Numeri dei vertici di Stato online: MCC fa chiarezza, tra fuga di dati e piattaforme Usa (striscialanotizia.mediaset.it)

di Camisani Calzolari

Secondo alcune notizie, sarebbero finiti online 
i numeri di telefono di diversi importanti 
politici italiani. 

Ma MCC chiarisce: non si tratta di una vera fuga di dati.

I contatti provengono da piattaforme statunitensi a pagamento come RocketReach e Lusha, legali negli USA ma sotto osservazione in Europa. Il Garante della Privacy ha aperto un’istruttoria

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Il pacifismo è sempre e solo il corollario di un teorema totalitario (linkiesta.it)

di Carmelo Palma

Cosa vuole l’Ucraina?

I pacifisti che pensavano di salvare la pace a Monaco nel 1938 e che non volevano morire per Danzica nel 1939 sono gli stessi che oggi vorrebbero sacrificare l’Ucraina sull’altare della pace affaristico-mafiosa nella nuova Yalta russo-americana

In vista della mobilitazione euro-pacifista, in cui la sinistra italiana celebrerà festosamente il divorzio da quella europea e il matrimonio mistico con lo Spirito del tempo, che soffia forte da Washington e da Mosca, vale la pena di ricordare che il pacifismo è sempre stato (e per sua natura non può che essere) il corollario di un teorema totalitario.

Lo è stato nell’Europa che pensava di salvare la pace a Monaco nel 1938 o che non voleva morire per Danzica nel 1939; ha continuato a esserlo dagli anni cinquanta fino al crollo del Muro tra i partiti di osservanza comunista che stigmatizzavano il bellicismo della Nato (ma non quello del Patto di Varsavia) e per scongiurare l’apocalisse atomica volevano fermare la corsa agli armamenti contro l’impero sovietico.

Lo è, a maggior ragione, oggi nell’Occidente pacifista, che non è disponibile a compromettere il business as usual con la perigliosa difesa delle ambizioni europee dell’Ucraina, preferendo la tranquillità di un duplice e disarmato vassallaggio ai contraenti russo-americani di una nuova Yalta cleptocratico-mafiosa.

Il pacifismo, da un secolo a questa parte, è sempre stato la nobilitazione umanitaria della servitù dei deboli e la legittimazione morale della dominazione dei forti. Conta assai poco la buona o la cattiva fede del pacifista: il dato oggettivo è che il pacifismo giustifica, sempre e comunque, come dovere morale degli aggrediti e dei loro sostenitori l’accettazione del diritto politico dell’aggressore e dei suoi complici. Il pacifismo non ammette solo la violenza come kratos, cioè come potere, ma soprattutto la riconosce come arché, cioè come principio legittimo dell’ordine politico nazionale e internazionale.

È apparentemente curioso, ma i più efficaci e risoluti contestatori della vulgata pacifista in Italia sono stati i radicali, cioè i principali sostenitori della politica antimilitarista e della lotta nonviolenta. A spiegare tutto, in modo esemplare, è un formidabile documento parlamentare: l’intervento che l’allora deputato Roberto Cicciomessere tenne alla Camera il 16 gennaio 1991, poche ore prima della scadenza dell’ultimatum dell’Onu e dell’inizio all’operazione Desert Storm, a seguito dell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein.

Quell’intervento a distanza di quasi trentacinque anni rivela una tragica attualità, perché oggi rispetto al conflitto in Ucraina si sta riproponendo il medesimo canone pacifista, utilizzato ai tempi per scongiurare l’intervento delle forze alleate, peraltro forti di un mandato Onu, contro il regime di Saddam Hussein.

C’è l’accusa di far scoppiare la guerra rivolta a chi – a guerra ampiamente scoppiata – vuole ripristinare condizioni di legalità internazionale e non a chi l’ha fatta scoppiare, imponendo il diritto della forza contro la forza del diritto. C’è l’idea che le ragioni della pace impongano la neutralità tra l’aggressore e l’aggredito e l’appello alla resa del secondo per non eccitare la violenza e propiziare la benevolenza del primo.

