però si incrociano i dati relativi alle persone che hanno subito un’aggressione e il totale delle aggressioni per federazione, i risultati cambiano.

Per 1055 assistenti sociali vittime di almeno un’aggressione si hanno 6.867 aggressioni, il numero più alto registrato tra le varie federazioni, con un tasso di 6,5 aggressioni subite a persona. La seconda federazione più esposta è quella degli infermieri, con 248 persone che hanno subito almeno un’aggressione e 1.543 aggressioni totali, un tasso di 6,2 a persona.

La prevalenza delle aggressioni, 12.500 del totale, è di tipo verbale. Le restanti 6.200 sono state di tipo fisico o contro la proprietà, è il caso di un’utente, che il 26 marzo è entrata nell’ufficio del servizio sociale di Torino armata di mazza da baseball, distruggendo gli arredi. Nella maggior parte dei casi sono gli stessi pazienti, familiari o persone deputate alla cura (caregiver) ad aggredire il personale, in poche eccezioni si sono registrate aggressioni ad opera di estranei.

La dimensione di genere risulta rilevante in molte federazioni, con una maggiore esposizione delle donne che rappresentano l’81% dei professionisti interessati dal fenomeno. Il dato è da leggere in relazione al fatto che le professioni in esame sono per la maggior parte a composizione femminile.

Anche l’età è un fattore d’interesse, secondo quanto riportato dal sondaggio le fasce comprese tra i 30 e 39 e 40 e 49 anni d’età sono le più colpite. Sembrerebbe inoltre esserci una diversa incidenza di detti eventi tra il settore privato e quello pubblico, per medici, ostetriche e assistenti sociali il contesto pubblico è quello più critico.

Gli assistenti sociali risultano essere la categoria più colpita tra quelle oggetto dello studio. Il Consiglio nazionale ordine assistenti sociali (Cnoas) fa riferimento a venti consigli regionali, con 47.758 iscritti all’albo, il sondaggio ha raccolto 11.356 risposte di cui 10.922 valide, pari al 96,17%. I professionisti vittima di aggressione, 1.055, rappresentano all’incirca il 10% delle risposte valide. Il totale di 6.867 aggressioni è così suddiviso: 312 fisiche (4,5%), 5828 verbali (84,86%), 347 contro la proprietà (5,05%).

Come anticipato quella dell’assistente sociale è una professione a prevalenza femminile, dei 1055 professionisti vittime d’aggressione 984 sono donne e 65 uomini. Il numero degli eventi varia su base territoriale, la regione più colpita è la Lombardia con 216, seguono Toscana con 96, Piemonte con 88 e il Veneto con 80, smentendo una narrazione che vorrebbe le regioni del meridione più esposte a questo tipo di fenomeni.

La maggior parte delle aggressioni si verifica entro o nelle vicinanze degli uffici del servizio sociale con 3211 eventi. Gran parte delle aggressioni, 3.538, sono perpetrate dagli assistiti, a cui si aggiungono le 1.858 effettuate dai parenti e le 506 ad opera di estranei.

Il primo sondaggio del 2017, i cui risultati hanno permesso l’inserimento della professione tra quelle tutelate dalla legge 113/2020, aveva coinvolto il 48% degli iscritti. Il tasso di risposta per il sondaggio del 2024 è stato del 25%.

Il calo del 23% delle risposte a otto anni di distanza potrebbe essere una delle conseguenze, appunto, dell’affaire Bibbiano, la cui speculazione mediatica e politica hanno creato forti distorsioni nella percezione di una professione che, per le sue caratteristiche intrinseche, è molto esposta e opera principalmente in contesti di marginalità. 

Le minacce di morte sono ora all’ordine della settimana e, in base a quanto riportato dagli assistenti sociali, se prima chi aggrediva o minacciava si rendeva conto della scorrettezza del proprio atto, ora sembra che le persone si sentano autorizzate ad agire in modo violento.

In vino veritas (corriere.it)

di Massimo Gramellini

Il caffè

Dal vangelo secondo Lollo abbiamo appena appreso che Gesù moltiplicò il vino, ma è preferibile sospendere ogni giudizio, almeno fino a quando il ministro dell’Agricoltura con delega al buonumore non completerà la revisione del Nuovo Testamento rivelando che alle nozze di Cana l’acqua venne tramutata in pani (e la gasata in pesci).

Vale invece la pena soffermarsi sulle dichiarazioni non meno miracolose rilasciate al Senato dal suo collega della Giustizia, Nordio. Se le carceri sono affollate, ha detto, «la colpa non è del governo, ma di chi commette reati e della magistratura che li mette in prigione».

Il ragionamento non fa una grinza, anzi, si può agevolmente estendere ad altri settori. La sanità, per esempio: se gli ospedali sono affollati, la colpa è dei pazienti che si ammalano e dei medici che li operano.

In effetti, se nessuno rubasse o uccidesse non ci sarebbe più alcun bisogno di costruire nuove carceri, e anche le vecchie, opportunamente ristrutturate, verrebbero riconvertite in airbnb.

Poiché però la trasformazione degli esseri umani in cherubini potrebbe ancora richiedere qualche millennio, il modo più rapido per ridurre l’affollamento degli istituti di pena non consiste nell’aumentarli di numero, ma nello smettere di mandarvi i condannati.

Senza contare che l’idea di moltiplicare le carceri è un indice infallibile di pessimismo. Meglio non pensarci, e moltiplicare il vino.

La mitologia pacifista, e la dissoluzione del dibattito pubblico (linkiesta.it)

di

Culto della presenza

La manifestazione dei Cinquestelle a Roma è servita soltanto a creare contenuti virali da far girare sui social.

