La neve di Mariupol’: Viaggio nell’Ucraina ferita tra speranza e resistenza (valigiablu.it)

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La rabbia ha preso il posto della paura. Mi sento tradita. Quello che sta cadendo sull’Ucraina non sono solo pezzi di metallo ed esplosivo. È l’idea stessa di umanità, sfracellata e stuprata, è l’idea di una giustizia che precipita. Penso al mio amore di adolescente per la letteratura russa, per le babushke, la Transiberiana, i boschi di betulle, le steppe innevate. Penso anche alle manifestazioni in piazza a gridare: «Fuori l’Italia dalla Nato, fuori la Nato dall’Italia». Di tutto questo non rimane che l’immagine dell’uomo con la cravatta color vinaccia.
(Monica Perosino, La Neve di Mariupol).

Esattamente due anni e due settimane fa, Monica Perosino, giornalista de La Stampa, pubblicava il suo primo libro. La neve di Mariupol’, edito da Paesi Edizioni, usciva il giorno del primo anniversario dell’invasione russa su larga scala dell’Ucraina.

Quello di Perosino è un vagare nell’Ucraina profonda, subito dopo che saltano i suoi piani iniziali; quelli di incontrare una donna, Kateryna, in un caffè davanti al teatro drammatico di Mariupol’, tristemente noto a livello internazionale perché da lì a poco sarà distrutto dai russi nonostante la scritta ‘дети’, bambini in lingua russa, a caratteri cubitali davanti alla struttura.

Lì vicino Perosino avrebbe dovuto intervistare la donna nel pomeriggio del 24 febbraio, ma l’incontro viene rinviato a data da destinarsi, e poco dopo Kataryna smette di rispondere ai messaggi della giornalista italiana: le truppe del Cremlino hanno attraversato il confine ucraino da diverse direzioni e il porto sull’Azov è prossimo all’accerchiamento. Durante le prime settimane dell’invasione le storie ruotano intorno agli spostamenti di Perosino, che tenta di ritrovare un contatto con la donna di Mariupol’ con ogni mezzo a sua disposizione.

La giornalista non toccherà mai la neve di Mariupol’ con le proprie mani, sebbene essa rimanga onnipresente nei suoi pensieri, nell’ansia sfogata con sigarette all’anguria, compagne di viaggio mentre da Dnipro a Charkiv passando per Zaporižžja, Cherson e il Donbas profondo.

Perosino incontra la parte più misteriosa di quella Ucraina che aveva solamente incominciato a conoscere e, non fosse stato per l’invasione, avrebbe lasciato a cuor leggero il 28 febbraio 2022. Proprio oggi Perosino fa invece ritorno in Ucraina per l’ennesima volta: in questi tre anni ha sviluppato un legame con gli ucraini che va al di là del dovere di cronaca o della solidarietà politica.

“Quando è in ballo la sopravvivenza fisica, si ritorna a una dimensione primordiale della vita. In questi casi, anche pochi giorni di conoscenza creano un legame profondo,” Perosino racconta a Valigia Blu. “Sin dal primo viaggio gli ucraini mi hanno insegnato l’importanza dei principi di umanità, giustizia e autodeterminazione. Quest’ultima non è mai libera da manipolazioni esterne, in nessun contesto, ciò è ovvio. Non per questo non vale la pena lottare per ciò in cui credi e per ciò che vuoi essere. E io questo lo rivedo anche in quei russi etnici che, dall’interno delle zone occupate, lottano sotto traccia per dimostrare a loro stessi e al mondo esterno di essere ucraini”.

Perosino ha recentemente raccontato sulle pagine de La Stampa la resistenza all’occupazione russa della sua categoria sociale preferita dello spazio post-sovietico, le babushke, cioè quelle signore anziane, inconsapevoli maestre di vita, il cui carattere e carisma è peculiare nell’Europa dell’Est.