C’è l’imputazione morale alla vittima che non si rassegna a essere tale e che sparge intorno a sé gli stessi semi di morte che la condannano. C’è lo stesso ripugnante candore con cui i salvati spiegano ai sommersi della storia che c’è una necessità e una giustizia nel loro sacrificio.

Nel suo intervento Cicciomessere spiega che non solo la nonviolenza, ma anche l’antimilitarismo sono una alternativa radicale al pacifismo. Il nonviolento predilige mezzi diversi per gli stessi fini della guerra giusta e mette a rischio la propria vita per fermare o almeno ingombrare l’azione dei violenti, mentre il pacifista consegna la vita e la libertà dei deboli alla volontà del loro carnefice. Il nonviolento fa politica col proprio corpo, il pacifista coi corpi degli altri.

L’antimilitarista lotta perché i complessi militari-industriali non diventino un potere separato e avverso al controllo democratico – e quindi ne smaschera le retoriche nazionaliste e gli interessi affaristici – ma non ritiene affatto che le armi siano un mezzo illegittimo di difesa del diritto degli Stati e della libertà degli uomini o che la loro legittimità sia subordinata a un particolare allineamento politico-ideologico.

In un passaggio dell’intervento, Cicciomessere dice a proposito dei pacifisti di sinistra che essi «utilizzano la nonviolenza con gli stessi criteri con i quali hanno usato in passato la violenza, cioè con la stessa impostazione ideologica per la quale in passato affermavano che uccidere un fascista non è reato e che la rivoluzione armata è giusta e sacrosanta».

È esattamente così: Pietro Secchia negli anni cinquanta animava i Partigiani della Pace contro la Nato continuando a coordinare la fazione militarista e rivoluzionaria del Partito comunista italiano. Negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta il pacifismo anti-americano patrocinava qualunque movimento militare di liberazione ai quattro angoli del pianeta, purché fosse anti-americano o presunto tale.

Oggi la grande parte del movimento pacifista anti-ucraino riconosce il diritto alla lotta armata (cioè, in questo caso, terroristica) dei sostenitori della causa palestinese contro lo Stato ebraico.

D’altra parte questo pacifismo double face non è solo appannaggio della sinistra; la malafede pacifista è ampiamente transpartitica come rispetto alla causa ucraina dimostra tutta la destra fascio-leghista di ieri, di oggi e di domani, pronta a invocare i blocchi navali e il dispiegamento delle cannoniere per difendere i sacri confini della patria dalle bagnarole dei migranti, ma disponibile a far mutilare l’Ucraina di un quarto del suo territorio per la causa della pace nel mondo e persuasa che la resistenza ucraina sia una molesta interferenza negli equilibri naturali della storia.

Alla fine, tutti i pacifisti, di qualunque colore, si assomigliano e si pigliano in questo disprezzo razzistico per le vittime designate nella catena alimentare della politica globale, finché non tocca a loro essere mangiati.

Sul Kosovo Salvini rilancia le tesi di Putin e dell’estrema destra (pagellapolitica.it)

di Davide LeoFederico Gonzato

Lega

Secondo il leader della Lega, «una minoranza cristiana sta resistendo e combattendo in Serbia». Ma le cose non stanno proprio così

Il 6 aprile, durante il congresso federale della Lega a Firenze, il leader del partito Matteo Salvini ha detto che «il tema della pace e della guerra vede il più grande tradimento della sinistra». «Ce lo ricordiamo quando le bombe con D’Alema andarono a colpire la Serbia, e adesso è una minoranza cristiana quella che sta resistendo e sta combattendo in Serbia», ha aggiunto Salvini.

Il riferimento è al 1999, quando, sotto il governo guidato da Massimo D’Alema (Partito Democratico della Sinistra), l’Italia partecipò ai bombardamenti aerei sulla Serbia durante la guerra con il Kosovo.

Al di là delle opinioni legittime sulla guerra e sulla sinistra, la ricostruzione fatta dal leader della Lega ha diversi problemi, e rispecchia la stessa narrazione promossa in Europa da movimenti di estrema destra e dal presidente russo Vladimir Putin.

Serbia o Kosovo?

Innanzitutto, bisogna chiarire il contesto a cui si riferisce Salvini quando parla di una «minoranza cristiana» che «sta resistendo e sta combattendo in Serbia».