L’unico obiettivo raggiunto è quello di produrre visibilità per quella parte di politica che insegue solo slogan per trovare una forma di legittimità

C’è qualcosa di profondamente inquietante nel modo in cui il concetto stesso di manifestazione si è svuotato. Non più gesto collettivo dotato di progettualità politica, ma esercizio scenico di una volontà astratta, destinata non a incidere sulla realtà, ma solo a produrre rappresentazione. La manifestazione contro il riarmo andata in scena a Roma non è stata un evento politico: è stata un contenuto.

Non conta più ciò che si afferma, ma il fatto che si sia presenti. “Io c’ero”, declinato in infinite varianti digitali, ha sostituito “io penso”, “io rischio”, “io decido”. In questa nuova religione della presenza, il giornalismo si inginocchia accanto alla politica e all’influencer, nella stessa posa, con la stessa smania di legittimazione visiva. Marco Travaglio che prende parola in piazza non è un gesto neutro: è la dissoluzione del confine tra chi analizza e chi agisce. Un giornalista in piazza è un performer, non un cronista. E se non è ingenuo, allora ha un interesse. In entrambi i casi, il risultato è tragico.

A fare da cornice ideologica a questo teatro, c’è il pacifismo recitato di Tomaso Montanari, che ha detto: «La pace è il più sano dei realismi». Una frase nobile, a patto che venga detta in un seminario di letteratura comparata, non in un continente circondato da minacce armate e in fase di de-polarizzazione strategica. Ma si sa, al pacifismo borghese non interessa la realtà. Gli interessa la coerenza simbolica del proprio posizionamento morale.

E se questa frase già suona come un versetto da catechismo morale, il contesto in cui è stata pronunciata merita una nota a parte. Montanari non ha partecipato fisicamente, ma ha inviato un videomessaggio. Un’epistola da remoto, con tono da profeta in pantofole, probabilmente ritardato dai suoi doveri più urgenti – come cucinare per gli ospiti.

Così, dalla cucina o dal salotto, ha impartito la sua benedizione civile, introducendo la manifestazione con l’autorevolezza di un papa laico in smart working. Che il pensiero sia assente dal campo è grave. Ma che lo si annunci con toni oracolari dal terrazzo sfiora la pantomima.

Intorno a lui, come se non bastasse, prende posizione una delegazione del Partito democratico che si affretta a dichiarare di avere più punti in comune che divergenze con il Movimento 5 stelle. Come se questo, in sé, non fosse già una dichiarazione di resa.

È difficile stabilire se a parlare sia l’opportunismo o la confusione strategica – ma resta la sensazione netta che nessuno, tra i presenti, sapesse realmente che ci facesse lì. Il Partito democratico, in questa piazza, ha avuto la dignità di un coinquilino imbarazzato che si presenta alla cena sbagliata e decide di restare perché ha già tolto le scarpe.

L’idea che basti dire no alla guerra per fare politica internazionale è l’ultima illusione di una sinistra che ha smarrito non solo la forza, ma il coraggio della complessità. La pace non si dichiara. La pace si costruisce con l’intelligenza strategica, con gli strumenti della forza legittima, con la capacità di dissuadere chi vorrebbe distruggerti. Chi oggi rifiuta il riarmo in modo assoluto, non sta difendendo la pace. Sta contribuendo alla vulnerabilità. E lo fa in nome di un’etica che non sa farsi storia.

Ma ciò che rende questa manifestazione emblematica è il modo in cui il discorso politico è stato colonizzato dal dispositivo mediatico. Non è più la verità a fare scandalo, ma la viralità. A testimoniarlo, in modo tragicamente perfetto, è stata la diffusione di una foto falsa, generata con intelligenza artificiale da una celebrità digitale, che ha finto la propria presenza in piazza. Un gesto che, se fosse stato compiuto trent’anni fa, avrebbe portato allo sdegno. Oggi, è accolto con indifferenza. Perché la verità non è più rilevante.

Quella foto finta è, paradossalmente, il documento più autentico della giornata: rivela la struttura profonda dell’evento. La piazza non era uno spazio pubblico. Era un palcoscenico di presenze, vere o simulate, in cui ciò che conta è esserci, anche in forma algoritmica. E qui la politica sprofonda. Si dissolve nel social. Viene usata come scenografia morale per la narrazione personale, per il branding, per la promozione del proprio canale YouTube o della propria rubrica editoriale.

La manifestazione è fallita nel suo obiettivo, ma ha avuto successo nel suo scopo non dichiarato: produrre visibilità. Per i politici che cercano nuova legittimità. Per i giornalisti che vogliono ridefinirsi come attori. Per le figure marginali che si inseriscono nel discorso con la violenza visiva dell’intelligenza artificiale. È l’epoca in cui l’assenza di verità viene colmata con la quantità di visualizzazioni.

Ecco perché tutto questo non è solo grottesco. È grave.

Perché una democrazia che trasforma la discussione pubblica in narrazione algoritmica, disarma se stessa. Una società che confonde la messinscena con la lotta, la simulazione con la testimonianza, la presenza col pensiero – quella società è già stata sconfitta. Non sul campo di battaglia, ma nel linguaggio.

Mentre in Ucraina i missili cadono su quartieri residenziali, dilaniando nove bambini in un solo pomeriggio, mentre in Medio Oriente si ridisegnano con il fuoco le sfere d’influenza, mentre la tecnologia stessa riformula la grammatica del potere, noi restiamo immobili, ad applaudire manifestazioni in cui la politica si traveste da filtro, l’etica si degrada in meme, e la storia si riduce a hashtag da trend del giorno.

Nel silenzio che segue l’ennesimo slogan, resta solo il suono costante delle notifiche. Il mondo continua a bussare – con missili, dati, bambini morti. Ma chi ha trasformato la coscienza in un’interfaccia, non visualizza più. Scorre.