Nel libro il tempo si restringe, e solo talvolta, quando l’autrice fa riferimenti espliciti alle notizie di attualità e del fronte nel suo primo anno – quello in cui la resistenza si scopre prima possibile, e poi eroica, conducendo alla liberazione di Kyiv, Chernihiv, Sumy, Charkiv e Kherson – si riesce a intuire in quale fase della guerra ci si trovi.

In quello che è un viaggio in costante evoluzione e ricalibramento nel profondo dell’Ucraina meridionale e orientale non occupata dai russi, la dimensione geopolitica è solo un orpello, utile al più a contestualizzare le storie delle persone comuni, quelle che Putin proclamava di difendere e da cui si aspettava accoglienza e riconoscenza, piuttosto che bombe molotov e fughe di massa verso l’Ovest.

Nella prima parte di La neve di Mariupol’ prendono vita le sensazioni delle prime settimane di guerra, che molti ucraini rivivono (e rivivranno) in questo periodo proprio ogni anno, ripensando a cosa facessero, dove si trovassero, durante l’alba insonne del 24 febbraio.

In questi giorni quelle emozioni sono per molti riaffiorate, ben più del solito. Senza accorgersi si è arrivati al terzo anniversario, e portare la testa a quella prima settimana è oggi ancora più straniante di prima. Oggi che Kyiv deve guardarsi le spalle non più solo da Mosca, ma da Washington stessa, da quando Donald Trump è diventato Presidente degli Stati Uniti.

Come accennato, il libro è soprattutto una raccolta di testimonianze, storie simili a quelle di milioni nei territori occupati che da anni non hanno più orecchie ad ascoltarle, né una penna libera nel registrarle. Una delle pochi immagini della Storia, quella scritta dai maschi forti a capo delle principali potenze mondiali, che ritorna nel libro, è appunto l’immagine dell’uomo con la cravatta color vinaccia, un ovvio riferimento al presidente russo mentre pronuncia il suo cinico discorso che annuncia l’invasione della Russia in Ucraina e centinaia di migliaia di morti sul suolo ucraino, al momento occupato per quasi il 20% da Mosca.

Oggi che Perosino ritorna in Ucraina l’immagine che si accumula nei pensieri e nelle analisi è di un altro maschio alfa con una cravatta dal rosso ben più acceso. Il colore simbolo dei Repubblicani negli Stati Uniti e indossato da Trump mentre tentava di umiliare il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, per convincerlo ad ammettere che la distruzione in Ucraina è in fondo colpa di una mancanza di arrendevolezza e condiscendenza del suo leader politico.

Perosino cita Zelensky poche volte nel suo libro. Al centro del suo viaggio ci sono le persone, soprattutto quelle che cambiano opinione sui rapporti storici tra russi e ucraini, sull’Europa, su Mosca e sé stesse.

“Ho attraversato steppe innevate, vite altrui, pensieri, ricordi, paure di persone mai incontrate prima e poi le ho raccontate al ritmo di una al giorno. Una vita intera, a volte più di una, schiacciate in centro righe spedite al giornale per cui lavoro. È un esercizio faticoso, perché sai che per quanti sforzi tu faccia, di quelle vite non ne hai colto che un bagliore,” scrive Perosino in uno dei primi capitoli, prima di introdurre Nina, che prepara khachapuri georgiani a Dnipro ed è malinconicamente convinta di essere “una persona semplice inseguita dalla guerra”.

In effetti la sua parabola è una descrizione perfetta di come Putin evolve in seguito alla celebre conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2007: il suo pellegrinaggio inizia nell’agosto del 2008, dopo l’invasione della Georgia. Si tratta del primo segnale, mettendo fra parentesi la Cecenia, delle intenzioni a lungo termine dell’autocrate russo.

Ammirato in prima istanza dal suo omonimo ucraino, di Charkiv, Vladimir, “il cui nome significa colui che possiede il mondo”, marito della sagace professoressa Nataliya, che a Perosino racconta: “io sono russa, Charkiv è la mia patria, e amo l’Ucraina”. Un cortocircuito per chi, anche tre anni dopo, confonde ancora russofili e russofoni in Ucraina.