Da mesi in Serbia si susseguono manifestazioni di piazza: ogni fine settimana, migliaia di persone protestano a Belgrado contro il presidente Aleksandar Vučić. Le proteste, innescate dal crollo di una pensilina della stazione di Novi Sad, che ha causato la morte di 15 persone, si sono allargate a una critica più generale verso la classe politica serba, accusata di corruzione. A fine gennaio, le manifestazioni hanno portato alle dimissioni dell’allora primo ministro Miloš Vučević, sostituito il 6 aprile da Djuro Macut.

In Serbia, però, la stragrande maggioranza della popolazione è cristiana. Secondo il Pew Research Center, un centro studi statunitense, oltre il 90 per cento dei credenti serbi è cristiano, e meno del 5 per cento musulmano. E come abbiamo visto, le proteste di questi mesi in Serbia non hanno a che vedere con questioni religiose.

Visto il riferimento a D’Alema e ai bombardamenti del 1999, è probabile che Salvini intendesse parlare del Kosovo, che nel 2008 ha dichiarato la propria indipendenza dalla Serbia ed è riconosciuto dall’Italia come Stato sovrano.

Negli ultimi mesi il Kosovo ha vissuto una fase di tensione legata alla minoranza serba, per lo più di fede cristiana ortodossa, e alle sue relazioni con la Serbia, che non ha mai riconosciuto l’indipendenza kosovara. È quindi possibile che Salvini abbia confuso la “Serbia” con il “Kosovo” nel fare riferimento all’area in cui si stanno verificando le tensioni politiche.

Non si può escludere, però, che il leader della Lega abbia parlato deliberatamente di “Serbia”, non riconoscendo di fatto l’esistenza di uno Stato che l’Italia riconosce pienamente. Come vedremo più avanti, le posizioni della Lega sull’indipendenza del Kosovo sono da tempo ambigue.

In ogni caso, con le sue parole Salvini ha ripreso alcune tesi della propaganda di estrema destra, sostenendo che in quelle aree una «minoranza cristiana» stia lottando e resistendo.

Il conflitto tra serbi e albanesi

Per spiegare meglio quanto sta succedendo in Kosovo, ci siamo rivolti ai colleghi di Hibrid.info, un sito kosovaro di informazione e fact-checking.

«La narrazione di una “minoranza cristiana che resiste e combatte” in Kosovo può essere fuorviante se non contestualizzata correttamente. Sebbene sia vero che il Kosovo sia una società a maggioranza musulmana e che i serbi del Kosovo, molti dei quali sono cristiani ortodossi, costituiscano una minoranza, rappresentare il conflitto o le tensioni in termini religiosi semplifica eccessivamente una questione profondamente politica, storica ed etnica», ha spiegato Festim Rizanaj, un fact-checker di Hibrid.info, a Pagella Politica.

Alla base del lungo conflitto tra Serbia e Kosovo ci sono, più che motivazioni religiose, «questioni di identità nazionale, controllo territoriale e autonomia politica».

Questa versione dei fatti è stata confermata a Pagella Politica anche da Giovanni Savino, professore di Storia contemporanea e di Storia dell’Europa Orientale all’Università Federico II di Napoli. «In Kosovo le tensioni sono iniziate negli anni Ottanta e sono legate a quello che era lo status di autonomia della regione. Sono proteste legate a una questione nazionale ed etnica, ossia lo scontro tra la popolazione kosovara di origine albanese e quella di origine serba», ha spiegato Savino.

Il conflitto tra serbi e albanesi esplose alla fine degli anni Novanta, quando il presidente della Serbia Slobodan Milošević avviò una campagna repressiva contro la popolazione kosovara-albanese e l’Esercito di Liberazione del Kosovo, un gruppo paramilitare che lottava per l’indipendenza.

La repressione serba spinse la NATO a intervenire con l’operazione Allied Force, a cui partecipò anche l’Italia: da marzo a giugno 1999, l’alleanza militare bombardò la Serbia e la sua capitale Belgrado. La campagna portò alla resa serba e il Kosovo fu riconosciuto come una regione autonoma, posta sotto il controllo delle Nazioni Unite. Nel 2008, il Kosovo ha infine dichiarato l’indipendenza, che però la Serbia continua a non riconoscere.

Tra realtà e propaganda

Stabilire con esattezza quanti serbi vivano oggi in Kosovo non è facile, a causa del boicottaggio del censimento da parte di questa minoranza, messo in atto su spinta dei partiti politici serbi. Secondo alcune stime, i serbi rappresentano circa il 5 per cento della popolazione in Kosovo.

Rizanaj ha spiegato che questa minoranza «sta affrontando delle sfide, in particolare nel Nord del Kosovo e in altre enclavi, dove le questioni di sicurezza, integrazione e rappresentanza politica rimangono sensibili». «Alcuni individui e gruppi all’interno di questa comunità resistono alle istituzioni del Kosovo, spesso con il sostegno o l’influenza del governo serbo. Ma questa resistenza è di natura politica ed etnonazionale, non religiosa», ha proseguito il fact-checker di Hibrid.info.

Perché allora Salvini ha parlato di una «minoranza cristiana»? Secondo Faik Ispahiu, direttore dell’organizzazione non governativa Internews Kosova, che promuove i media indipendenti nel Kosovo, questa è una narrazione portata avanti dall’estrema destra nazionalista europea.

«In pratica, per questi politici il bombardamento della Serbia da parte della NATO alla fine degli anni Novanta sarebbe stato un errore politico, perché avrebbe portato alla liberazione degli albanesi musulmani, che hanno popolato il Kosovo, costringendo i serbi cristiani che vivono nella regione a una situazione difficile a causa della repressione albanese», ha spiegato Ispahiu a Pagella Politica.

Va comunque ricordato che i bombardamenti NATO furono effettuati senza l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e sono ancora oggi oggetto di critiche. Secondo l’organizzazione non governativa Human Rights Watch, l’operazione militare della Nato causò la morte di circa 500 civili serbi.

Savino ha sottolineato che ricondurre la situazione attuale in Kosovo a quei bombardamenti «è riduttivo», perché trascura tutto ciò che è avvenuto dopo. Anche secondo lo storico, il discorso di Salvini si inserisce in una narrazione usata dall’estrema destra europea, funzionale alla propaganda nazionalistica serba e filorussa.

«All’epoca la Russia fu certamente uno dei Paesi che non apprezzarono l’intervento della NATO in Serbia e che, anzi, lo videro malissimo. E ancora oggi la Russia si oppone all’autonomia del Kosovo», ha spiegato Savino, che è esperto di Russia ed Europa Orientale.

«Il punto però è che per Putin non si tratta di una questione religiosa, non si tratta di difendere una minoranza cristiana. Il problema per Putin è politico, perché riconoscere l’autonomia del Kosovo vorrebbe dire ammettere che tutte le istanze autonomiste devono essere ascoltate, anche quelle all’interno della Russia stessa», ha aggiunto il professore.

Savino ha citato l’esempio della Cecenia, dove la Russia ha represso duramente l’indipendentismo tra la metà degli anni Novanta e i primi anni Duemila. La Cecenia è una repubblica della Federazione Russa confinante con la Georgia: la maggior parte della sua popolazione è musulmana.

«Il discorso di Salvini rimanda a una certa narrazione, molto edulcorata, secondo cui la Russia di Putin sarebbe l’unico difensore dell’integrità cristiana nel continente europeo. Questa però è una finzione, perché bisogna ricordare che in Russia ci sono 16 milioni di musulmani, molti dei quali sono appunto ceceni», ha aggiunto Savino. «Da parte di Putin non c’è mai stato davvero un discorso anti-islamico. Anzi, anche per convenienza politica Putin è sempre stato molto attento a sottolineare come i suoi valori siano quelli delle tre grandi religioni monoteiste, ossia cristianesimo, ebraismo e islamismo».

La Russia e la Serbia, comunque, non sono gli unici Paesi a non riconoscere l’indipendenza del Kosovo. Nell’Unione europea il Kosovo non è riconosciuto da cinque Paesi: Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia e Spagna. Fuori dall’Ue, non lo riconoscono Bosnia-Erzegovina, Georgia, Moldova, Ucraina e Cina. «Il Kosovo non viene riconosciuto dai Paesi che a loro volta hanno qualche problema con minoranze interne.