Vladimir dimostra che pure i pensieri più radicali sono passeggeri e dipendenti dal contesto. La sua fascinazione per Putin, figlia di una nostalgia per l’Urss in cui Vladimir era all’apice di energia vitale e bellezza, svanisce nell’arco della prima settimana di distruzione in Ucraina e, oggi che vive in Repubblica Ceca, “è proprio lui che mostra rancore e odio verso Putin e i russi, ben più della moglie, filoucraina ben prima di lui,” ci racconta Perosino, rimasta in contatto con la maggior parte delle persone reali dietro le storie raccontate in questo mosaico dell’Ucraina sud-orientale.

Oggi che Monica è di nuovo in Ucraina, nel momento più decisivo degli ultimi tre anni, viene naturale chiederle: cosa aspettarsi dall’Ucraina stravolta dall’avanscoperta cinica e criminale dell’amministrazione statunitense? Cosa succederà di questo mosaico nelle prossime settimane, ma pure nei prossimi anni?

“In 24 anni in cui faccio questo mestiere, ho capito che sebbene sia importante partire con un’idea e un piano, non succede una singola volta che io non ritorni a casa con sorprese e prospettive inaspettate. Ovviamente, mi aspetto di vedere una popolazione civile e militare stremata dalla guerra, ma non ancora pronta a cedere – di certo non arresa alla legge del più forte. Tutti vogliono la pace, soprattutto gli ucraini, ma nemmeno in Donbas le babushke nostalgiche dell’Unione Sovietica mi hanno fatto trasparire cedimenti netti,” ci spiega Perosino.

“Vedo ancora fortissimi questi valori di giustizia e libera scelta nelle persone, sebbene, come visto con Trump, a volte la realtà sia un rullo compressore anche per le convinzioni e i principi più forti”.

(Immagine in anteprima: via Flickr)

Sonya, una babushka ucraina ottantenne, fotografata in bianco e nero

Vassalli aveva capito tutto: un processo accusatorio senza separazione resta inefficace (ildubbio.news)

di Oliviero Mazza

L’analisi

Nel 1989 si cercò di attuare una separazione funzionale interna al processo, ma senza la separazione tra giudice e pm, questa soluzione non ha avuto successo. Senza una riforma non si realizzerà mai un processo accusatorio garantista

Per un accidente tanto fortuito quanto fortunato, abbiamo oggi la possibilità, sarebbe meglio dire il privilegio, di apprendere dalla voce di uno dei padri del processo accusatorio quanto la separazione delle carriere sia consustanziale al modello che ha ispirato la riforma del 1989.

L’intervista ritrovata a Giuliano Vassalli è di un’attualità sorprendente, sebbene raccolta dal Financial Times nel lontano 1987, alla vigilia dell’entrata in vigore di quella epocale riforma del processo accusatorio intestata, oltre che allo stesso Guardasigilli del tempo, al presidente della Commissione ministeriale Gian Domenico Pisapia.

In Vassalli è saldissima la convinzione che non si possa ritenere nemmeno tendenzialmente accusatorio un sistema processuale che prescinda dalla separazione ordinamentale del giudice dal pubblico ministero. Stimolato dalle intelligenti domande di un giornalista anglosassone intriso della cultura processuale adversary, Vassalli ricorda che «parlare di sistema accusatorio laddove il pubblico ministero è un magistrato uguale al giudice… che continuerà a far parte della stessa carriera, degli stessi ruoli… essere colleghi eccetera, è uno dei tanti elementi che non rendono molto leale parlare di sistema accusatorio».

Il ministro firmatario del primo codice di rito penale repubblicano ammette che, per onestà, si sarebbe dovuta addirittura togliere la qualifica di (tendenzialmente) accusatorio al suo progetto onde evitare una truffa delle etichette determinata proprio dalla mancata contestuale riforma dell’ordinamento giudiziario.

Qualifica che è rimasta «per ragioni di opportunità», al fine di scongiurare “una ulteriore spinta per la magistratura italiana per lasciare le cose più o meno come sono». Meglio, dunque, un’etichetta ottimistica piuttosto che un segnale gattopardesco tanto atteso dal potere della conservazione.