Per esempio, la Spagna non lo riconosce perché da anni ha notoriamente una questione aperta sia con la Catalogna sia con i Paesi Baschi, e riconoscere il Kosovo vorrebbe dire per la Spagna legittimare chi chiede maggiore autonomia rispetto al governo centrale», ha spiegato Savino.

I rapporti tra Lega e Serbia

Oltre alle recenti dichiarazioni di Salvini, la Lega ha sempre mostrato una certa vicinanza alla causa serba, anche ai tempi della Lega Nord guidata da Umberto Bossi.

Il 23 aprile 1999, durante i bombardamenti della NATO, Bossi andò a Belgrado per incontrare il presidente serbo Milošević, insieme ad altri esponenti del partito. «Noi siamo per la pace e vogliamo aiutare chi sta subendo questa guerra, che sia serbo o profugo del Kosovo», aveva dichiarato Bossi, che era stato il secondo politico italiano a incontrare Milošević, dopo Armando Cossutta (Partito dei Comunisti Italiani).

Le posizioni di Bossi sul conflitto tra Serbia e Kosovo erano chiare, nonostante il leader della Lega Nord si fosse presentato come un mediatore. «Io non credo che esista il progetto della “Grande Serbia”. Penso invece che esista il progetto della “Grande Albania”, finanziato da Bill Clinton [all’epoca presidente degli Stati Uniti, ndr] e anche dagli aiuti italiani che arrivano a Tirana.

Un progetto che mira a destabilizzare tutta l’Europa, a renderla debole e asservita alle lobbies di Washington», aveva detto Bossi a La Stampa, durante la sua visita in Serbia. «I serbi stanno difendendo il loro territorio», aveva aggiunto il leader della Lega Nord.

Secondo Bossi, dietro le richieste kosovare di indipendenza si nascondeva un disegno statunitense per disgregare definitivamente la Jugoslavia, lo Stato socialista di cui fecero parte alcuni Paesi dei Balcani, tra cui appunto la Serbia.

Fonti vicine allo stesso Bossi hanno spiegato a Pagella Politica che il leader leghista non era contrario all’autonomia del Kosovo in sé, ma all’interventismo degli Stati Uniti e ai bombardamenti della NATO. Durante il conflitto, l’Umanitaria Padana, un’associazione collegata con la Lega Nord, inviò aiuti umanitari e medicinali in Serbia e in Kosovo.

L’incontro Bossi e Milošević in un articolo de La Stampa del 23 aprile 1999 – Fonte: Archivio storico della Stampa (L’incontro Bossi e Milošević in un articolo de La Stampa del 23 aprile 1999 – Fonte: Archivio storico della Stampa)

I rapporti tra Lega e governo serbo sono proseguiti anche sotto la guida di Salvini. A maggio 2014, in un’intervista con il think tank geopolitico Il Nodo di Gordio, il leader della Lega ribadì una posizione simile a quella espressa pochi giorni fa durante il congresso della Lega a Firenze.

«Per il Kosovo sono intervenuti i bombardieri della Nato su Belgrado e si è trattato di un’indipendenza portata con le bombe e la guerra alla Serbia», aveva detto Salvini oltre dieci anni fa, ricordando l’impegno di Bossi contro i bombardamenti della NATO.

In più, Salvini aveva chiesto che fosse riconosciuta anche l’annessione della Crimea alla Russia. Da marzo 2014 la Crimea, che faceva parte dell’Ucraina, è stata di fatto annessa alla Russia dopo un referendum non riconosciuto dalla maggioranza della comunità internazionale.

All’epoca l’Assemblea generale delle Nazioni Unite aveva approvato una risoluzione per condannare l’annessione con 100 voti favorevoli, 58 astensioni e dieci Paesi contrari. «Mi domando: perché per USA e Unione europea l’INDIPENDENZA di Bosnia e Kosovo andava bene, e invece quella della Crimea no???»aveva scritto Salvini su Twitter (oggi X) a marzo di quell’anno.