A distanza di 35 anni dall’entrata in vigore del codice che avrebbe voluto essere accusatorio, ma che non poteva esserlo fino in fondo a causa del difetto ordinamentale, e a 25 anni dalla riforma costituzionale del giusto processo triadico, in cui il giudice è terzo rispetto alle parti poste su un piede di parità, la denuncia di Vassalli si colloca in una singolare dimensione sospesa nel tempo, tra il profetico e l’attuale.

Separazione funzionale, imposta dal modello accusatorio, e separazione ordinamentale sono vasi comunicanti nella lezione di Vassalli: la prima non può essere effettiva senza la seconda e quanto più si edulcora la distinzione delle funzioni processuali tanto meno si sente la necessità di intervenire sulle carriere.

Vassalli è comunque un giurista pragmatico, consapevole delle resistenze della magistratura, da sempre marcatamente conservatrice sul punto («quello che la magistratura ha conquistato, non lo molla più»), e ritiene di poter compensare, almeno in parte, il difetto della struttura ordinamentale con una più netta distinzione dei ruoli processuali.

Realista o forse rassegnato, Vassalli avverte che «la magistratura ha un potere enorme… lo ha sul potere legislativo… è il più grande gruppo di pressione, è il più forte gruppo di pressione che abbiamo conosciuto, almeno nelle questioni di giustizia… in quarant’anni non c’è stata una legge in materia di giustizia che non sia stata ispirata e voluta dalla magistratura, la quale è diventata sempre più un corpo veramente corporativo».

Il j’accuse di Vassalli si completa con la descrizione «in linea pratica» di un ministro «circondato esclusivamente da magistrati» distaccati al ministero, una fotografia che non sembra ingiallire nel tempo e che rispecchia la realtà di un dicastero ancor oggi presidiato dai «fuori ruolo».

La lobby dei magistrati è il cuore politico dell’intervista. Vassalli non ne parla in modo generico, porta esempi concreti di condizionamenti che vanno dal veto alla elezione dei giudici costituzionali fino alle logiche del Csm per tornare al procedimento legislativo influenzato direttamente dal volere della magistratura.

In particolare, la legge di ordinamento giudiziario, la legge dei magistrati, appare a Vassalli «intoccabile» proprio per l’opposizione dei suoi destinatari naturali. Un vero e proprio corto circuito costituzionale, in cui i «giudici soggetti alla legge» impongono le loro scelte al legislatore, soprattutto quando in gioco c’è lo stato giuridico della magistratura.

L’Italia è un Paese a «sovranità limitata dalla magistratura, nelle questioni di giustizia»: questa è la perentoria e amara conclusione di uno dei più grandi giuristi del ’900, politico eminente e prima ancora partigiano. Un epilogo di attualità disarmante.

Ma torniamo alla cristallina lezione processuale di Vassalli. Nel 1989 si è tentata la strada della separazione funzionale interna al processo, non avendo allora, il potere politico, la forza di imporre la separazione ordinamentale fra giudice e pubblico ministero.

A distanza di 35 anni, possiamo dire che l’escamotage non ha purtroppo funzionato e che, senza la base ordinamentale separata, le funzioni non saranno mai veramente distinte, come invece postula un processo schiettamente accusatorio- garantista.

Il contesto politico attuale appare, tuttavia, ben diverso da quello descritto nell’intervista, e lascia intravedere qualche spiraglio per il superamento delle profetiche conclusioni tratte da Vassalli.

La maggioranza parlamentare è stata eletta sulla base di programmi che riportano in epigrafe la proposta della separazione delle carriere, mentre la Costituzione, a partire dalla riforma del 1999, impone la terzietà del giudice quale carattere ordinamentale indefettibile, concettualmente ben distinto tanto dall’imparzialità quanto dall’indipendenza.

Democrazia, rispetto della volontà popolare e della Costituzione sono argomenti difficili da superare persino per la magistratura associata, il «più grande potere di pressione» del nostro Paese.