Negli anni successivi, Salvini ha poi avuto alcuni incontri istituzionali con esponenti del governo serbo. A maggio 2019, quando era vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno del primo governo Conte, Salvini ha incontrato il presidente serbo Vučić, discutendo anche della questione del Kosovo. «Penso che possiamo contare sull’Italia come su di un amico sincero e su Salvini come amico del nostro Paese, e questo non è poca cosa per la Serbia», aveva detto all’epoca Vučić.

In quell’occasione, Salvini aveva assicurato il suo sostegno alla richiesta di adesione della Serbia all’Ue. La Serbia è uno dei Paesi che chiede da tempo l’ingresso nell’Ue, assieme, tra gli altri, allo stesso Kosovo. Più di recente, a luglio 2023 Salvini ha incontrato l’allora ministro della Difesa serbo Miloš Vučević, a cui ha rinnovato «la vicinanza al popolo serbo».

Tiriamo le somme

Ricapitolando: parlare della «resistenza» di una «minoranza cristiana» in Serbia, come ha fatto Salvini, è fuorviante sotto diversi aspetti.

Il primo è quello geografico, visto che gli eventi a cui il ministro si riferisce si stanno svolgendo in Kosovo, che è uno Stato riconosciuto dall’Italia, ma non dalla Serbia, da cui si è staccato nel 2008 dopo anni di conflitto.

In secondo luogo, inquadrare il conflitto in termini religiosi è riduttivo. Le tensioni tra Kosovo e Serbia hanno radici etniche e politiche, legate al nazionalismo e all’indipendentismo del popolo kosovaro, in gran parte di origine albanese.

Come ci hanno spiegato vari esperti, il racconto di una contrapposizione tra cristiani e musulmani – ripreso anche da Salvini – è parte di una narrazione costruita negli anni dall’estrema destra europea in chiave filorussa.

Sfilano i volti noti: Pd in delegazione (come un ospite) (corriere.it)

di Fabrizio Roncone

Il racconto

Giuseppe Conte ha dato appuntamento alla sua gente in piazza Vittorio, nel modaiolo quartiere Esquilino, multietnico, multivip, quindi anche multi problematico.

Questa è molto di più d’una manifestazione contro il piano europeo per il riarmo. Questa è anche una formidabile prova di forza politica.

Marco Travaglio sta per salire sul palco, ma la folla l’ha già avvistato e ondeggia eccitata, ci sono grida di evviva e certe che gli mandano baci strazianti. Lui — lo conoscete, non è esattamente un tipo schivo — risponde con sorrisi languidi. I fotografi cercano un primo piano del divo grillino.

Mischione, bolgia, gomitate. Ma quella non è la Taverna? «Ahò, ammazza quanti semo!». Si, è lei. Cronaca battente. Dettaglio fondamentale: il colpo d’occhio sul corteo della pace a 5 Stelle, che lentamente continua a inondare via dei Fori Imperiali, è magnifico. E inatteso, imprevisto, clamoroso.

Cronisti in circolo, adesso, dietro alle transenne. Vediamo di interpretarla bene: questa è molto di più d’una semplice manifestazione contro il piano europeo per il riarmo. Questa è anche una formidabile prova di forza politica. È Giuseppe Conte che dice a Elly Schein: guarda di cosa sono capace. E tu dovresti essere l’eventuale candidata premier?

Siamo arrivati qui sfilando, da subito, tra indizi scabrosi e perverse suggestioni, tenendo a mente una domanda spinosa, piena di politica primordiale: che razza di pacifisti sono questi grillini?

Giuseppe Conte — ricordatevi che siamo dentro la sua prima manifestazione da quando ha preso il comando del Movimento — è noto per avere in testa una strana idea di pace. Nei giorni in cui quel criminale di Putin invase l’Ucraina, e i suoi carri armati erano ormai a dieci chilometri da Kiev, fosse stato per lui, per l’avvocato di Volturara Appula, non avremmo dovuto mandare nemmeno una fionda agli ucraini, per aiutarli a difendersi.

Non solo: il capo dei 5 Stelle è anche un vecchio, caro e fidato amico di Trump, («Oh, Giuseppi, my friend!»), l’uomo che sta scassando il pianeta — e perciò se state pensando che c’è più di qualche similitudine con le posizioni di Matteo Salvini, state pensando bene.