Proclamazioni di onnipotenza e mari ridotti in polvere (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola Posta

Di Assurbanipal, sovrano assiro, si diceva che i suoi comandi polverizzassero i mari e le terre. Negli ultimi giorni Trump si vanta di aver tolto le caramelle a Zelensky, Musk dice di voler uscire dalla Nato e togliere Starlink all’Ucraina.

Finirà in polvere

Domenica, al British Museum, che contiene tanta parte della favolosa Biblioteca di Assurbanipal, nella magnifica galleria assegnata all’Assiria, ho letto un’iscrizione in risalto, dice: “I suoi comandi polverizzano i mari e le terre”. Mi ha colpito, con la proclamazione di onnipotenza, l’immagine dei mari ridotti in polvere, il mare in polvere.

Assurbanipal era un gran sovrano, a Ninive, (di fronte alla nostra Mosul) dove visse fra il 685 e il 631 a.C. Secondo gli storici il suo regno segnò l’apogeo della potenza e della civiltà assira, e anche, come succede, l’inizio della decadenza. Fatto erede dal padre Esarhaddon, che lo preferì al maggiore Shamash-shun-ukin, strappò al geloso fratello il regno di Babilonia, distrusse il regno degli Elamiti, ma non riuscì a riconquistare l’Egitto.

Fu cultore e protettore delle scienze e delle arti. La sua biblioteca contenne probabilmente più di 10 mila testi, fra i quali l’Epopea di Gilgamesh. Il British Museum conserva quasi 31 mila tavolette d’argilla cuneiformi scampate a distruzioni, incendi e dispersioni.

Una leggenda identificò Assurbanipal con Sardanapalo, e ne fece un campione di dissolutezze, omosessuale e travestito, fautore della morale secondo cui la vita importa solo per il piacere, specialmente sessuale. Una simile figura sarebbe stata saccheggiata da poeti e artisti, Dante e Foscolo, Byron e Eugène Delacroix, che ne dipinse l’attesa della morte in una fiammeggiante cruenta scena di strage di giovani concubine, un sontuoso morboso femminicidio – e di servi, e un cavallo.

Sono uscito dal portale dei grandi tori alati con la testa umana di Khorsabad, e ho scorso le ultime.

Trump si era vantato di aver tolto le caramelle al ragazzino Zelensky, Musk aveva detto di voler uscire dalla Nato, e che senza Starlink l’Ucraina era fritta – la friggitoria russa infieriva, con le difese ucraine accecate. Eccetera.

Li ho visti insieme, l’intera corte, i bellimbusti di Mosca e i bellimbusti di Washington. Ci si chiede: come andrà a finire? Polvere. In polvere.

Il pacifismo baro di Conte, e la tragicommedia della sinistra sulla difesa europea (linkiesta.it)

di

Il Lenin di Volturara

Il capo del Movimento 5 stelle manifesta a Strasburgo, portandosi i deputati da Roma, contro «l’Europa guerrafondaia» per strappare voti a Fratoianni e alla segretaria del Pd, che continua a tentennare nel paese delle meraviglie.

Per fortuna le famiglie politiche europee serie, a cominciare da quella socialista, non sono guidate da quaquaraquà

La gran commedia all’italiana del centrosinistra approda oggi a Strasburgo, dove Giuseppe Conte va a protestare contro «l’Europa guerrafondaia», come scrive su Facebook l’eurodeputato contiano Mario Furore, nomen omen.

L’ex presidente del Consiglio si è fatto accompagnare da cinquanta parlamentari italiani (chissà quanti scontrini, chissà quante rendicontazioni delle spese a carico dei cittadini italiani) con i quali – ha annunciato Pasquale Tridico via email ai colleghi eurodeputati – oggi alle 11.30, al grido di «NoRearmEU», Conte farà una sceneggiata in favore di telecamere (e anche di una potenza straniera) davanti l’Emiciclo di Strasburgo, e trasformerà in curva sud la tribuna ospiti dell’Aula al momento dell’intervento di Ursula von der Leyen.