Conte ha dato appuntamento alla sua gente in piazza Vittorio, nel modaiolo quartiere Esquilino, multietnico, multivip (però Paolo Sorrentino e Matteo Garrone, un anno fa, hanno traslocato), quindi anche multiproblematico, con la comunità cinese che vive nell’ombra di misteriosi androni e un tanfo perenne di cipolla e aglio, i bengalesi soffriggono e cucinano a tutte le ore del giorno e perciò spadellano anche mentre il corteo si forma, prende corpo, già s’intuisce che sarà grandioso, con le bandiere e gli striscioni, i cori contro la premier Meloni e la delegazione del Pd che si fa largo, mesta.

Ospiti di Michele Serra, a piazza del Popolo. E ospiti pure qui. Dal Nazareno, stavolta, hanno mandato il capogruppo al Senato, Francesco Boccia, più Sandro Ruotolo e qualcun altro, credo. Boccia avverte l’ostilità dei manifestanti, tutti pronti a portare crisantemi nel cimitero del Campo largo e a imbastire discorsi pieni di un populismo radicale (molti arrivano dal Sud e covano rancore per la fine del reddito di cittadinanza): viste tante prime pagine del Fatto esibite come vessilli, cartelli contro l’Europa matrigna, spontaneamente ignorato Trump, uno striscione affettuoso per Putin («Il popolo russo non è mio nemico»), applausi per Simone Cicalone, lo youtuber giustiziere della metropolitana romana (accompagnato, l’altro giorno, addirittura dal generale Vannacci, trattato ormai come un vigilantes qualsiasi).

E Rita De Crescenzo?

Morbosa curiosità di vedere l’influencer napoletana confrontarsi con il professor Alessandro Barbero sul piano della von der Leyen. Ma lei — con gigantesco bodyguard nero al seguito — di Barbero se ne frega: vuole parlare solo con Conte, e proporgli la sua candidatura (500 mila follower su Instagram, in effetti, sono una roba che pure due giganti della politica come Toninelli e Vito «orsacchiotto» Crimi, se la sognavano). Conte, però, la ignora. Fresco e senza cravatta, al diavolo la celebre pochette, risale il corteo per andare a salutare la delegazione del Pd (e a farsi baciare la pantofola).

Qualcuno ha visto Di Battista? No (Dibba, ormai, va solo nei talk dove pagano un gettone di presenza). E la Raggi? Lei ha fatto sapere di aver un altro impegno (si, vabbè). Da qualche parte dovrebbe esserci pure il professor Montanari. Michele Santoro c’è, e avanza tra gli incoraggiamenti. «Miche’, non mollare» (e quando mai).

Da sotto il palco, improvvisa botta di nostalgia canaglia. Guardando verso la Salita del Grillo, ecco laggiù l’hotel Forum: con il pensiero che corre a Beppone. Ti ricordi? Sceglievi sempre la suite con vista sul Colosseo e poi scendevi a sghignazzarci in faccia, dicendo che noi cronisti eravamo servi, fantasmi, lombrichi, solo vermi schifosi al cospetto del comico visionario che avrebbe abolito la povertà (come poi urlò quel genio di Luigi Di Maio affacciato dal balcone di Palazzo Chigi) e cambiato l’Italia.

Invece — giusto il tempo di inoculare nelle vene degli italiani il tremendo virus dell’Uno vale Uno, di sfondare la nostra economia — e sei sparito. Puff! Ti sei fatto sfilare il partito da Conte e ora noi stiamo proprio sotto il suo palco, infilati in una manifestazione che tiene insieme anche pezzi di pacifismo arcobaleno (Paolo Cento) e la coppia di Avs Bonelli&Fratoianni (il leader sinistrorso sfottuto da tutti per la Tesla di famiglia, «Attento che te la righiamo, eh?»).

Adesso, comunque, sta parlando Travaglio: «Quanti pacifinti putiniani!». Poi, compiaciuto, legge due lettere di saluto che gli sono state consegnate dalla Ferilli e dalla Morante (il povero Rocco Casalino assiste radioso: in tutto questo sfavillante casino grillino, Conte — per mesi — gli aveva ordinato di farsi vedere il meno possibile).