Giuseppe Conte ha lanciato un’Opa sul pacifismo diciamo così di sinistra (mentre il vecchio sodale Matteo Salvini l’ha lanciata sul mondo bruno, di destra), nello smaccato tentativo di strappare voti alla sinistra più radicale di Nicola Fratoianni e naturalmente al competitor numero uno, il Partito democratico di Elly Schlein.

È chiaro che di pacifista l’avvocato del popolo ha poco o nulla. Quand’era presidente del Consiglio ha abbastanza coccolato Vladimir Putin – memorabili i camion dell’esercito russo in Italia appena scoppiato il Covid senza che vi fosse una giustificazione – e intrattenuto ottimi rapporti con un tipo poco rassicurante come Donald Trump.

Nei suoi vaneggiamenti, Beppe Grillo contemplava una striatura arcobaleno, e non si può dire che in lui fosse stonata. Ma Conte è un’altra cosa. Un uomo senza scrupoli, alla continua ricerca di consensi come un affamato del pezzetto di pane, soprattutto, come detto, se in questa azione famelica può arraffare voti a Schlein.

La quale finora ha fatto finta di nulla («testardamente unitaria»): non solo non contrattacca, ma fa sua la linea di Conte pur di non perdere il contatto con lui e soprattutto con un pezzo grande della base del partito.

Però la segretaria del Pd non può certo avere i toni ferocemente antieuropeisti di Conte: chi lo ha visto domenica sera alla trasmissione di Fabio Fazio avrà colto un furore contro il ReArmEu che in un mondo normale dovrebbe rimettere in discussione la possibilità di candidarsi al governo con questi qui (c’è persino chi ha ipotizzato Conte alla Farnesina).

Il problemone ricade per l’ennesima volta sulle spalle di Elly Schlein, partita lancia in resta contro il Piano dei ventisette e via via rimasta isolata tra i socialisti europei e contraddetta da esponenti come Romano Prodi, Paolo Gentiloni, Enrico Letta, e scusate se è poco.

E se cambiasse linea, nella commedia all’italiana che è il centrosinistra, si troverebbe a sorpresa contro un Matteo Renzi anch’egli furioso quasi quanto Giuseppi con Ursula von der Leyen, questa «algida burocrate» autrice della «sparata» degli ottocento miliardi per il ReArmEu.

Il leader di Italia viva ritiene che i soldi andrebbero spesi in modo diverso, anche se non dice come, che è un modo elegante per bocciare sostanzialmente anch’egli il Piano piazzandosi dalle parti dei gialloverdi e di quella sinistra che, ricambiato, ha sempre detestato.

Il paradosso sarebbe averlo fatto per dare una mano a Elly, da cui ormai nulla lo distingue, proprio alla vigilia di un possibile dietrofront della numero uno del Nazareno. Infatti la risoluzione della maggioranza Ursula (S&D, popolari, liberali e conservatori) che verrà votata domani a Strasburgo conferma l’appoggio al ReArmEu, richiede di esplorare il sistema degli European Defence Bonds per finanziare in anticipo gli investimenti militari su larga scala, chiede di esplorare l’uso dei Coronabond non utilizzati per lo strumento di difesa, invita la Bei e le banche private europee a investire più attivamente nell’industria europea della difesa e infine chiede di eliminare le attuali restrizioni al finanziamento della difesa e di studiare l’emissione di debito a destinazione vincolata per finanziare progetti di sicurezza e difesa.

Tutto questo è concordato con i socialisti e i democratici europei, dunque è difficile per gli schleiniani votare contro a Strasburgo, ma è altrettanto difficile votare a favore a pochi giorni dalla manifestazione di Roma ormai egemonizzata dai no al riarmo europeo.

Si prevedono, quindi, le solite furbate procedurali che consentiranno agli eurodeputati Pd astensioni, impegni improvvisi e voti contrari, ma per fortuna quasi tutti i riformisti, guidati dalla vicepresidente del Parlamento europeo Pina Picierno, voteranno sì. La commedia continua.

(LaPresse)